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- Il popolo italiano ha detto
NO
alla modifica della Costituzione Repubblicana.
- Il Grande
Rifiuto è arrivato forte e
maggioritario.
Una vittoria
schiacciante. Gli elettori hanno respinto nettamente il disegno di
legge di modifica della Costituzione proposto dal centrodestra.
i No hanno il 61,3% dei voti contro il 38,7% dei Si. Soltanto in due
Regioni, Lombardia e Veneto, c'è stata una lieve prevalenza dei Sì.
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ITALIA |
ITALIA SETTENTRIONALE |
ITALIA CENTRALE |
ITALIA MERIDIONALE |
ITALIA INSULARE |
60978 sezioni su 60978
votanti: 53,7%
(Alla chiusura delle operazioni)
(110 enti su 110)
38,7% |
61,3% |
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27338 sezioni su 27338
votanti: 60,3%
(Alla chiusura delle operazioni)
(47 enti su 47)
47,4% |
52,6% |
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11788 sezioni su 11788
votanti: 57,2%
(Alla chiusura delle operazioni)
(22 enti su 22)
32,3% |
67,7% |
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14765 sezioni su 14765
votanti: 43%
(Alla chiusura delle operazioni)
(24 enti su 24)
25,2% |
74,8% |
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7087 sezioni su 7087
votanti: 44,4%
(Alla chiusura delle operazioni)
(17 enti su 17)
29,4% |
70,6% |
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Ora
i leader della destra, giacché "bastonati" sonoramente, si dicono
convinti che il risultato
impone una riflessione".
una
profonda riflessione. Si vede che qualche volta la sconfitta porta
"pensiero": riflettete, riflettete, pure. Avete cinque anni, e
speriamo che il purgatorio purifichi i vostri istinti demolitori.
(la repubblica di tersite, 27 GIUGNO 2006)
LE RAGIONI DEL NO
IL COMMENTO
L'ANIMA PROFONDA
DELLA COSTITUZIONE
DI GUSTAVO ZAGREBELSKY*
LE costituzioni sono costruzioni, ma queste costruzioni, come anche
quella cui tanto
volonterosamente
e a lungo si è dedicata la nostra ingegneria costituzionale,
presentano sempre un aspetto, per così dire, naturalistico che non
risulta aver attirato l'attenzione che merita. Eppure, proprio su
questo, in ultima analisi, ci pronunceremo tra breve e sarà un
pronunciamento che conterrà un giudizio, oltre che sulla costituzione
che ci viene proposta, anche su noi stessi.
L'espressione "aspetto naturalistico" si riferisce a quella che i
classici denominavano l'indole costituzionale dei popoli. Le
costituzioni dei popoli intuitivi e sentimentali non possono essere
quelle dei popoli ragionatori e speculativi; le costituzioni dei
popoli molli e pigri, non quelle dei forti e laboriosi; dei pessimisti
e fatalisti, non quelle degli ottimisti e fieri; degli attivi e
coraggiosi, non quelle dei passivi e paurosi; dei dissipatori, non
quelle dei parsimoniosi.
Un despota, per esempio, è necessario per coloro che, dovendo cogliere
una banana, pensano, invece di arrampicarsi, di tagliare il banano
alla radice. La democrazia non è adatta ai popoli che cercano favori
piuttosto che diritti, che scansano le responsabilità invece che
cercarle. Accogliere nei Paesi freddi il lusso e i molli costumi degli
Orientali, si è anche detto, significa darsi le loro catene.
Non lasciamoci fuorviare dall'apparente ingenuità di queste
contrapposizioni settecentesche. Esse contengono una profonda verità:
la più perfetta opera di ingegneria costituzionale potrebbe non valere
nulla se ignora o contraddice i caratteri naturali del popolo che si
vuole costituzionalizzare. "Le costituzioni sono simili alle vesti: è
necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia
la sua propria, la quale se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non
vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la
quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma se vuoi
fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorché sia misurata sulla
statua modellaria di Policlete, troverai sempre che il maggior numero
è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà fare uso
della tua veste".
