Lo jñána yoga nella Bhagavad Gítá

Lo jñána-márga, detto anche jñána-yoga, è la via che conduce alla perfezione utilizzando le facoltà intellettuali. La Gítá, a tale riguardo, accoglie, con alcune fondamentali distinzioni, il pensiero metafisico Sánkhya.

Il sistema filosofico Sánkhya sostiene una dottrina cosmogonica dualistica. È presente un dualismo ogniqualvolta una dottrina o una concezione, presenta una dicotomia di principi - coerenti o meno - che causano l’esistenza di ciò che esiste o si manifesta nel mondo. Nel Sánkhya sono presenti due principi apparentemente coeterni, ma radicalmente distinti: il purußa e la prakriti.
Il purusha è il principio immutabile, il Sé che soggiace a tutti i cambiamenti della realtà esteriore, identificabile, invece, con la prakriti, il non-Sé. Essa è costituita da tre modi o guña (sattva, rajas e tamas) che, secondo la loro mescolanza, danno luogo al mondo manifesto. Sattva rappresenta la leggerezza, la bontà e la luminosità, rajas il movimento, la passione e la collera, tamas la pesantezza, l'ottusità e l'oscurità.

La Bhagavad Gítá, disociandosi dalla filosofia Sáµkhya, considera entrambi i principi non come due cause originarie, ma come due matrici subordinate a Dio, il purushottama (il purusha supremo).

L'uomo, che nel suo essere naturale è fondamentalmente legato ai guña, deve prendere coscienza del fatto che il Sé è distinto dalla prakriti e, per questo motivo, può liberarsi dai condizionamenti dei modi della natura e giungere al moksha.

La conoscenza metafisica della realtà può essere realizzata praticamente se si  attuano pratiche di concentrazione spirituale. Lo yoga, che fu sistematizzato in seguito da Patañjali, è l'arte della soppressione dell'attività mentale, attaverso la quale è possibile attingere a conoscenze sovramentali e comprendere la sostaziale unità di tutto ciò che esiste.

Il fine dello jñána-yoga è quello di conoscere sia la realtà della creazione a livello filosofico-metafisico, sia le profondità dello spirito umano, per prendere coscienza della divinità che risiede all'interno d'ogni essere vivente.

I protagonisti della Bhagavad Gítá sono Arjuna, l’eroe e il condottiero dei Páñðava e Krishna, il principe avatára, incarnazione del dio Vishnu.
Arjuna, dopo tredici anni d'esilio, torna in patria per ricevere parte del territorio che gli spetta di diritto, ma Duryodhana, il capostipite della famiglia dei Kaurava, consanguinea dei Pándava, rifiuta di accordargli tale diritto. Dopo vari tentativi di mediazione, non resta altra possibilità che lo scontro armato.
Il sesto libro del Mahábhárata, il Bhíshmaparvan, all’interno del quale è inserita la Gítá, inizia con la presentazione dei due eserciti, schierati l’uno di fronte all’altro sul campo di battaglia di Kurukshetra, pronti al conflitto.

Il Kurukshetra può essere inteso sia come il campo dei Kuru, sia come il campo dell’azione. Kuru deriva dalla radice Kri (fare) e kshetra significa "campo". Approfondiremo questo tema quando analizzeremo il karma yoga.
Arjuna, pronto al combattimento, chiede a Krishna di fermare il suo carro affinché possa vedere in faccia i propri avversari e, prendendo consapevolezza di dover uccidere i suoi amici d’infanzia e i suoi vecchi maestri e parenti, cade in un profondo sconforto e decide di non combattere.

Un tale comportamento, però, non è dettato dalla ragione e non ha nulla in comune con la compassione divina; si tratta solo di un'indulgenza egoistica, una sorta di autocommiserazione sentimentalistica. La sua debolezza è dovuta al fatto che in questo momento egli è in preda all'illusione di considerare la forma corporea come l'unica cosa esistente. In questo modo egli tradisce la sua condizione di kshatriya, che impone al guerriero il dovere di combattere per una giusta causa.

Secondo Gandhi bisogna osservare che Arjuna commette l'errore di distinguere i parenti da coloro non lo sono. A suo parere, infatti, gli estranei possono essere uccisi, persino se non sono degli oppressori, mentre i parenti non possono essere uccisi anche se lo sono.

