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Carissimo Bobbio,
Le scrivo questa lettera aperta mosso da un sentimento di sorpresa. Mi
ha molto colpito, infatti, la definizione con la quale Lei, sulla Stampa
del 16 febbraio, ha voluto liquidare l’atteggiamento critico verso il
pensiero di Gobetti di «alcuni collaboratori della rivista liberal».
«Non esito a definirle», ha detto, «come espressioni di un vero e
proprio tersitismo culturale».
Tersite. Figlio di Agrio, fratello di Eneo. Omero lo descrive
come un uomo repellente e arrogante che si rende responsabile di lesa
maestà, offendendo Agamennone. «Non venne a Troia di costui più brutto /
ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta / gran gobba al petto; aguzzo
il capo, e sparso / di raro pelo». Insomma, un mostro. E, come si sa,
per i greci, la deformità del corpo era espressione della deformità
dell’anima. Dunque il «tersitismo» sarebbe l’atteggiamento vile e
disgustoso di chi, vivendo nell’ombra, senza essere baciato dalla luce
della nobiltà, si sfoga svillaneggiando gli eroi. liberal come
Tersite. Gobetti come Agamennone.
Mi permetta, però, visto che ci
sono, di rubarle qualche altro minuto intorno alla figura di
Tersite. è così giusto che si continui ad assecondare Omero
nella diffamazione del povero
Tersite? A qualcuno tale dubbio è già venuto se è vero, ad
esempio, che Libanio, retore greco del Quarto secolo, si è cimentato in
un Encomio di
Tersite. E se è vero che qualche critico accenna a
Tersite come a figura che, in fondo, diceva «in modo
spiacevole la verità».
Anche nel caso di
Tersite. Lei ricorderà che mentre Agamennone, per saggiare il
morale delle truppe, propone provocatoriamente di togliere le tende e di
rimpatriare, il gobbo figlio di Agrio, altrettanto provocatoriamente,
risponde di sì. Che è proprio il caso di andarsene e di lasciare il capo
lì da solo a «smaltir la sua ricchezza». Lo accusa di avidità, di
corruzione e, infine, di aver offeso Achille sottraendogli la bella
Briseide. Ma arriva Ulisse che interrompe le contumelie di
Tersite percuotendolo, con lo scettro, sulle «terga e le
spalle» e riducendolo al pianto e al silenzio. Naturalmente in mezzo
all’ilarità degli Achei che sempre accompagnava, nel mito, la
ridicolizzazione, «eroica», della debolezza e della deformità.
«D’auro hai fame», «cerchi schiava giovinetta a cui
mescolarti», «a sommo imperador non lice scandalo farsi dè minori»:
queste alcune delle espressioni usate dal volgare
Tersite. Ma nel canto precedente Achille ben altre parole
aveva rivolto ad Agamennone per dimostrargli la sua ira funesta. «Anima
invereconda, anima avara», «brutal ceffo». L’ira, come Lei sa, era stata
innescata da Apollo che aveva disseminato un’epidemia mortale tra gli
assedianti. Radice di quel male, secondo il veggente Calcante, era
proprio Agamennone, che rifiutava di restituire la giovane Criseide,
premio di guerra, a suo padre Crise, sacerdote di Apollo. Alla fine
Agamennone la restituirà ma pretenderà prepotentemente in cambio, da
Achille, appunto la schiava Briseide. E senta come il Pelide, pur
trattenuto dal solerte intervento di Atena, conclude verso Agamennone:
«Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core! / Tu non osi giammai nelle
battaglie dar dentro / colla turba; o negli agguati perigliarti / co’
primi fra gli Achei, ché ogni rischio t’è morte». Al confronto
Tersite è un’educanda. Ma, appunto, Achille è un eroe.
Tersite uno sciancato. Dicono su Agamennone, la stessa
verità. Ma la verità di Achille è nella Storia, quella di
Tersite nella strada. Achille è capo.
Tersite è popolo. Onore al
primo, disprezzo al secondo. Può la cultura democratica far propria
questa mitologia?
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