Parole di Vincenzo Cuoco contro il progetto di costituzione napoletana
del 1799 che egli considerava un arbitrario tentativo di trasposizione
di astratte idee costituzionali dalla Francia dell'epoca (Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Bari, 1913, p. 218).
I nostri ingegneri e sarti costituzionali probabilmente non si saranno
nemmeno posti il problema. Forse, non saranno neppure stati sfiorati
dal dubbio che questo sia un punto importante sul quale saranno
giudicati. Più probabilmente ancora, si saranno lasciati condizionare
inconsapevolmente dalla presunzione che la nostra indole sia come la
loro. Ma noi, nel momento in cui ci viene chiesto di pronunciarci per
mezzo del referendum, è proprio questa la domanda che ci poniamo: se
siamo o, meglio, se vogliamo essere quello che essi presumono che
siamo; se siamo o vogliamo essere come credono loro.
Quali sono dunque le pulsioni profonde che la riforma costituzionale
viene a solleticare o lusingare?
a) Innanzitutto la servilità.
Un popolo è servile se si rallegra di poter scegliere, ogni cinque
anni, un capo al quale conferire poteri illimitati. Non sembri una
sintesi esagerata. Questo nuovo capo è denominato "primo ministro", ma
il potere personale che questo nome innocente indica è tale da far
paura. Egli dispone dei ministri a suo piacimento, nominandoli quando
gli sono graditi e revocandoli quando gli diventano sgraditi. A suo
piacimento dispone anche dei rappresentanti del popolo perché ogni
dissenso nei suoi confronti si può concludere con il loro
licenziamento, lo scioglimento della Camera e nuove elezioni: il
diritto di critica è dunque ammesso, ma chi lo eserciterebbe, quando
il prezzo è il suicidio? Non può invece accadere il contrario, cioè
che siano i rappresentanti del popolo a licenziare il capo e a
sostituirlo con un altro. Questa ipotesi è bensì prevista, ma come
pura ipotesi di fantasia: occorrerebbe un voto a maggioranza assoluta
dell'Assemblea, senza l'apporto dell'opposizione, cioè da parte della
stessa compatta compagine che fino ad allora è stata al seguito del
capo. Il che è quanto dire che non potrebbe realizzarsi mai.
Si dirà: prima di parlare di regime autoritario, si noti almeno che
questo capo è pur sempre scelto con un'elezione, ogni cinque anni. Ma
ciò significa solo che quel popolo che se ne rallegrasse, lo farebbe
perché trova gioia nel ripetersi, cioè nell'insistere nella sua
servilità. Varrebbero le parole che Rousseau indirizzava al popolo
inglese del suo tempo: "pensa di essere libero, ma si sbaglia di
grosso. Non lo è che durante l'elezione dei membri dei Parlamento.
Appena sono eletti, è schiavo, non è nulla. Nei brevi momenti della
sua libertà, per l'uso che ne fa merita di perderla" (Contratto
sociale, libro III, c. XV).
b) In secondo luogo,
l'insicurezza e l'aggressività,
degli uni verso gli altri. Ogni elezione di capo dai poteri illimitati
tramite un'investitura popolare trasformerebbe l'elezione in conflitto
in cui ciascuno avrebbe tutto da sperare ma anche tutto da temere, a
seconda dell'esito. La propria sopravvivenza sarebbe legata alla
soccombenza degli avversari e così l'insicurezza si esprimerebbe in
aggressione. L'ultima tornata elettorale cui abbiamo assistito
sgomenti già ci ammonisce come una sia pur parziale primizia. Gli
strumenti dello scontro sarebbero i più rozzi, irrazionali e
semplicistici: amore-odio, bene-male, amici-nemici. Ecrasez l'infame!
potrebbe diventare la parola d'ordine dei due schieramenti che si
demonizzano reciprocamente.
