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 Tremonti manovra anticrisi

 

 

 

 

ECONOMIA. Più che un "piano keynesiano", come lo definisce Giulio Tremonti, il decreto anti-crisi approvato dal governo somiglia a un "programma malthusiano". Scambia la carità di Stato per sostegno al reddito. Confonde il beneficio una tantum con il rilancio dei consumi. La ricetta berlusconian-tremontiana tradisce un impianto bushista, da "conservatorismo compassionevole".

IL COMMENTO

Una manovra da 10 minuti

di MASSIMO GIANNINI*



C'è qualcosa che non torna, nella filosofia adottata dal centrodestra per fronteggiare il micidiale
Crisi_economica_Tremonti_Panettone_dei_poveriintreccio di recessione-deflazione che sta soffocando l'economia italiana. Più che un "piano keynesiano", come lo definisce Giulio Tremonti, il decreto anti-crisi approvato dal governo somiglia a un "programma malthusiano".

Scambia la carità di Stato per sostegno al reddito. Confonde il beneficio una tantum con il rilancio dei consumi. Spaccia il rinvio di un acconto fiscale per supporto agli investimenti.

Se è vero che ad una "crisi eccezionale" si deve rispondere con "misure eccezionali", come ha detto Barroso tre giorni fa, la risposta italiana non è all'altezza della sfida. Di veramente "eccezionale", nel provvedimento, c'è solo la rapidità con la quale è stato licenziato dal Consiglio dei ministri: dieci minuti.

Trenta secondi in più dei nove minuti e mezzo con i quali fu approvata prima dell'estate la manovra di bilancio triennale. È la conferma che il governo è più interessato al "come" e molto meno al "cosa" si decide. Ma al di là di questa nuova performance decisionista (o "cesarista", secondo la disincantata visione di Gianfranco Fini) il New Deal tremontiano è insufficiente e deludente. La rituale raffica di soccorsi a pioggia. Nessuno di questi, singolarmente preso,è  inutile e disprezzabile. Ma è l'insieme delle misure, complessivamente considerate, che non suggerisce un disegno generale e strutturale. Il decreto parla in parte ai poveri, che non hanno avuto nulla da anni. Ma parla poco alle imprese, che dovrebbero essere il motore della ripresa. E non parla affatto ai ceti medi, che dovrebbero essere il volano della domanda. In compenso ha un forte accento populista, che il ministro dell'Economia rimarca con una mossa plastica in conferenza stampa: si toglie la giacca, si allenta la cravatta, e illustra il suo "pacchetto" così, da peronista "descamisado".

La manovra è insufficiente per quantità. Gli 80 miliardi venduti dal Cavaliere non possono ingannare nessuno. La quasi totalità di questa cifra-monstre è assorbita da fondi Ue e risorse Cipe per grandi opere che diventeranno agibili tra qualche decennio e infrastrutture che forse non lo diventeranno mai (come l'immancabile Salerno-Reggio Calabria). L'entità vera, per famiglie e imprese, non supera i 4 miliardi di euro. "Non potevamo fare manovre che aumentano il debito del 50% come fanno alcuni Paesi, proprio noi che abbiamo un debito pari al 105% del Pil", aggiunge Tremonti.

Un approccio molto responsabile. Ma da un lato colpisce che oggi sia proprio lui, dopo aver picconato senza pietà i "tecnocrati" del centrosinistra alla Ciampi e Padoa-Schioppa, a vestire i panni dell'ortodossia contabile. E dall'altro lato stupisce che oggi sia di nuovo lui, dopo aver inventato la finanza creativa e le cartolarizzazioni, a non saper trovare nelle pieghe del bilancio pubblico le risorse aggiuntive che avrebbero permesso di raddoppiare l'importo della manovra, come sarebbe stato necessario. Un esempio su tutti, già indicato da Tito Boeri: i 3,82 miliardi di euro di interessi sul debito risparmiati grazie al minor rendimento corrisposto dal Tesoro sui titoli di Stato.
La manovra è deludente per qualità. Da un ministro dell'Economia "fantasioso" come il nostro, era legittimo aspettarsi molto di più, rispetto all'ordinaria riproposizione delle solite misure-tampone, oltre tutto spalmate su una platea talmente estesa di beneficiari teorici che alla fine non ci saranno benefici pratici per nessuno. Tremonti usa un doppio registro. Nel rapporto con i cittadini-contribuenti, il registro è quello dello "Stato minimo" friedmaniano: molte banali una tantum, a sfondo demagogico e pauperista. Il bonus straordinario per le famiglie con redditi fino a 22 mila euro è senz'altro un aiuto a chi è più in affanno, ma difficilmente servirà a far ripartire gli acquisti da Natale in poi: la detassazione integrale delle tredicesime avrebbe avuto un impatto molto diverso. L'ampliamento del fondo degli ammortizzatori sociali per i lavoratori "parasubordinati" è senz'altro un gesto di buona volontà, ma non potrà mai coprire i bisogni dei 350 mila "atipici" che di qui a fine anno si ritroveranno senza contratto.

