IL PUNTO
SULLA CRISI ECONOMICA E INDUSTRIALE MONDIALE
La
deregolamentazione dei
mercati,
centralizzazione dei
capitali, frammentazione
del lavoro.
A causa di questi tre
fenomeni interconnessi
il
capitale si è
progressivamente
rafforzato
sul piano sociale e
politico, mentre
il lavoro
e le sue rappresentanze
si sono progressivamente
indeboliti,
in tutta Europa e in
gran parte del mondo. Il
risultato principale di
questo spostamento nei
rapporti di forza è il
seguente:
negli aultimi
trent'anni....
Quell’ombra in fondo al tunnel
Editoriale
di
Emiliano
Brancaccio*
E’ giunta inattesa, ed è stata da molti sottovalutata[1]. Eppure
siamo di fronte alla crisi più grave dai tempi del
dopoguerra. Senza indugio, vi è chi già la paragona alla
Grande Crisi degli anni Trenta. Il confronto è prematuro
ma non del tutto azzardato. Basti notare che in questi
mesi la velocità di caduta del reddito e
dell’occupazione mondiale è arrivata a oltrepassare
quella che si registrò nel 1929[2].
Stando
alle previsioni del Fondo monetario internazionale, un
tale precipitoso declino determinerà per il 2009 una
riduzione del reddito reale dell’1,3% a livello
mondiale, del 2,8% negli Stati Uniti, del 4,2% nell’area
euro, del 4,4% in Italia[3]. E proprio oggi il
governatore della Banca d’Italia va oltre, prevedendo
per il nostro paese una caduta del reddito intorno a
cinque punti percentuale. Le pesanti conseguenze in
termini occupazionali sono evidenti in tutto il mondo, e
saranno ancor più marcate nel prossimo futuro. In
particolare, in Italia abbiamo già assistito ad una
esplosione delle ore di cassa integrazione. Stime
prudenti della Commissione europea prevedono
cinquecentomila disoccupati in più entro fine anno[4],
e Draghi parla oggi di un tasso di disoccupazione che
potrebbe ben presto superare il dieci per cento. Tra
l’altro, è importante chiarire che tutte le previsioni
sul 2009 sono fondate sulla aspettativa di una ripresa
mondiale nel 2010. E al momento è difficilissimo dire se
si tratti di una fondata previsione o di una mera
speranza[5].
Le tesi prevalenti: crisi da eccesso di avidità o di
credito
Sulle cause della crisi, si è fatto un gran parlare di
greed: cioè a dire di una immorale, sconfinata
avidità che avrebbe indotto manager, banchieri e
speculatori ad assumere comportamenti irresponsabili e
al limite truffaldini. L’abisso nel quale siamo piombati
sarebbe l’esito delle spregiudicate manovre compiute in
questi anni da una pletora di novelli Gordon Gekko, lo
spietato finanziere interpretato da Michael Douglas nel
celebre Wall Street di Oliver Stone. Tanto cara a
Obama, così come a Benedetto XVI, questa del greed è una
tesi che ha trovato largo seguito tra i media, ma vi è
motivo di credere che la realtà del problema sia ben
diversa dalla narrazione suggerita dalla grande stampa e
dalla televisione. Bisognerebbe infatti ricordare che i
vituperati agenti del capitale erano quasi tutti
rispettosi esecutori delle leggi: quella dello stato e
quella ancor più cogente del mercato. Lo dimostra il
fatto che le truffe sono state una goccia nel mare della
speculazione legalizzata, e che mantenevano i posti di
comando delle banche d’affari solo gli operatori capaci
di tenere i rendimenti dei titoli al passo con le
esplosive medie dei mercati. Delle chiavi di lettura
moralistiche quindi è bene non fidarsi. Il problema,
infatti, non è quello di rimuovere il marcio da un
sistema sano e prospero. Il problema è il sistema.
Non appena però ci si azzarda a mettere sotto accusa il
sistema nel suo complesso, ecco puntuali serrarsi i
ranghi dell’ortodossia, che subito propone una
spiegazione sotto vari aspetti minimalista del tracollo.