La differenziazione che Arjuna compie nei confronti dei suoi nemici, è frutto dell'attaccamento causato dall'ignoranza. Se Arjuna era determinato a combattere, non c'era alcun motivo di rifiutarsi di uccidere persone particolari. Anche credendo nella non violenza sarebbe ingiusto rifiutarsi di difendere i più deboli unicamente per codardia.

Lo stesso Gandhi, quindi, che ha fatto della non-violenza (ahimsá) l'insegnamento fondamentale della sua vita, ritiene che in un simile contesto la battaglia sia giustificata. Non bisogna però credere che la Gítá, in questi versi, inciti Arjuna ad una violenza o ad uno sterminio indiscriminati. Piuttosto, invita a combattere all'interno di una battaglia che gli è imposta come suo dovere.

Il combattimento che è in procinto di svolgersi, potrebbe anche essere inteso come  una lotta fra il dharma e l'adharma. Il combattimento che infuria tra i Kaurava e di Páñðava, che simbolicamente abitano dentro ogni individuo, non è altro che una metafora del conflitto che è in atto in ogni essere umano tra le forze del bene e quelle del male, le quali si personificano come vizi e virtù. Il vero campo di battaglia, perciò, è all'interno del corpo umano.

Dopo la richiesta di aiuto da parte di Arjuna, Krishna incomincia ad impartire il suo insegnamento teoretico-metafisico.

La dottrina dello jñána yoga verte sulla disidentificazione con l’ego inferiore, mutevole e perituro, per immedesimarsi con l’átman il principio spirituale insito all’interno d'ogni individuo.

"Non ci fu mai un tempo in cui io non fossi, né tu, né questi prìncipi, né mai in futuro avverrà che tutti noi non siamo". (BG II,12)

È chiara l'allusione al saµsára, alla trasmigrazione del jíva, il principio spirituale presente in ognuno, che continua, dopo la morte, ad incarnarsi in altri corpi fino a raggiungere il moksha, la liberazione.

Il samsára, che può essere definito come il corso dell'indefinita successione di vita, morte e rinascita, è in intima correlazione con la legge del karman. Infatti, l'anima incarnata (jíva) - che è il prodotto dell'associazione dell'átman, il Sé, con un'entità psicofisica derivante dalla Natura (prakriti) attraverso le predisposizioni coltivate nella vita precedente con atti, parole e pensieri - si crea una nuova esistenza.

Tutti gli esseri sono trascinati e compresi in una sorta di flusso che scorre senza posa e porta con sé tutte le anime, le quali maturano, di esistenza in esistenza, attraverso una serie continua di nascite e morti, i frutti delle azioni (karman) compiute nelle precedenti esistenze. Secondo gli hindú, l'uomo, quindi, non vive,  una sola volta; egli può bensì rinascere in una condizione migliore o peggiore della precedente a seconda che i frutti delle sue azioni abbiano maturato un karman positivo o negativo. Il fine ultimo dell'uomo, perciò, è quello di conseguire la liberazione dai vincoli del karman per raggiungere il moksha.

Il moksha è concepito come lo scioglimento del vincolo costituito dalla materia e dal mondo, come il superamento dell'ignoranza, come coscienza dell'unità fondamentale tra il Brahman, l'Assoluto, e l'anima individuale, l'átman, e come dominio della propria condotta e conseguente distacco dal frutto delle proprie azioni. Il principio spirituale, l'átman, presente in ogni individuo è immortale, in quanto trasmigra di corpo in corpo fino alla liberazione assoluta, il mokßa.
La formulazione metafisica dell'immortalità dell'anima è espressa nei seguenti termini:

"Non può venire in essere ciò che non è, né può cessare di essere ciò che è: coloro che vedono la verità sanno che fra questi due c'è un limite invalicabile". (BG II, 16)

È qui riecheggiato il principio parmenideo secondo il quale l'essere è e non può non essere e il non essere non è e non può in alcun modo essere.  A tale proposito Aurobindo rileva come in realtà la morte non esiste, poiché la morte colpisce il corpo, e il corpo non esaurisce la totalità dell'essere umano. L'anima, il Sé, non può cessare d'essere anche se trasmigra in un'altra forma corporea. «L'opposizione che la mente riscontra fra ciò che è e ciò che non è potrà dissolversi solo quando l'anima realizzerà di essere il sé unico ed imperituro, il Brahman, da cui quest'universo si è diffuso» . (Essays on the Gítá, Pondicherry, sri Auronbindo Asram, 1993, pag. 57.)