Né potrebbe farsi troppo conto sulle istituzioni di controllo, per
mitigare i poteri del vincitore e, con ciò stesso, l'asprezza del
confronto. Questo accade in effetti in diversi regimi, dove pure i
cittadini eleggono il capo del loro governo. Ma lì esistono pesi e
contrappesi, tradizioni e cultura politica che ne bilanciano il
potere. E da noi? Il Presidente della Repubblica è reso dalla riforma
una figura marginale. La Corte costituzionale, con una modifica della
sua composizione, viene allineata alla maggioranza politica. La
magistratura, al di là delle riforme che la riguardano, sarebbe
intimorita da una concentrazione di potere politico, collegata
all'investitura popolare diretta, sconosciuta negli altri Paesi che si
dicono democratici. L'uguaglianza di fronte alla legge, che già non è
propriamente il punto di forza delle nostre istituzioni, si ridurrebbe
a principio-beffa. Il Parlamento, infine, abbiamo già visto essere
reso nullo nella sua funzione, che è sempre stata la sua essenziale,
di garanzia contro gli abusi del governo. Quando gli assurdi rapporti
tra Camera e Senato previsti dalla riforma glielo consentissero,
legifererebbe, ma sempre e solo agli ordini del capo del governo. Ogni
appuntamento elettorale, data l'enormità della posta in gioco, si
risolverebbe in dramma o in tragedia. Più che la Gran Bretagna, la
Francia o la Spagna, ci darebbero il benvenuto taluni Paesi del Sud
America o dell'ex-blocco sovietico.
c) Lo spirito cortigiano.
La riforma promette un'alternanza tra lo scontro elettorale e il ruere
in servitium, a cose fatte. Si potrà deplorare la disposizione a
cambiare casacca a seconda del momento ma, d'altra parte, che cosa si
può pretendere quando il vincitore può tutto, da lui dipendono la
fortuna o la rovina della tua azienda, della tua banca, del tuo
giornale, della tua casa editrice, della tua carriera? Se e fino a
quando sei nelle sue mani, cercherai di ingraziartelo, almeno fino al
momento in cui, pensando che stia per cadere in disgrazia, non hai più
nulla da ottenere o da temere da lui. Quando nuovi capi sono
all'orizzonte, i cortigiani che ti hanno adulato diventano serpenti
velenosi.
d) L'atteggiamento impolitico e
qualunquista. Nessun Parlamento
al mondo è tanto umiliato quanto quello che deriverebbe dalla riforma.
Non controlla ma è controllato; se legifera, lo fa per conto altrui;
se si permette di dissentire, è sciolto. Data la sua marginalità,
potrebbe anche essere soppresso o sostituito da un'astratta
attribuzione di millesimi, come nei condomini, a ciascuna delle parti
in campo. Se non lo è, forse è perché esso rappresenta ancora
un'immagine potente e carica di storia della libertà politica ed
eliminarlo sarebbe stato un po' troppo forte; o, forse, è anche
perché, ridotto in questa umiliazione, simboleggia come un trofeo la
vittoria delle forze e delle mentalità antiparlamentari: quella
vittoria già iscritta nell'attuale, recente legge elettorale, che ha
trasformato in molti casi i rappresentanti del popolo in ignote
propaggini di dosaggi di potere, clientele e familismi di partito. Non
sono pochi, del resto, coloro che intendono l'annunciata diminuzione
del numero dei parlamentari, operativa - se mai lo sarà - solo tra
molti anni, come un ammiccamento all'eterno qualunquismo latente nel
nostro Paese.