Infatti, la tesi più accreditata tra gli esponenti del
mainstream neoclassico è che le determinanti
della crisi siano da ricercare in una politica monetaria
americana lassista, e nell’assenza di vincoli all’uso
della leva finanziaria da parte delle banche. Stando
insomma alla interpretazione dominante, la recessione
sarebbe stata provocata da troppa moneta e da troppo
credito[6]. Ritenuti colpevoli di non aver saputo
anticipare la crisi, gli economisti del mainstream
appaiono dunque impegnati nell’esortare i governi a
irrigidire e a rendere più uniformi a livello mondiale i
sistemi di regolamentazione della finanza. Un invito che
a quanto pare trova diversi riscontri in ambito
politico, come dimostra la crescente attenzione
internazionale verso il legal standard, una
proposta avanzata dal ministro Tremonti al fine di
introdurre un comune codice etico globale dei mercati
finanziari e dei sistemi bancari[7]. Al momento
in verità non è chiaro se quella proposta da Tremonti
sia una mera carta d’intenti o una normativa dotata di
opportune sanzioni. Ad ogni modo, sia pure con diverse
sfumature sul piano delle coercizioni previste, è
indubbio che una maggior disciplina finanziaria trovi
d’accordo molti esponenti dell’ortodossia neoclassica[8].
Al tempo stesso, però, tra gli economisti ortodossi si
levano altrettanto numerose le grida contro una
eventuale ripresa delle regolamentazioni sul mercato del
lavoro. In particolare, alcuni economisti neoclassici
sono arrivati a dichiarare che l’introduzione di minimi
salariali o di vincoli ai licenziamenti finirebbe per
aggravare ulteriormente la recessione[9].
Una tesi alternativa: la crisi di un mondo di bassi
salari
Per quanto diffusa, l’interpretazione mainstream
della crisi appare sotto molti aspetti superficiale e
per certi versi fuorviante. Che l’espansione monetaria
americana e l’eccesso di leva abbiano giocato un ruolo è
un fatto evidente. Tuttavia questa non è semplicemente
una turbolenza finanziaria. La Federal reserve, la
finanza, il crollo dei mutui c’entrano tutti, ma
rappresentano i complementi di un meccanismo più
profondo, che può essere opportunamente messo in luce
adottando una chiave di lettura di tipo
storico-materialista, e traendo da essa lo spunto per
una rinnovata elaborazione della critica della teoria
economica dominante. Muovendoci lungo questo sentiero
alternativo di ricerca, possiamo affermare che questa è
la crisi di un sistema che compensava una tendenza
strutturale alle sproporzioni e alla sovrapproduzione
attraverso la creazione di continue bolle speculative[10].
In termini analitici, si può quindi definire questa
recessione una crisi speculativa da
sovra-sproporzioni[11]. Il che implica,
semplificando al massimo, che questa può essere anche
considerata la crisi di un mondo di bassi salari[12]. Dove
il riferimento è ai salari sia diretti che indiretti:
cioè direttamente erogati dalle imprese ma anche
indirettamente erogati dallo stato tramite i servizi
pubblici, il welfare, i diritti sociali universali.
L’odierno mondo di bassi salari rappresenta l’esito di
tre processi interrelati, che sono andati dispiegandosi
nell’ultimo trentennio in tutti i paesi OECD.
Innanzitutto, una vasta deregolamentazione dei mercati:
dei mercati finanziari, dei mercati delle merci, e
soprattutto del mercato del lavoro. Inoltre, una
impetuosa centralizzazione dei capitali: la proprietà
effettiva e il controllo effettivo del capitale sono
finiti in poche mani, in sempre meno mani. Infine, una
continua frammentazione e divisione dei lavoratori: oggi
abbiamo lavoratori identici, che svolgono mansioni
identiche, magari fianco a fianco, e che tuttavia
possono essere sottoposti a padroni, a contratti e
persino a leggi diverse. Dunque:
deregolamentazione dei mercati, centralizzazione dei
capitali, frammentazione del lavoro.
