|
LA SOCIETÀ
DELLA PAURA RINUNCIA ALLA LIBERTÀ
La
produzione di scarti umani è una delle industrie del capitalismo che non
conosce crisi. E sono proprio quegli esclusi dalla società ad essere
indicati come l'origine dell'insicurezza
Gli
americani sono coperti
di debiti fino alle
orecchie...
Un'intervista
con lo studioso polacco
di
Benedetto Vecchi
intervista
a Zygmunt BAUMAN
Lo sguardo
mite di Zygmunt Bauman si accende ogni volta che si posa su un uomo o una
donna
che parla a voce alta con un telefono cellulare. E così lo guarda
divertito, pensando forse che oltre alla paura e all'amore anche la privacy
è diventata liquida. A Roma per partecipare ai lavori del World Social
Summit sulle «Paure planetarie», lo studioso di origine polacca è curioso di
capire cosa sta accadendo nel nostro paese. Paese che ha cominciato a amare
con la lettura, molti anni fa, dei romanzi di Italo Calvino e di Antonio
Gramsci. Autore prolifico, a chi gli chiede come sta procedendo il suo
affresco sulla globalizzazione Bauman risponde che procede, anche se è
convinto che occorre modificare alcune parti del disegno, perché la
globalizzazione sta cambiando pelle, senza però nessun ritorno al passato
all'orizzonte. Teorico della modernità liquida, attualmente sta studiando
come in un mondo dove tutto è diventato fluido e dove l'individualismo
sembra essere l'alfa e l'omega delle società contemporanee, il bisogno di
stare in società si stia facendo largo seppure con difficoltà. Di tale
bisogno e di come esso si manifesti ne scrive in alcuni saggi raccolta dalla
casa editrice Diabasis con il titolo Individualmente insieme (pp. 137, euro
10). Bauman sostiene tuttavia che tale bisogno è simmetrico rispetto a
quella vita liquida dove l'identità, le relazioni sociali sono all'insegna
della contingenza. E alla domanda se tale necessità di stare in società
possa essere affrontata con la nozione di «individuo sociale» sviluppata da
Karl Marx, preferisce parlare di ambivalenza, di processi contraddittori,
talvolta aspramente confliggenti l'un con l'altro, che rendono nuovamente
necessario affrontare il tema del «male», argomento che è al centro di un
recente saggio che Bauman ritiene adeguato per mettere l'argomento sui
binari giusti e che ha voluto introdurre anche nella edizione italiana. Si
tratta di Amore per l'odio. La produzione del male nelle società moderne del
giovane filosofo polacco Leonidas Donskis (Erickson edizione). Paura,
esclusione sociale, produzione del male: sono gli elementi che Bauman
ritiene «gli effetti collaterali» proprio di quella globalizzazione che gli
ideologi del libero mercato hanno presentato come il migliore dei mondi
possibili. Ma come ama sempre ripetere: il pessimismo della ragione non deve
necessariamente coincidere con la rinuncia all'azione e si deve nutrire di
molto ottimismo della volontà.
Nella sua
analisi sugli «scarti umani», lei scrive che la loro produzione costituisce
una delle industrie più prolifiche del mondo. Uno degli effetti della
globalizzazione è l'aumento dell'esclusione sociale e il ridimensionamento
del welfare state. Inoltre lo stato-nazione sempre più si caratterizza per
le misure contro i «portatori» di insicurezza. Insomma è uno «stato della
paura». Cosa ne pensa di questo cambiamento avvenuto nel ruolo dello
stato-nazione?
Il mondo contemporaneo, con la sua compulsiva e ossessiva bramosia di
modernizzare, ha determinato lo sviluppo di due industrie di «scarti umani».
La prima è un cantiere sempre aperto, sebbene non produca direttamente
«scarti umani». È un'industria popolata da «inadatti» esclusi dalla società
a cause delle loro «carenze» nel partecipare alle forme di vita dominanti.
La seconda è di recente costituzione e il suo sviluppo non conosce crisi.