La Social Card da 40 euro al mese per i pensionati con meno di 6 mila euro di reddito è comunque una boccata d'ossigeno per chi non arriva alla quarta settimana. Peccato che quasi tre milioni di italiani non arrivino più neanche alla seconda, e dunque avrebbero bisogno di sussidi molto più consistenti. E sarebbe meglio evitare paragoni impropri tra la nostra "tessera del pane" (che vale 480 milioni di euro e di fatto trasforma un diritto del Welfare in un'elemosina del Sovrano) e i kennediani "Food stamp program" (che impegnano ben 10 miliardi di dollari e interessano quasi 30 milioni di americani incapienti).

Nel rapporto con gli altri poteri pubblici, al contrario, il registro è quello dello "Stato massimo" colbertiano: molti interventi a gamba tesa, dirigisti e anti-mercatisti. Il calmiere per i mutui a tasso variabile, con la copertura dello Stato per la quota di interessi superiore a 4%, trasforma la rinegoziazione dei contratti in un'imposizione governativa, benché rischi di rivelarsi una beffa visto che a gennaio, con il calo del costo del denaro già avviato dalla Bce, quel livello sarà raggiunto spontaneamente dal mercato. La sottoscrizione dei "bond" per le banche in difficoltà che vi faranno ricorso prevede l'obbligo di trattare con il Tesoro le condizioni di erogazione del credito alle piccole e medie imprese. Il blocco degli automatismi tariffari per l'elettricità e le autostrade mette a rischio i timidi passi di questi anni verso le liberalizzazioni, e prefigura quasi un ritorno al vecchio sistema dei prezzi amministrati.

Si potrebbe continuare. E parlare dello sconto Ires-Irap per le imprese, davvero troppo modesto per rappresentare una svolta per tante piccole aziende soffocate dal "credit crunch". O dell'aumento della quota di detassazione del salario di produttività, che poteva essere più corposo fin dall'inizio se solo si avesse avuto il buon senso di non detassare anche gli straordinari (mossa del tutto insensata in un ciclo di bassissima congiuntura). O ancora dell'inasprimento dell'Iva sulle pay-tv, batosta secca contro Murdoch, ex alleato e ora acerrimo concorrente del Cavaliere: una norma che serve a Mediaset a far finta di indignarsi (con tanto di comunicato "di disappunto") mentre è chiaro a tutti che l'impero mediatico berlusconiano è il carnefice, mentre la vittima è solo Sky. Al fondo, resta l'impressione di una "manovrina d'autunno" modesta e contraddittoria. Così poteva farla il governo Prodi prima del tracollo di due anni fa, o lo stesso governo Berlusconi subito dopo il trionfo del 13 aprile.

Oggi serve molto di più, e molto di meglio. Se i democratici americani di Obama hanno avuto il grande merito di vincere le elezioni proponendo il ritorno "da Wall Street a Main Street", mentre i democratici italiani di Veltroni hanno avuto la grande colpa di esser passati in troppa fretta "from Marx to market", la ricetta berlusconian-tremontiana tradisce un impianto bushista, da "conservatorismo compassionevole". È probabile che lo sciopero della Cgil, confermato da Guglielmo Epifani, non serva a cambiare il corso della storia. È possibile che "l'unità degli sforzi", chiesta dalla Confindustria di Emma Marcegaglia, sia più utile a far uscire l'Italia dal declino. Ma la richiesta di "collaborazione nell'interesse del Paese", strumentalmente rilanciata dal premier all'opposizione, è solo l'ennesima presa in giro che avvelena il confronto parlamentare. Eppure di correzioni e di integrazioni ci sarebbe un enorme bisogno.

Perché una cosa è chiara a tutti: questo falso "piano rooseveltiano" del governo non potrà reggere l'urto della tempesta perfetta.
 

*Massimo Giannini vicedirettore de "la repubblica"

Fonte la repubblica. it
del 29 novembre 2008

(La repubblica di tersite, 30 novembre 2008)

 

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