A causa di questi tre fenomeni interconnessi il
capitale si è progressivamente rafforzato
sul piano sociale e politico, mentre
il lavoro
e le sue rappresentanze si sono progressivamente
indeboliti,
in tutta Europa e in gran parte del mondo. Il risultato
principale di questo spostamento nei rapporti di forza è
il seguente: negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a
una divaricazione progressiva tra la produttività oraria
dei lavoratori e il salario lordo orario dei lavoratori.
La produttività oraria cresceva continuamente mentre il
salario orario arrancava,
spesso restava fermo al palo, e talvolta addirittura
regrediva. Questa divaricazione è stata globale. Tra il
1996 e il 2006, il divario tra produttività e salari
reali è aumentato di oltre 1 punto percentuale in
Italia, di 2 punti in Spagna e in Grecia, di 3 punti in
Austria, Finlandia e Francia, di 4 punti in Germania, e
così via. In Cina e nei paesi asiatici il divario è
stato ancora più grande. Ed è bene tener presente che
c’era un divario significativo anche negli Stati Uniti[13].
Questo scarto crescente tra produttività e salari indica
una cosa in fondo semplice: grazie al progresso tecnico
e grazie anche alla intensificazione dei ritmi
produttivi, i lavoratori sono stati in grado di produrre
sempre di più, ma non sono stati più in grado di
acquistare quel che producevano.
La capacità produttiva dei lavoratori dunque cresceva,
ma la loro capacità di spesa no.
Il processo tendeva oltretutto ad auto-alimentarsi. La
bassa capacità di spesa dei lavoratori dava luogo
infatti a una bassa domanda interna, e induceva quindi
le imprese dei vari paesi ad esercitare ulteriori
pressioni
al rialzo sulla produttività e al ribasso sui salari, in
modo da abbattere i costi unitari,
rendere più competitive le proprie merci e cercare
quindi
all’estero uno sbocco per la produzione
realizzata. Il problema è che così facevano le imprese
di tutti i paesi, in una corsa senza fine allo
schiacciamento delle retribuzioni e alla
intensificazione degli sforzi lavorativi. Ma allora, se
la forbice tra la crescente capacità produttiva dei
lavoratori e la declinante capacità di spesa degli
stessi andava progressivamente allargandosi, e se tutti
cercavano di
compensare
la conseguente
caduta della domanda interna tramite le vendite
all’estero,
chi mai comprava al fine di garantire la tenuta
complessiva del sistema?[14] La risposta è che
questo mondo di bassi salari ha potuto funzionare
soprattutto perché
gli Stati Uniti hanno lungamente agito come una
gigantesca spugna assorbente delle eccedenze produttive
mondiali.
Quel che gli altri producevano, gli americani lo
compravano.
Questa spugna sussisteva non certo perché i salari dei
lavoratori americani fossero alti, ma perché negli Stati
Uniti montava un debito privato eccezionale, in grado di
finanziare gli enormi acquisti di merci importate
dall’estero. Per avere un’idea della dimensione del
fenomeno, va tenuto presente che l’onda del debito
statunitense ha man mano coinvolto tutti gli strati
sociali della popolazione. Si è passati dai dirigenti ai
quadri del sistema americano, fino ad arrivare ai
lavoratori delle periferie estreme delle metropoli,
spesso già insolventi e pignorati. Il sistema era ormai
talmente drogato che permetteva a un operaio di pagare i
debiti di un mutuo accendendo un nuovo prestito, e di
rimborsare i soli interessi del prestito attivando una
carta di credito, e così via. Insomma, parafrasando
Hyman Minsky[15], potremmo parlare di
ultra-speculative working poors, cioè di poveri
tramutati loro malgrado in ultra-speculatori.
Il volto nuovo e feroce dell’America deflazionista
Alla fine però la bolla speculativa americana è
scoppiata. E’ quindi venuta meno la fiducia sulle
attività denominate in dollari, la cui continua
emissione faceva montare il debito privato americano.
