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CI SONO due strade per cercare di uscire
dalla crisi della politica che è sotto gli occhi di tutti. La prima, è
quella di denunciare i ritardi e gli abusi della classe dirigente - tutta -
lavorando per una riforma del sistema che è necessaria e urgente, ma che
forse è ancora in tempo per salvare le istituzioni dal collasso e per
evitare che l'antipolitica diventi il sentimento prevalente del Paese. La
seconda, è quella di puntare direttamente sul collasso del sistema,
vellicando l'antipolitica per arrivare se non a una seconda ribellione
popolare in quindici anni almeno a una delegittimazione dei poteri
costituiti: in modo da aprire la strada agli "ereditieri", quel pezzo di
classe dirigente che non sa fare establishment ma sa proteggere molto bene
la sua dubbia imprenditorialità e la sua scarsa responsabilità, sperando
addirittura di ereditare il Paese. Come se in una democrazia, anche malata,
la cosa pubblica fosse scalabile al pari di un'azienda in crisi, trasferendo
in politica il network italiano delle scatole cinesi che consente di
comandare senza essersi guadagnati il comando, senza aver costruito o almeno
riammodernato qualcosa - come un partito, un movimento, un sistema culturale
- che parla
ai
cittadini e raccoglie il loro consenso semplicemente perché "poggia su una
intuizione del mondo".
Bisogna dire che i partiti e i loro leader fanno di tutto per deludere chi
crede nella prima strada, e aiutano chi punta sulla seconda. Solo la cecità
e la sordità italiana consentono di dire che l'allarme nasce oggi,
all'improvviso. In realtà, prima di Natale il Presidente della Repubblica
Napolitano (destinato ad avere un ruolo come quello di Pertini, denunciando
la crisi del mondo da cui proviene) aveva parlato chiaro e forte, lanciando
un vero e proprio allarme per la "tenuta" della democrazia, lamentando il
"distacco" tra politica, istituzioni e cittadini, ammonendo tutte le parti
politiche, perché nessuna si illudesse di "trarne vantaggio". Cosa ci voleva
di più? Siamo da almeno cinque mesi davanti al rischio conclamato di una
regressione democratica, con lo Stato che ritorna Palazzo, separato, trent'anni
dopo.
È chiaro che la sinistra, guidando il governo e il Paese, ha
le responsabilità maggiori di questo disincanto democratico, ed è naturale
che ne subisca le conseguenze maggiori, in termini di consenso. Ma è
altrettanto chiaro - e ripeto quel che ho scritto altre volte - che c'è
qualcosa di più generale, di sistemico, che sta intaccando le istituzioni e
corrode lo stesso discorso pubblico senza distinzioni, perché salta ogni
intermediazione riconosciuta e accettata, sia di tipo organizzativo che di
tipo culturale, dunque è la doppia anima della politica che viene colpita.
Tutta la politica.
Quando il sistema dei partiti fa lievitare in modo indecente i costi
della politica e si trasforma in "classe" privilegiata, autoprotetta e
onnipotente, controllando gli accessi, premiando l'appartenenza, puntando
sulla cooptazione dei fedeli e dei simili, lottizzando ogni spazio pubblico
con l'umiliazione del merito, corrodendo così la stessa efficienza della
macchina statale, allora diventa impossibile fare distinzioni tra destra e
sinistra. Quando a tutto questo si aggiunge da un lato l'esercizio
disinvolto e automatico del denaro pubblico per mantenere e far crescere
questo sistema autoreferenziale e dall'altro lato l'esibizione pubblica dei
privilegi, diventa difficile non parlare di "ceto separato", un tutt'uno
dove le differenze culturali e politiche che - per fortuna - dividono e
connotano i due schieramenti di destra e sinistra finiscono per essere
travolti dal sentimento indistinto di rifiuto e di lontananza che cresce tra
i cittadini.
Naturalmente l'anima originaria di Berlusconi, il suo istinto
mimetico del senso comune dominante e il carattere della destra italiana
possono portarlo a fingere di interpretare il risentimento democratico come
una sua possibile politica, perché in realtà l'antipolitica è una forma
primaria di espressione del populismo, che se ne giova mentre la nutre. La
sinistra, semplicemente, non può. Questo sentimento di progressiva perdita
della cittadinanza - perché di questo si tratta - la colpisce al cuore,
distrugge il canale di dialogo e di incontro con la sua gente perché fa
venir meno una piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura,
qualsiasi cultura di riferimento: come se con l'agibilità dello spazio
politico pubblico venisse a mancare un territorio in cui muoversi da
cittadini consapevoli dell'ambito di libertà nostro e altrui, del portato di
storia e di tradizione che ci definisce, dei nostri diritti e dei nostri
doveri. In questo senso, è drammatico il vuoto di ogni proposta di
cambiamento nel costume e nel metodo politico (la rinuncia alla
lottizzazione, la riduzione drastica del numero dei ministri, il rifiuto dei
privilegi, la riorganizzazione del tempo di lavoro del parlamento) da parte
del centrosinistra tornato al governo, dopo il quinquennio berlusconiano. La
sinistra radicale, mentre vuole cambiare il mondo vuole intanto cambiare
anche il cda delle Ferrovie, per avere un posto. La sinistra riformista, non
vede la riforma più urgente: e che credito riformatore può avere - si è
chiesto qui Adriano Sofri - una politica che non mostri di saper riformare
se stessa?
