Lei non si stupirà,
signor Presidente, se pur essendo stato da così
breve tempo chiamato a far parte di quest'Assemblea,
prendo oggi la parola. Ho in effetti ritenuto di non
potermi sottrarre alla responsabilità di un giudizio
motivato su una legge di natura specialissima, qual
è quella ora sottoposta al nostro ultimo esame, di
revisione complessiva e radicale dell'ordinamento
della Repubblica.
Tanto più che, se non sono stato finora partecipe
del contrastato iter di questa legge, ho, in periodi
precedenti, svolto un ruolo attivo nel lungo
processo di elaborazione e discussione di idee e di
proposte di riforma costituzionale che si è svolto
nei due rami del Parlamento almeno a partire dalla
fine degli anni Settanta.
Perché vedete, e vorrei sottolinearlo, sarebbe del
tutto infondato il sostenere o il lasciar intendere
che nel passato il Parlamento sia rimasto chiuso in
un atteggiamento di pura conservazione, di statica e
retorica difesa della Costituzione del 1948.
Ben prima che negli anni 1993-1994 intervenisse una
vera e propria cesura, una rottura di continuità nel
nostro sistema politico, ben prima di allora, tra i
partiti storici della Repubblica nata nel 1946, era
venuta maturando l'esigenza di un ripensamento e di
un adeguamento del quadro istituzionale. Nel 1982,
un primo "inventario" di proposte di riforma venne
redatto dalle Commissioni affari costituzionali
della Camera e del Senato. Nel 1983 fu istituita,
come è noto, un'ampia e rappresentativa Commissione
bicamerale di studio sulle riforme istituzionali,
presieduta dall'onorevole Bozzi, che presentò nel
1985 un quadro assai ricco di considerazioni e
indicazioni concrete, rimaste purtroppo senza
seguito.
Vennero poi anni di stagnazione del confronto e
dell'iniziativa sui temi di una possibile revisione
della Costituzione, anche se non mancarono leggi
ordinarie di notevole significato istituzionale,
come, nel 1988, quella sull'ordinamento della
Presidenza del Consiglio o come, nel 1990, quella
sull'ordinamento delle autonomie locali.
Si giunse così, all'inizio della XI Legislatura, in
una condizione di grave ritardo dinanzi a esigenze
oggettive e a sollecitazioni dell'opinione pubblica
ormai non più dilazionabili e quindi si impose una
scelta che per primo il presidente della Repubblica
appena eletto, Oscar Luigi Scalfaro, invitò
"fermamente" il Parlamento a compiere: la nomina,
che col compianto presidente Spadolini subito
promuovemmo, di una Commissione bicamerale non più
solo di studio, ma con poteri di iniziativa
legislativa, con funzioni redigenti e referenti, che
fosse in grado di sottoporre a entrambe le Assemblee
un progetto compiuto di riforma della Parte II della
Costituzione.
La Commissione, presieduta prima da Ciriaco De Mita
e poi da Nilde Iotti, riuscì a presentare un
organico, non esaustivo ma, condiviso progetto, nel
gennaio 1994, (relatore per la forma di Stato
Silvano Labriola e per la forma di governo Franco
Bassanini). Il progetto cadde con lo scioglimento,
di lì a poco, di Camera e Senato.
Ricordo tutto ciò anche perché il senatore Francesco
D'Onofrio, nella sua relazione del gennaio 2004,
volle richiamare i lavori sia della Commissione De
Mita-Iotti sia della successiva Commissione D'Alema,
sostenendo che la proposta di riforma presentata
dell'attuale Governo dovesse intendersi
semplicemente come conclusione di un percorso. Tale
affermazione sarebbe da apprezzare per la sua
modestia se non contrastasse con la realtà
dell'effettiva ispirazione della proposta, ancora
oggi al nostro esame, ispirazione tutt'affatto
diversa da quelle che sorreggevano i progetti
precedenti e segnatamente quello del gennaio 1994.
Qualche giorno fa ho avuto modo, in occasione della
cerimonia di omaggio dedicata all'onorevole Labriola
appena scomparso, di mettere in evidenza come la sua
relazione di oltre 11 anni fosse audacemente
innovativa e nello stesso tempo ispirata a grande
equilibrio e responsabilità istituzionale.
Ebbene, con quell'impostazione e con le modifiche
che vennero di conseguenza prospettate, risultano
coerenti in realtà le proposte di riforma non della
maggioranza, ma della minoranza, comprese quelle che
escludono la formulazione, nell'articolo 117 della
Costituzione, di un elenco di potestà legislative
sia concorrenti sia esclusive delle Regioni, accanto
alla specificazione delle materie affidate alla
competenza dello Stato e postulano possibilità di
iniziativa dello Stato federale nell'interesse
nazionale, anziché un richiamo sanzionatorio a
quell'interesse, ove appaia violato.
Per questo ed altri aspetti - come si sa - l'attuale
schieramento di minoranza ha già proposto, con il
disegno di legge presentato dai senatori Villone e
Bassanini nel settembre 2003, modifiche rilevanti
della stessa riforma del Titolo V che esso aveva, da
posizioni di maggioranza, varato in modo non
sufficientemente meditato.