L’effetto sugli equilibri mondiali è pesantissimo:
gli Stati Uniti non sembrano più in grado di fungere da
spugna delle eccedenze produttive mondiali.
Anzi, al di là dei proclami e delle apparenze, la
politica espansiva statunitense sembra essersi
improvvisamente trasformata nel suo opposto:
non più comoda spugna ma macchina da guerra commerciale.
All’epoca del boom speculativo gli Stati Uniti
alimentavano la domanda mondiale e in questo modo
contribuivano a mitigare gli effetti della sfrenata
competizione salariale nella quale si cimentava il resto
del mondo.
Adesso invece l’America si presenta anch’essa sulla
scena internazionale con intenzioni ferocemente
deflazioniste.
Con i sindacati in ginocchio, il dollaro sospinto verso
il declino e un governo pronto a erogare montagne di
denaro pur di rimettere in carreggiata le aziende
nazionali, oggi gli Stati Uniti non attenuano ma al
contrario rendono ancor più violenta la concorrenza
mondiale sulle retribuzioni e sulle condizioni di lavoro[16]. L’America
sembra insomma intenzionata ad abdicare dalla propria
leadership politico-monetaria globale.
La conseguenza è che
il sistema mondiale
non dispone più di una spugna assorbente, cioè
non dispone del meccanismo che garantiva la sua stessa
sopravvivenza.
E poiché sembra alquanto remota la possibilità di
individuare a breve termine una nuova spugna per le
eccedenze di produzione, ecco spiegato il motivo per cui
questa potrebbe rivelarsi una crisi lunga, per molti
versi refrattaria alle politiche economiche
convenzionali e soprattutto priva di contrappesi alla
dilagante deflazione salariale.
Quell’ombra in fondo al tunnel
Il governatore della Banca centrale europea ha aggiunto
di recente la propria autorevole voce a quelle di coloro
che insistono sull’idea che una luce in fondo al tunnel
della crisi finalmente si intravede. Di contro, negli
ultimi tempi si possono trovare in giro dei cartelli
stradali imbrattati da una scritta maliziosa: “a
causa della crisi economica, la luce alla fine del
tunnel è temporaneamente spenta”[17]. In
effetti, al momento la situazione appare talmente
incerta che questi ironici graffiti potrebbero rivelarsi
ben più azzeccati degli austeri bollettini emessi dal
banchiere centrale di Francoforte[18].
* Una versione estesa del presente articolo è in
corso di pubblicazione sulla rivista Marxismo oggi,
2009/1. Parte del materiale citato in questo articolo è
disponibile sul sito
www.emilianobrancaccio.it.
[1] «Questa è la più grande crisi finanziaria della
Storia. Rischia anche di essere una delle recessioni più
profonde e durature. La prima recessione davvero
globale, che avviene su scala planetaria. Nessuno di noi
redattori de lavoce.info, dobbiamo riconoscerlo, l’aveva
prevista. Molti di noi l’avevano sottovalutata». Dalla
introduzione dei redattori del sito lavoce.info al libro
a cura di Loriana Pellizzon (2009), Il mondo sull’orlo
di una crisi di nervi, Castelvecchi, Roma 2009.
[2] Barry Eichengreen, Kevin O’Rourke, A tale of two
depressions, in
http://www.voxeu.org/,
6 april 2009.
[3] International Monetary Fund, World Economic Outlook,
spring 2009.
[4] Corrispondenti a un incremento del tasso di
disoccupazione dal 6,8% del 2008 all’8,8% previsto a
fine 2009. Si veda European Commission, Economic
forecast, spring 2009.�
[5] Basti notare la quantità di ipotesi restrittive che
sono state stabilite per poter formulare le previsioni
del World Economic Outlook, cit. (le ipotesi sono
esplicitate nella premessa al documento).
[6] Sembra questo nella sostanza il parere di Alberto
Alesina e Francesco Giavazzi in La crisi. Può la
politica salvare il mondo? Il Saggiatore, Milano 2008.