Un ritardo reso tragico dal paragone con i tempi del nuovo presidente
francese Sarkozy, che in due giorni ha fatto il governo, lo ha ridotto ai
minimi termini, lo ha rinnovato per metà con ministri-donna. Un ritardo reso
amaro dall'abbandono di Blair, che lascia il governo inglese all'età in cui
da noi normalmente vi ci si affaccia e lo fa nella convinzione di poter
avere una "second life" altrettanto piena e soddisfacente, cancellando lo
stereotipo della politica non come professione, ma addirittura come
vitalizio. Sia in Francia che in Gran Bretagna, nei discorsi di addio e di
investitura la retorica dei leader usa la coppia concettuale formata da "io"
e "voi", due parole che trasmettono molto semplicemente l'idea del vincolo
di mandato e anche l'idea del vecchio partito come animale politico vivo e
vitale, soggetto politico obbligatorio di riferimento, anche per leader
carismatici e decisionisti.
Da noi, i partiti sono nati tutti mercoledì scorso, non hanno storia,
tradizione, valori consolidati, una cultura di riferimento: tutte quelle
cose che fanno muovere e garrire le bandiere, che infatti non ci sono, o
restano ammosciate. Anche qui, ancora una volta, la nuova destra
berlusconiana prende a prestito i valori e i precetti nel deposito di
tradizione millenaria della Chiesa, mentre riempie il vuoto culturale con un
carisma vagamente paganeggiante e idolatrico che finge di restituire la
politica ai cittadini trasformati in folla mostrando il corpo mistico del
leader: mentre in realtà sottrae loro ogni partecipazione reale e per
sempre, ipotizzando addirittura una successione in forma dinastica,
capricciosa e incontrollabile, comunque autocratica.
Ma la sinistra, quanto può resistere sul mercato politico senza una
rifondazione di pensiero, senza idee-forti che diano sostanza alla sua
politica, la pre-determinino, e parlino della vita e della morte, dei grandi
temi, al cittadino? La parte radicale ha ancora il comunismo nelle sue
bandiere, e finché dura quel simbolo sconfitto dalla tragedia che ha
suscitato, ogni altra idea non è accostabile. I Ds sembrano credere che
diventare riformisti significhi annacquare ogni mattina la propria identità
nel mare turbolento del senso comune altrui. Come se gli strumenti propri di
una sinistra riformatrice, serena e radicale insieme, non fossero oggi
probabilmente i più adatti a governare le contraddizioni della fase:
basterebbe saperlo, e usarli, a partire dalla laicità.
Davanti a questi ritardi conclamati, al camaleontismo della destra,
alle cifre del disincanto svelate da Ilvo Diamanti, la sinistra ha tuttavia
una carta, che è il Partito democratico. Può banalizzarla, come sta facendo,
giocandola tutta dentro il mondo chiuso degli apparati, facendo di questo
partito l'ultima della creature politiche del Novecento, e allora si
misurerà soprattutto il ritardo, l'affanno, il costo tardivo
dell'operazione. Oppure, può farne il primo soggetto diverso del nuovo
secolo, per una nuova politica, contagiando la "cosa" che dovrà nascere
nella sinistra radicale, e forse persino il futuro partito conservatore, a
destra. Un partito, ha scritto Mario Pirani, forte perché leggero, potente
in quanto disarmato: e soprattutto, scalabile, infiltrabile, contendibile.
Da qui non si scappa: perché la riforma della politica parte da qui, se si
vuol fare sul serio.
Altrimenti, si inseguirà il fastidio popolare
crescente, da gregari spaventati, sperando che non si condensi in
quell'antipolitica in cui si entra tutti insieme, ma si esce soltanto a
destra. Sperando in più di evitare un nuovo collasso e una nuova supplenza,
anche perché non sempre il supplente si chiama Ciampi. "Benissimo il
Governatore - diceva allora l'avvocato Agnelli - ma ricordiamoci che dopo di
lui c'è solo un generale o un cardinale". I generali non so, ma i cardinali
sarebbero anche pronti. Proviamo a dire che non è il caso, perché non ce ne
sarà bisogno.
di Ezio Mauro, direttore de
"la repubblica"
fonte la repubblica.it del 23-05-2007 - (la
repubblica di tersite del 24 maggio 2007) |
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