e) Il provincialismo pessimista
e ripiegato su se stesso. "A
casa mia": è il motto di chi crede a quella cosa che la riforma
definisce federalismo (il federalismo è l'apertura della piccola
patria a una patria più grande) ed è invece ripiegamento su se stessi,
timore per l'ignoto, aggressività verso chi viene creduto diverso,
comunitarismo organico: l'esatto contrario del federalismo. I giuristi
hanno ripetutamente spiegato che nelle norme della cosiddetta
devolution c'è molto più centralismo che non federalismo. Diverse
competenze sono state ritrasferite al centro e il "federalismo
fiscale" è reso una beffa dalla norma che vieta "in tutti i casi"
all'autonomia impositiva delle Regioni (e degli enti locali) di
determinare incrementi della pressione fiscale complessiva. Anche le
competenze regionali "esclusive" - assistenza e organizzazione
sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti
scolastici e di formazione, definizione dei programmi scolastici e
formativi di interesse specifico della Regione e polizia
amministrativa regionale e locale - devono pur sempre coesistere con
le competenze statali, anch'esse "esclusive", circa i livelli
essenziali delle prestazioni in campo sanitario, le norme generali
sull'istruzione e la tutela della salute, nonché l'ordine pubblico e
la sicurezza.
Ma, evidentemente, quello che conta, in questo caso, non è la realtà
giuridica ma è il messaggio "culturale" di chiusura e ostilità verso
il diverso. Della nostra salute, della istruzione dei nostri figli,
della nostra sicurezza ci occupiamo noi perché, per l'appunto sono
cose di casa nostra. La violenza concreta di questo atteggiamento,
tuttavia, non tarderebbe poi a farsi sentire, ben al di là di quel che
le norme costituzionali (per ora) contengono.
Riassumiamo. L'indole costituzionale che la riforma solletica,
lusinga, blandisce è questa: servilità, insicurezza e aggressività,
spirito cortigiano, antipolitica e qualunquismo, provincialismo
ripiegato su se stesso. Occorrerebbero troppe parole, ma sarebbero del
tutto superflue, per mostrare come questi spiriti, politicamente molto
ben definiti, siano agli antipodi rispetto a quelli su cui si fonda la
Costituzione che viene dall'Assemblea costituente del 1946-1947. Ma
riprendiamo la domanda iniziale: siamo disposti a riconoscerci in
questa nuova, o forse antica indole che vogliono attribuirci? Il
referendum ci interpella su questo, dunque su noi stessi, molto prima
che sui contenuti giuridici. Posta così la questione, si può sperare
che in molti si avverta la necessità di una reazione a una proposta
che è un tentativo di seduzione dei lati peggiori del nostro carattere
e di oltraggio ai suoi lati migliori.
I cittadini hanno il diritto di esprimersi su questa domanda e la
nostra classe politica ha il dovere di non alterare la loro risposta.
Da più parti si insiste invece sul fatto che, quale che sia il
risultato del referendum, le due parti dovranno subito dopo trovare
l'accordo "per una riforma condivisa", per esempio in una Assemblea o
una Convenzione costituenti. Il sì e il no conterrebbero entrambi una
clausola sottintesa: poi ci si metterà d'accordo. Ma su che cosa?
Questo è un parlare ambiguo. Su quale terreno ci si vorrà muovere? in
base a quale spirito? Una cosa è lavorare per la Costituzione che
abbiamo; una cosa opposta è lavorare per la Costituzione che non
vogliamo avere. Si tratta di promuovere due spiriti pubblici, due
indoli costituzionali del tutto incompatibili. La condivisione, in
questa situazione, nasconderebbe inganni. Anche i tentativi di puro
miglioramento tecnico cascano davanti a questa alternativa.
*Gustavo
ZAGREBELSKY, ex Presidente della Corte costituzionale.
(fonte "la Repubblica" del 23 giugno 2006)
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Appello in difesa della costituzione
DIFENDIAMO LA
COSTITUZIONE!
Il popolo italiano ha detto
NO
alla modifica della Costituzione Repubblicana
Referendum elettorale 21 giugno 2009: invito
all'astensione
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