Potremmo chiamarla l'industria del progresso economico e produce un
impressionante e sempre più crescente numero di «avanzi umani»: quelle donne
e uomini per i quali non c'è più posto nell'economia e che per questo non
hanno nessun ruolo utile da svolgere. Sono uomini e donne che non hanno
nessuna opportunità di poter avere il denaro sufficiente per condurre una
vita soddisfacente o almeno tollerabile. Lo stato sociale è stato un
ambizioso tentativo di scongiurare la presenza di queste due industrie. È
stato un progetto politico che aveva come obiettivo l'inclusione universale,
ponendo così termine alle pratiche di esclusione sociali allora esistenti.
Indipendentemente dal fatto che i successi ottenuti abbiano messo in secondo
piano i suoi punti deboli, il welfare state è stato scalzato via, mentre le
due industrie di cui parlavo prima sono tornate in azione e lavorano a pieno
regime. La prima produce «alieni»: sans papiers, immigrati clandestini,
richiedenti asilo politico e ogni sorta di «indesiderabili». La seconda
industria produce invece «consumatori difettosi». In entrambi i casi
contribuiscono alla crescita dell'«underclass», costituita da uomini e donne
che non trovano posto in nessuna delle classi sociali esistenti. Sono i
profughi cacciati dal sistema di classe della società normale. Gli stati
nazionali sono ormai incapaci o più semplicemente non hanno nessun desiderio
o voglia di garantire ai suoi sudditi una sicurezza sostanziale, quella che
in un famoso discorso Franklin Delano Roosevelt chiamò «libertà dalla
paura». La conquista della sicurezza - il cui ottenimento e conservazione
garantiscono la legittimità e la dignità dei singoli di vivere in una
società umana - è oramai lasciata alla capacità e risorse di ogni individuo,
il quale deve farsi carico degli enormi rischi e della sofferenza necessari
che un obiettivo di questa portata necessita. La paura, che lo stato sociale
aveva promesso di sradicare, è dunque ritornata sulla scena con propositi di
vendetta. Molti di noi, indipendentemente dal posto occupato nella gerarchia
sociale, sono terrorizzati di essere esclusi perché ritengono di essere
inadeguati al cambiamento avvenuto.
In Europa,
la paura è il volto diabolico dei nuovi partiti populisti. Ma proprio in
Europa, e negli Stati Uniti, la criminalità - la cui presenza è sintomo di
insicurezza - è in diminuzione. Dunque: più diminuisce la criminalità, più
viene agitato lo spettro dell'insicurezza. Una vera e propria
contraddizione, se non aporia. Non crede?
La diffusa e impalpabile paura che satura il presente è usata da molti
leader politici come una merce da capitalizzare al mercato politico. Si
comportano come dei commercianti che pubblicizzano le merci e i servizi che
vendono come formidabili rimedi all'abominevole senso di incertezza e per
prevenire innominabili e indefinibili minacce. I movimenti e i politici
populisti stanno cioè raccogliendo i frutti avvelenati fioriti con
l'indebolimento e in alcuni casi con la scomparsa dello stato sociale. Sono
quindi interessati a far aumentare la paura. Ma solo quella paura che
possono manipolare per poi mettersi in mostra tv come gli unici protettori
della nazione. Il risultato è che la radice dell'incertezza e della
insicurezza sociale, che sono le vere cause dell'epidemia di paura che ha
colpito le moderne società capitalistiche, rimane intatta e si rafforza
sempre di più. Se la vita nelle periferie di Roma, Milano e Napoli è davvero
terribile e pericolosa, come viene normalmente affermato, non è perché gli
abitanti sono obbligati a vivere in condizioni terribili e perché esposti ai
pericoli derivanti dall'avere la pelle di una differente pigmentazione o
perché vanno in chiesa o al tempio in giorni differenti della settimana. Nei
quartieri periferici italiani, così come nelle banlieue di Parigi o