Di simile avviso appare anche la maggioranza dei
contributi riportati nel volume a cura di Emilio Barucci
e Marcello Messori, Oltre lo shock. Quale stabilità per
i mercati finanziari, Egea, Milano 2009. Per un esempio
della influenza di questa interpretazione anche in
ambito divulgativo, si veda Massimo Gaggi, La valanga.
Dalla crisi americana alla recessione globale, Laterza,
Bari 2009. E’ interessante notare come questa
interpretazione sia stata subito condivisa dalle
rappresentanze degli istituti bancari. Per esempio, in
Italia l’ABI ha esplicitamente aderito ad essa. Del
resto, è noto che dopo il crack di Lehman Brothers la
fiducia e la patrimonializzazione delle banche sono
cadute, e gli istituti di credito hanno quindi optato
per una ferrea linea di razionamento del credito. Per
giustificare questo cambio di strategia – che molti
problemi ha comportato alle attività produttive – le
banche hanno quindi trovato naturale fare riferimento
agli economisti che attribuivano la crisi a un’epoca di
eccessi nelle erogazioni creditizie.�
[7] Giulio Tremonti, “La crisi è globale perché ha
origine nella globalizzazione”, Italianieuropei 1/2009.
Si vedano anche gli articoli apparsi sul Financial Times
del 16 gennaio 2009, sul Corriere della Sera del 10
marzo 2009 e sul Foglio dell’8 aprile 2009, dedicati
alla proposta di Legal standard internazionale in campo
finanziario e alla decisione del ministro di costituire
un team di esperti incaricato di redigere un “manifesto
del diritto futuro”, che definisca le basi per un
accordo tra i paesi.
[8] E non solo tra i neoclassici: alcuni economisti che
molto tempo fa potevano esser considerati di scuola
sraffiana hanno espresso pareri favorevoli sulla
iniziativa di Tremonti. Si veda Luigi Spaventa, Legal
standard una speranza per i mercati, in Affari&Finanza
di Repubblica, 19 gennaio 2009.
[9] Ad avviso di Alesina e Giavazzi, fu proprio
l’interventismo politico sul mercato del lavoro a far sì
che la recessione del 1929 si trasformasse in una grave
depressione: «Hoover intervenne nelle contrattazioni
salariali, impedendo alle imprese di tagliare le
retribuzioni. In un periodo di recessione e di
deflazione molte imprese non riuscirono a mantenere
costanti i salari e fallirono. L’interventismo nel
mercato del lavoro finì per rivelarsi controproducente:
invece di mantenere il potere d’acquisto dei salari e
sostenere la domanda la ridusse, aumentando
disoccupazione e miseria» (in Alesina e Giavazzi, cit.,
p. 26). La posizione di Alesina e gavazzi si basa sul
presupposto che la riduzione dei salari monetari attivi
un meccanismo in grado di ricondurre il sistema
economico verso la piena occupazione. Ma questa
assunzione è smentita dalla teoria e dai fatti. Basti
pensare che il calo dei salari può implicare una caduta
dei prezzi e dei redditi in rapporto agli oneri
finanziari, e quindi può condurre a una esplosione dei
fallimenti. Di fatto, Alesina e Giavazzi sembrano
proporre un ritorno alle tesi pre-keynesiane, ampiamente
superate dal dibattito novecentesco su flessibilità dei
salari e piena occupazione e ritenute oggi insostenibili
anche dai principali manuali americani di macroeconomia,
come ad esempio Olivier Blanchard, Macroeconomia, Il
Mulino, Bologna 2009 (di cui tra l’altro Giavazzi è il
curatore italiano).
