Dal maestro Giorgio
Amendola l'allievo Giorgio Napolitano ereditò debiti
e crediti. I debiti
furono
soprattutto politici, i crediti soprattutto umani. I
primi, Napolitano, li ha pagati per cinquant'anni e
la sua salita al Colle è l'ultima cambiale portata a
pagamento con l'orgoglio che avevano i risparmiatori
di una volta quando, pur di non fare brutta figura
con un creditore, si privavano del pane o di un
nuovo paio di scarpe. Sono i debiti della tradizione
riformista del Partito comunista italiano, la
cultura "migliorista", parola che equivaleva in
certi anni a poco meno di un insulto. I crediti sono
quelli che Amendola trasmise su un terreno già
fertile e che forse si possono racchiudere in un
solo termine: umanesimo.
Difficile pensare a due persone così apparentemente
diverse come il primo Giorgio (Amendola), l'ex
pugile che affascinava i giovani della Fgci
sostenendo le sue posizioni eretiche con la forza
della passione e del cuore e il secondo Giorgio (Napolitano),
lo spilungone dall'aspetto aristocratico che gli
valse il nome di "Re Umberto" per la sua somiglianza
con l'erede di casa Savoia. Eppure il loro sodalizio
poggiava anche su quel terreno fertile del
Napolitano sconosciuto.
Perché l'uomo che sta
per salire sul Colle più alto della Repubblica non è
soltanto il volto istituzionale e rassicurante,
l'unico - secondo le valutazioni del suo stesso
partito - in grado di portare gli eredi del Pci al
Colle senza far gridare (Berlusconi escluso) al
colpo di stato dei Soviet. E' anche un uomo che vive
una vita privata e interiore insospettabile per chi
si è già seduto sulla poltrona della Camera e del
ministero dell'Interno.
Fu attore teatrale in gioventù e autore di sonetti
in napoletano scritti sotto pseudonimo. Fu ed è
sempre stato attratto dalle lettere, dalle arti,
dalla regia. E questa vita intellettuale potrebbe
spiegare, come in una teoria di vasi comunicanti,
come, dove e quando si rifugiava l'uomo politico
quando il peso dell'"eresia" della sua corrente
diventava troppo gravoso.
Il giovane Napolitano recitò la parte di un cieco in
una commedia di Salvatore Di Giacomo, recitò nel
Viaggio a Cardiff di William Butler Yeats al Teatro
Mercadante di Napoli, si sciolse confrontandosi con
Joyce ed Eliot, passò lunghe serate a parlare di
teatro e di regia con Francesco Rosi e Giuseppe
Patroni Griffi. Scrisse versi in dialetto dedicati a
Napoli, alla morte, alla madre, firmandosi Tommaso
Pignatelli. Natalia Ginzburg li adorava.
"Troppo facile trovare un applauso", dirà decine di
anni dopo riferendosi alla retorica che piove dai
palchi della politica e forse lasciando intendere
che i veri applausi possono essere soltanto quelli
catartici che si sprigionano in un teatro. Mentre
sembrano ben poca cosa quelli dei comizi, luoghi da
sdrammatizzare con una buona dose di ironia come
quando, come testimonia una foto storica, Napolitano
si fabbricò sotto un palco a una Festa dell'Unità un
cappellino di carta come quello dei muratori per
ripararsi dal sole.
Per tutti questi motivi forse la carriera politica
di Napolitano non è la cosa più sorprendente della
sua vita. Anche se il solo elencarla fa venire il
capogiro: nato a Napoli il 29 giugno 1925, nel Pci
nel 1945, nel '53 eletto alla Camera, nel 1992
presidente di Montecitorio (in piena bufera Mani
pulite), nel 1996 Viminale (ancora oggi il Sap,
sindacato di polizia, lo definisce il miglior
ministero dell'Interno), nel 1999 Parlamento
europeo, nel 2005 senatore a vita per nomina di
Ciampi.
Si dice, ed è vero, che anche gli avversari politici
lo hanno sempre rispettato. Ma quello che può essere
considerato un onore, visto dall'interno del suo
partito, non è sempre stato un vantaggio, proprio
per il peso del "debito" che Napolitano si portava
sulle spalle. Il termine "migliorista" fu coniato
espressamente per lui perché termini come
"riformista" o "socialdemocratico" non esprimevano
abbastanza l'insofferenza di chi, a sinistra, era
"fedele alla linea".
Che cosa voleva dire "migliorista"? Voleva dire che
gente come Napolitano o Luciano Lama avevano
rinunciato alla rivoluzione ma volevano "migliorare"
la società. Non cambiarla radicalmente, perché il
capitalismo non solo non andava abbattuto, ma
bisognava scendere a patti con esso per riformarlo,
emendarlo e renderlo più umano. Ecco che cosa si
intende per comunista "di destra" rispetto a un
comunista "di sinistra". Come era considerato il suo
oppositore principale, Pietro Ingrao.
Oggi è più facile. Dopo la svolta della Bolognina
dell'89, dopo il congresso di Pesaro del 2001 -
quando Piero Fassino tributò a Napolitano un
passaggio in cui lo definì "il compagno che comprese
prima di altri" - è più facile dire che non c'è, e
non c'era, nessuna "eresia". Ma che cosa voleva dire
essere miglioristi negli anni Ottanta, quando si era
in contrasto con la linea del partito guidato da
Enrico Berlinguer? Cosa voleva dire criticare un
segretario tanto amato? Quanto doveva essere
doloroso per gente cresciuta dentro il partito
dividersi tra fedeltà e nuove prospettive politiche?
Cosa voleva dire essere già post-comunista quando i
comunisti si chiamavano ancora comunisti?
Voleva dire sporcarsi le mani. Voleva dire non
lasciare ad altri il merito di cavalcare
indisturbati le spinte più innovatrici della società
italiana. Voleva dire dialogare con il Psi, anche
con quello di Bettino Craxi. Voleva diresentirsi
trasmettere la solidarietà da Norberto Bobbio e la
distanza dei compagni, che magari ti accusano di
fare il gioco di Bettino. Voleva dire - in piena
battaglia berlingueriana sulla questione morale -
gettare un ponte verso un riformismo socialista
trovando pochi appoggi all'interno e ancora meno
interlocutori affidabili all'esterno.
Questo era il debito, cresciuto negli anni e dopo la
caduta del muro, che Napolitano si portava dietro. E
l'unico modo per pagarlo era convincere tutti di
aver ragione, cercare una politica di alleanze con
le grandi socialdemocrazie europee e rompere
l'isolamento del più grande partito della sinistra.
Progetto che gli riuscirà quando il Pds di Occhetto
nell'89 entrerà nel Partito socialista europeo.
Il resto è storia dell'ultimo
scorcio di secolo, storia europea che per Napolitano
finisce nel 2004 quando non si ricandida per
Strasburgo. Pensava probabilmente di aver finito di
pagare il suo debito politico, chiudendo la sua vita
politica come senatore a vita. Così diceva tra le
righe nella recente autobiografia Dal Pci al
socialismo europeo. Invece, la regola degli
attori, per i quali the show must go on, vale
anche per i politici di razza. Quelli capaci di
diventare, da uomini di partito, ministri di
governo, presidenti del Parlamento e, all'ultima
scena, inquilini del Quirinale.
(fonte,
la repubblica, 10 maggio 2006)