In effetti, se si legge ancora oggi e si considera
obiettivamente il testo presentato, sempre nel
gennaio 2004, dai relatori di minoranza, si può
constatare come ad una critica puntuale e severa del
progetto governativo si accompagnasse un insieme di
proposte tale da configurare un vero e proprio
progetto alternativo di riforma. Il Governo e la
maggioranza che lo sorregge - a mio avviso -
avrebbero dovuto apprezzare il fatto che lo
schieramento di centro-sinistra non ha sostenuto che
tutte le esigenze di revisione costituzionale,
affiorate nel lungo processo da me richiamato e
culminato nella Commissione bicamerale D'Alema,
fossero da ritenersi ormai superate.
In particolare, pur essendosi significativamente
consolidate - attraverso il passaggio al sistema
elettorale maggioritario e la prassi di una
competizione politica bipolare - la posizione del
Governo in Parlamento, la governabilità del Paese e
la stabilità dell'azione di Governo, l'attuale
opposizione ha continuato e continua a presentare
proposte volte a sancire in sede costituzionale tale
evoluzione e a rafforzare i poteri del Primo
Ministro rispetto alle formulazioni della Carta del
1948.
E' dunque l'attuale opposizione che si è preoccupata
e si preoccupa di concludere, sulla base di
un'ulteriore e coerente maturazione, il percorso che
venne bloccato nel 1998, non occorre qui ricordare
come e per responsabilità di chi. Sono parte della
conclusione di quel percorso le proposte della
relazione di minoranza relative alla composizione e
alle attribuzioni del nuovo Senato della Repubblica,
ma anche tutte quelle riguardanti un sostanziale
adeguamento del sistema delle garanzie e dello
statuto dell'opposizione all'avvento e all'abuso di
un meccanismo maggioritario.
Quel che anch'io giudico inaccettabile è,
invece, il voler dilatare in modo abnorme i poteri
del Primo Ministro, secondo uno schema che non trova
l'eguale in altri modelli costituzionali europei e,
più in generale, lo sfuggire ad ogni vincolo di pesi
e contrappesi, di equilibri istituzionali, di limiti
e di regole da condividere.
Quel che anch'io giudico inaccettabile è una
soluzione priva di ogni razionalità del problema del
Senato, con imprevedibili conseguenze sulla
linearità ed efficacia del procedimento legislativo;
una alterazione della fisionomia unitaria della
Corte costituzionale, o, ancor più, un indebolimento
dell'istituzione suprema di garanzia, la Presidenza
della Repubblica, di cui tutti avremmo dovuto
apprezzare l'inestimabile valore in questi anni di
più duro scontro politico.
E allora, signor Presidente, onorevoli
colleghi, il contrasto che ha preso corpo in
Parlamento da due anni a questa parte e che si
proporrà agli elettori chiamati a pronunciarsi
prossimamente nel referendum confermativo non è tra
passato e futuro, tra conservazione e innovazione,
come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche
versioni della riforma dell'ordinamento della
Repubblica: la prima, dominata da una logica di
estrema personalizzazione della politica e del
potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di
parte, a prezzo di una disarticolazione del tessuto
istituzionale; la seconda, rispondente ad un'idea di
coerente ed efficace riassetto dei poteri e degli
equilibri istituzionali nel rispetto di fondamentali
principi e valori democratici.
La rottura che c'è stata rispetto al metodo della
paziente ricerca di una larga intesa, il ricorso
alla forza dei numeri della sola maggioranza per
l'approvazione di una riforma non più parziale, come
nel 2001, ma globale della Parte II della
Costituzione, fanno oggi apparire problematica e
ardua, in prospettiva, la ripresa di un cammino
costruttivo sul terreno costituzionale; un cammino
che bisognerà pur riprendere, nelle forme che
risulteranno possibili e più efficaci, una volta che
si sia con il referendum sgombrato il campo dalla
legge che ha provocato un così radicale conflitto.
Mi asterrò dal rivolgere alle forze di Governo
poco realistici appelli alla riflessione, ma non
posso fare a meno di esprimere la mia convinzione
che la strada indicata qui dall'attuale minoranza
corrisponde all'interesse di entrambi gli
schieramenti politici, nel loro prevedibile
alternarsi in posizioni di maggioranza e di
opposizione. Essa corrisponde all'interesse di una
moderna e responsabile evoluzione del nostro sistema
democratico e anche, non da ultimo, alla
ricostruzione di un clima, che è purtroppo venuto
meno, di più misurato, impegnato e fecondo confronto
in Parlamento: un clima che è condizione per
l'esercizio, con autorevolezza, del ruolo
insostituibile di questa nostra istituzione.
Senato della
Repubblica, XIV legislatura, 897a seduta pubblica
Martedì 15 novembre 2005
Discussione del disegno di legge costituzionale:
Modifiche alla Parte II della Costituzione
(Approvato in prima deliberazione dal Senato;
modificato in prima deliberazione dalla Camera dei
deputati; nuovamente approvato, in prima
deliberazione, dal Senato e approvato, in seconda
deliberazione, dalla Camera dei deputati)
-la
repubblica di tersite 10-05-2006-