[10] Appare invece più difficile dire se questa sia o
meno una crisi che attenga pure a una tendenziale caduta
del saggio di profitto. Il problema non verte tanto
sulla ascesa del saggio di profitto che è stata
empiricamente registrata negli ultimi anni. Potremmo
infatti trovarci semplicemente di fronte a una
controtendenza rispetto a un processo di più lungo
periodo. Piuttosto, vi sono i noti problemi di ordine
teorico derivanti dalla impossibilità di accettare la
interpretazione tradizionale del valore-lavoro, sulla
quale la versione originaria della legge di caduta
tendenziale del profitto si basa. Inoltre, sul piano
empirico sembra difficile trarre elementi di supporto o
di smentita della legge guardando ai soli dati relativi
a singoli paesi o a gruppi di paesi. Riteniamo in questo
senso che le eventuali verifiche empiriche della legge
andrebbero effettuate su un campione di dati
rappresentativo della intera economia mondiale o di una
parte altamente significativa della medesima. E’ bene
comunque precisare che eventuali elementi a sostegno
della legge, in quanto tali, non entrerebbero in
contrasto con l’interpretazione del crollo in termini di
“crisi speculativa da sovra-sproporzioni”, ma anzi
potrebbero ulteriormente rafforzarla. Ad ogni modo, a
sostegno della caduta tendenziale del saggio di
profitto, si vedano tra gli altri Gerard Dumenil e
Dominique Levy, Capital resurgent, Cambridge MA, Harvard
University Press 2004.
[11] Per un approfondimento sul paradigma di riferimento
teorico da cui traiamo spunto, si veda Emiliano
Brancaccio, “Una teoria monetaria della riproduzione
sociale”, in La crisi del pensiero unico, Franco Angeli,
Milano 2009.
[12] Per una esposizione didattica del confronto tra la
interpretazione ortodossa della crisi e la
interpretazione da bassi salari, si veda Emiliano
Brancaccio, Dispense integrative al manuale
Macroeconomia di Olivier Blanchard, Università del
Sannio, anno 2009 (riportate nella sezione didattica del
sito:
http://www.emilianobrancaccio.it/).
[13] I dati sono tratti dal database OECD. Per un
approfondimento sui dati europei rinviamo a Emiliano
Brancaccio, “Deficit commerciale, crisi di bilancio e
politica deflazionista”, in Studi economici, n. 96,
2008/3.
[14] Per una esposizione analitica del problema, mi
permetto di rinviare a Emiliano Brancaccio, “Una teoria
monetaria della riproduzione sociale”, in La crisi del
pensiero unico, cit.
[15] Sulla interpretazione della crisi capitalistica
basata sul concetto di posizioni finanziarie coperte,
speculative e ultra-speculative, si veda Hyman P. Minsky,
Potrebbe ripetersi?, Einaudi, Torino 1984. Di Minsky, si
veda anche la recente ristampa di Keynes e l’instabilità
del capitalismo, Bollati Boringhieri 2009, con una
introduzione inedita di Riccardo Bellofiore.
[16] La recente intesa tra Fiat e Chrysler ci pare
emblematica, in tal senso. Si veda Emiliano Brancaccio,
“Dietro l’accordo Fiat-Chrysler”, Liberazione, 3 maggio
2009.
[17] Marcello De Cecco, “Poca luce in fondo al tunnel”,
La Repubblica, Affari & Finanza, 11 maggio 2009.
[18] Del resto, il motivo per cui nei giorni scorsi si è
parlato di “luce in fondo al tunnel” è che si sono
semplicemente registrati alcuni, modesti segnali di
“rallentamento del deterioramento”, vale a dire di
minore velocità di caduta del reddito e dell’occupazione
(una variazione tra l’altro modestissima, come si evince
dall’indice €-coin della Banca d’Italia:
http://www.bancaditalia.it/).
Il timido ottimismo di Bernanke e Draghi di aprile, e
ora di Trichet, verte esclusivamente su questo tipo di
rilevazioni. Ed è curioso notare come alcuni esponenti
politici e padronali (tra i quali la presidente di
Confidustria Emma Marcegaglia) abbiano tradotto la
minore velocità di caduta del reddito con l’impropria
espressione “ripresa”. Tra l’altro, in assenza di una
“spugna”, vi è motivo di credere che anche nel momento
in cui una vera ripresa effettivamente affiorasse, la
dinamica del sistema sarebbe per lungo tempo
caratterizzata da ripetute “false partenze”: piccoli
slanci e immediate ricadute.
(pubblicato, sabato 30 maggio
2009)
*Emiliano Brancaccio, docente all'università del sannio |