Marsiglia o nei ghetti urbani di Chicago e Washington, la vita è terribile e
pericolosa perché sono stati progettati come pattumiere per i reietti, per
scarti umani esiliati dalla «grande società». Uomini e donne che condividono
la stessa sorte, ma che li porta a configgere invece che a unirsi. Qualunque
siano i sentimenti che provano e le umiliazioni subite, sono uomini e donne
che non nutrono molto rispetto per i propri vicini, altri scarti umani ai
quali, come a loro, è stata negata qualsiasi dignità e diritto a un
trattamento umano. Sarebbe però disonesto qualificare il problema dei
migranti solo come un problema di «condizione sociale». Gli antichi rimedi
dei reietti - i disoccupati o i miserabili di Honoré Balzac - contemplavano
la rivolta o la rivoluzione. Oggi nessuno pensa davvero che la resistenza
alle attuali ingiustizie sociali possa venire dalle periferie. Soltanto i
mendicanti, gli spacciatori, i rapinatori, le bande giovanili si attendono
che ciò possa accadere. La grande maggioranza degli elettori è molto attenta
al comportamento dei leader politici e li giudica in base alla severità che
manifestano nella loro dichiarazioni pubbliche attorno alla «sicurezza». E i
leader politici fanno a gara tra di loro nel promettere di essere duri e
inflessibili contro gli «scarti umani» ritenuti i colpevoli dell'insicurezza
che attanaglia le società contemporanea. Nel vostro paese, partiti come
Forza Italia e Lega Nord hanno vinto le elezioni promettendo, tra le altre
cose, di difendere i sani e robusti lavoratori settentrionali da chi quel
lavoro può rubarlo, di garantire che non ci sarà mai la possibilità, per i
nuovi arrivati, di insidiare il frutto del loro lavoro e di difenderli da
vagabondi, accattoni, rapinatori. Per questi partiti, la possibilità di
avere una vita dignitosa e decente emergerà solo dopo che tutti gli uomini e
donne qualificati come scarti umani saranno schedati e messi sotto
controllo.
Nel suo
libro sull'Europa, lei scrive che il vecchio continente è condannato a
essere cosmopolita, indipendentemente dalla volontà dei singoli stati
nazionali. Eppure in molti paesi europei i partiti populisti o nazionalisti
aumentano i loro consensi...
Esiste una ideologia della globalizzazione e ci sono ideologie contro di
esse. Poi esiste un punto di vista che viene oramai chiamato
altermondialista perché prefigura un altro modello di globalizzazione. Ma
non dobbiamo dimenticarci che esistono anche i processi reali della
globalizzazione che essiccano ogni sovranità nazionale e che contrastano
ogni possibilità di sviluppo sostenibile e autosufficiente. Sono processi
che tessono una densa tela che avvolge la terra, definendo così ferrei
criteri di interdipendenza tra i paesi del pianeta. È un'interdipendenza che
ha assunto una forma capitalistica e si è imposta quando il mercato è
diventato la regola dominante. Così, mentre la circolazione dei capitali non
conosce limitazioni, gradualmente, ma con inflessibilità, sono state
cancellate tutte le forme economiche non capitalistiche. Un processo che
potrebbe essere liquidato come una mera invenzione ideologica. Oppure,
possiamo ignorare la globalizzazione, ma solo a nostro - e del pianeta -
pericolo. Sarebbe un drammatico errore, perché così facendo non affrontiamo
una della maggiori priorità del ventunesimo secolo: riportare sotto
controllo le forze economiche «liberate» dalla democratica forma di
regolazione a cui erano sottoposte. La tendenza in atto nel mondo si può
sintetizzare come il passaggio da un mondo di stati-nazione al mondo della
diaspora. Il tempo della paradossale alleanza tra stato, nazione e
territorio sembra infatti finito, mentre le lancette della storia sono
rivolte al passato. Alcuni paesi possono provare a resistere alla riduzione
della loro autonomia economica, politica, militare e culturale. Ma è sempre
più difficile che ci riescano.
