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Quel segretario di antiche virtù ormai straniero
per i suoi eredi
di
Filippo Ceccarelli
Si capisce perché non c´è posto per Enrico
Berlinguer nell´imminente Partito democratico. E tanto vale cacciarsi subito
il dente: non c´è posto per Berlinguer, perché nessuno più di lui ne
rappresenta la cattiva coscienza.
Con qualche ragionevole ribalderia si può anche dire che Berlinguer
resta fuori dal Pd
per la semplice, ma indicibile ragione che mette in luce
la lunga e folta coda di paglia di tanti dirigenti diessini. Ma se
l´immagine disturba, o suona azzardata, o immotivata, si potrebbe pure
cercare di dimostrare che la figura di Berlinguer non entra nel «nuovo»
partito perché è ancora oggi egli incarna delle virtù che non solo nel campo
della sinistra post-comunista si sono ormai quasi definitivamente estinte.
La questione va ben al di là di quella gettonatissima entità ectoplasmica
che nel discorso pubblico comincia a essere questo «Pantheon». Di sicuro non
sarebbe andato a genio a Berlinguer. «Non amo le semplificazioni» ripeteva
spesso; e anche: «Non faccio profezie». Non per caso lo chiamavano «il
Sardomuto». Berlinguer non faceva battute in televisione, tantomeno le
commentava. Era difficilissimo farlo sedere sui trespoli degli studi
televisivi, figurarsi se si sarebbe permesso di affrontare una questione
politica solleticando la suspence del pubblico con una frasetta tipo:
«Guardi cosa arrivo a dire»; né sarebbe mai scivolato nell´intimismo con
quell´inciso un po´ teatrale: «E mi costa molto!». Berlinguer non salutava a
pugno chiuso, riteneva quel gesto «un segno di ostilità». E´ lecito quindi
ipotizzare che mai avrebbe concluso, come il risoluto Bersani: «Punto e
basta».
Oggi invece ci si può tranquillamente esprimere in quel modo, anzi
forse si deve. Infatti «funziona». O nessuno ci fa più caso. E comunque
pazienza. Ma se la battuta di Bersani fa un po´ di notizia; se si parla
ancora una volta di Berlinguer è proprio perché il personaggio non si
adattava per niente a «funzionare». Era quasi impossibile «fargli dire»
questo o quel giudizio, magari schiacciandolo sulle modalità espressive del
presente; le rare volte che qualche giornalista ci riusciva, per quanto
dotato di fascino mediatico, quell´uomo dai capelli un po´ dritti e dalle
giacche lente restava comunque immerso in un presente tutto suo. «Non ha
nemmeno la televisione a colori» disse una volta Craxi. Ora, sarebbe di
cattivo gusto evocare campionati di popolarità e rispetto post-mortem. Ma
certo quella vecchia televisione in bianco e nero nel tinello di casa
Berlinguer, più che una metafora di grigio modernariato politico sembra oggi
la «prova regina» - come diceva lui con spiccato accento sassarese - di una
mutazione genetica che certo non fa onore all´attuale ceto politico, o
politicistico, o politicante, o peggio.
Il punto è che questa trasformazione antropologica, che riguarda
l´intera classe politica italiana, rischia di apparire ancora più evidente
nel campo che fu suo. Lo si vorrebbe qui dire nel modo meno animoso, come
pura e piatta constatazione. Ma di nuovo: Berlinguer è divenuto scomodo
perché è tutto quello che i dirigenti diessini hanno smarrito: il silenzio,
la compostezza, la sobrietà, la serietà, lo spirito di servizio, il senso
della propria dignitosa e decorosa funzione, il disdegno dell´omaggio e
della «comunella» con gli avversari, la concezione alta non solo della
politica, ma anche del potere. In un´intervista a Giovanni Minoli, che gli
chiese cosa pensava del potere, se gli piaceva, Berlinguer, senza muovere un
muscolo del volto, ma con un´intensità niente affatto minacciosa, rispose
che il potere gli poteva anche piacere, «ma come possibilità di far avanzare
gli ideali in cui crediamo io e i miei compagni».
Si noti la formulazione. In questo senso, pare addirittura di
scorgere una qualche proporzione matematica. Ai suoi tempi Berlinguer era il
«noi» nella misura in cui i dirigenti post-comunisti sono oggi un´accolita
di «ego» per lo più arroventati e quindi sempre disposti a farsi del male
l´uno con l´altro. E tutto questo non significa che egli sia da considerare
il Padre Pio del comunismo italiano, ma certo conosceva e praticava doti che
oggi non sembrano molto in voga dalle parti di via Nazionale, o nelle
fondazioni limitrofe. La prima delle quali doti potrebbe essere, ad esempio,
l´umiltà. E la seconda, sempre almanaccando, la tenuta psicologica. E la
terza, se è consentito divagare dai massimi sistemi, la gentilezza, il
garbo, il tratto umano.
Poi sì, certo, si capisce, c´è la politica, c´è la morale, c´è la
guerra fredda. Su sulla «storia», sulle scelte di Berlinguer, sui suoi
ritardi, sui suoi errori, sulla rigidità, la doppiezza, gli attuali
oligarchi del Botteghino potrebbero utilmente intrattenere quel resta di un
antico partito. Il compromesso, l´austerità, lo strappo, la musata sulla
scala mobile, la diversità. Ma lui era diverso davvero, anche come stile,
anche come dirigente, anche come uomo. E su questo i capi diessini non
dicono molto. Anzi, a metterla giù dura, l´impressione è che oggi Enrico
Berlinguer è diventato ingombrante perché sta lì a ricordargli, e nel modo
meno simpatico, le ragioni originarie del loro stesso impegno politico.
Ragioni che - via, lo ammettano! - si sono, come dire, un po´ indebolite.
Ragioni che si sono attenuate, «modernizzate», «laicizzate». E anche vero
rientra nel novere delle cose che possono e a volte devono accadere. Ma al
tempo stesso, modernizzandosi e laicizzandosi, quell´impulso primigenio,
quella voglia tutta giovanile di battersi per la povera gente - il
Berlinguer partecipò giovanissimo ai «moti del pane», guidando la
mobilitazione di gente che aveva fame - ecco, morto lui, in tanti e tanti ex
giovani quadri del Pci quelle ragioni si sono aperte a tante e tante altre
cose non proprio berlingueriane.
Berlinguer è morto nel 1984, e nel corso di questi 23 anni è stato
tirato da una parte e dall´altra, tagliato a fettine, esposto sulle
bancarelle congressuali; e poi pubblicato postumo, soggetto di libri scritti
da futuri ministri, sindaci e presidenti a loro immagine e somiglianza, ma a
loro uso e consumo. Troppo commemorato e insieme dimenticato a forza, difeso
dai parenti, lodato dagli avversari (Andreotti, Romiti, Montanelli). Ma in
fondo per comprendere Berlinguer - e quel che un tempo si chiamava popolo
c´è riuscito meglio di tanti esponenti del suo ex gruppo dirigente - bastano
quelle ultime immagine sul palco di Padova. Le parole smozzicate, il
fazzoletto sul volto, e lui che voleva continuare. Un ricordo che non si
riesce proprio a scartare. Anzi, forse stai a vedere che è proprio in questa
memoria stralunata, ma piena di poesia che non c´è posto per il Partito
democratico.
fonte il repubblica del 14-04-2007 - (la
repubblica di tersite del 22 aprile 2007) |
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