Eppure il
neoliberismo è in crisi. La sua rappresentazione più drammatica è nel
fallimento di molti istituti di credito statunitensi. Molti studiosi parlano
espressamente sulla necessità di un ritorno dello stato come regolatore
della vita economica. Ma più che un ritorno al keynesismo sembra il
disperato tentativo di salvare il neoliberismo...
La invito a notare una cosa. Il governo statunitense è entrato in azione
soltando quando la suicida tendenza della globalizzazione a deregolamentare
completamente i mercati finanziari globali ha raggiunto il suo acme. E la
prego inoltre di notare che tutte le misure che sono state repentinamente
prese, segnando una contraddizione con i precedenti atti di fede fatti dalle
autorità federali, sono animate dalla volontà di salvare dalla catastrofe
solo «forti e i potenti». Sono cioè misure che mettono al riparo le élite
economiche, salvano i pescecani e non i pesciolini di cui i pescecani si
nutrono. In questo modo, tutti i pescecani si rafforzano, non corrono più
pericoli e possono tornare a muoversi liberamente nel grande mare che è la
globalizzazione neoliberista. In un fiorito editoriale del Financial Times
del 20 o 21 settembre, non ricordo bene, si poteva leggere che «i mercati
globali approvano» le azioni statunitensi per fronteggiare la crisi
finanziaria. Allo stesso tempo, erano riportate sobriamente alcune stime
sulla possibilità che avevano le «banche e gli istituti di credito di
recuperare le perdite, ricapitalizzarsi e tornare a fare affari».
Non una parola era spesa sui motivi che avevano provocato le perdite
economiche, né vi erano accenni sul perché i meccanismi di mercato ritenuti
fino allora ritenuti infallibili avevano fatto cilecca. Una tesi accreditata
che circola in queste settimane è che le misure del governo americano
potrebbero mettere a rischio le centinaia di miliardi di dollari dei
contribuenti americani solo per salvare gli istituti di credito. Accettiamo
pure questa tesi, ma io mi pongo alcune domande: chi sono questi
contribuenti?
In primo luogo, va detto che gli americani sono coperti di debiti fino
alle orecchie, che sono terrorizzati perché il valore delle imprese in
cui lavorano declina sempre più, con la possibilità di una loro bancarotta e
conseguente perdita del lavoro. Non è quindi detto, vista la situazione, che
il governo statunitense possa accedere a quelle centinaia di milioni di
dollari. Inoltre, sempre quel medesimo governo ha destinato altrettante
centinaia di milioni di dollari in spese militari per sostenere la guerra in
Afghanistan e in Iraq, tagliando al tempo stesso le tasse per i ricchi,
arricchendoli sempre di più. Potremmo dire che gli Stati Uniti si sono
comportati come milioni di cittadini americani che si sono indebitati per
continuare a vivere. Ora lo stato statunitense è depresso e vive grazie solo
a quell'istituzione che è il credito al consumo. Non può più andare avanti
così e allora chiede all'Europa, meglio spera che l'Europa, possa
temporaneamente aiutarlo a superare la crisi. Lo stesso si può dire
dell'aiuto che spera possa arrivare, in qualche forma, dalla Cina e dai
paesi arabi ricchi di petrolio. In altre parole, è uno stato insolvente che
sta facendo nuovi debiti per pagare quelli già accumulati, posticipando così
il giorno in cui l'ufficiale giudiziario passerà a chiedere il pagamento del
conto. Secondo le ultime indiscrezioni della stampa, il ministro inglese
della cancelleria Alistair Darling ha dichiarato che «proprio come un
governo non può combattere da solo il terrorismo globale o i cambiamenti
climatici, così non può fronteggiare le conseguenze negative della
globalizzazione». Vorrei però aggiungere a questa dichiarazione che «è la
globalizzazione stessa che vanifica l'operato di un governo, perché rende
impossibile a un singolo governo di risolvere la crisi del paese». Detto
in altri termini, la globalizzazione ha conseguenze globali che possono
essere affrontate solo globalmente.
Fonte il manifesto 27 settembre 2008
(La repubblica di tersite,
1 ottobre 2008) |
|