L'affermazione di Aurobindo sembra aporetica, perché da una parte parrebbe sostenere che la mente riconosce come reale il mondo fenomenico e irreale l'anima (in tal senso deve considerarsi l'opposizione tra ciò che è e ciò che non è), dall'altra sostiene che l'opposizione svanisce nel momento in cui l'anima si fonde in unità con il Signore. La visione unitaria, però, non è giustificata, perché al massimo potrebbe presentarsi una concezione ribaltata, che considera reale il mondo spirituale e illusoria la manifestazione fenomenica.

La comprensione del dissolversi dell'opposizione può essere raggiunta facendo riferimento al pensiero di Aurobindo. Secondo il filosofo non esiste una netta separazione tra spirito e materia, ma solamente una diversità vibratoria. Si è, in pratica, di fronte ad un'unica sostanza che vibra a diverse frequenze. Si può comprendere, quindi, come l'anima, raggiungendo l'unità con il Signore, porti il suo livello vibrazionale in sintonia con quello divino, riconoscendo nella realtà totale un'unica manifestazione di Dio.

Non esiste più, di conseguenza, una distinzione tra ciò che è e ciò che non è. Tutto, infatti, è composto dalla medesima sostanza. L'unica differenza è rappresentata dal livello vibrazionale.

L’idea tradizionale della filosofia hindú di un’opposizione ontologica tra la realtà apparente ed illusoria e la realtà assoluta è ridimensionata ad una visione relativa.

La verità consiste nell’esistenza di un’unica energia, che vibrando a diverse frequenze si manifesta in forme differenti: dalle più grossolane, come la materia fisica inerte, alle più sottili, come l’energia eterica, astrale ecc.

Il fenomeno fisico, quindi è semplicemente una parte limitata della realtà, ma non si può negarne l’esistenza.

A questo punto è facile vedere:

"In un brahmano ricco di sapere e di modetia, in una vacca, in un elefante, perfino in un cane e in un uomo di infimo rango la stessa vedono cosa i sapienti" . (BG V, 18)

I sapienti vedono in tutti gli esseri, dalla più pura alla più impura, una sola e medesima essenza: il Brahman. I saggi riconoscono in tutte le creature quel Dio che è uno in tutti.

Ricordiamo, infatti, che se il principio energetico che sostiene tutti gli esseri è unico ed indivisibile, cadono le barriere che limitano l’individuo in un’isola solitaria. Tutto è interdipendente. L’apparente divisione è solamente una parte della manifestazione, ma ad uno sguardo più attento si manifesta la reale unicità della vita.

La via della conoscenza, oltre ad essere una vera e propria teoria della conoscenza, è una filosofia di vita. Il saµnyásin che segue la via della conoscenza interiore pratica un’austera ascesi, sottoponendosi a grandi penitenze. Egli ricerca, attraverso prolungati digiuni e la più assoluta immobilità fisica, la liberazione dal ciclo delle reincarnazioni.

Questa è la via dello jñána yoga, la via della conoscenza, la quale per la sua intrinseca difficoltà è sconsigliata da Krishna:

"La rinuncia e il Karma-yoga procurano entrambi il sommo bene, ma fra questi due il Karma-yoga è preferibile alla rinuncia ad agire."  (BG V, 2)

La via della rinuncia implica l’abbandono delle azioni, mentre lo yoga pone l'accento sul dovere di compierle secondo un giusto atteggiamento spirituale. Lo yoga è sicuramente migliore per l'uomo, perché è più compatibile con la sua intima natura. È impossibile per l'uomo astenersi completamente dall'agire, essendo costituito da un corpo fisico che è naturalmente inclinato all'azione. Quindi, benché entrambe le discipline conducano alla liberazione, è preferibile perseguire il karma yoga.

Si perviene naturalmente al karma yoga, vale a dire, all’azione distaccata priva del desiderio dei frutti dell’azione.

Termina l’insegnamento di Krishna sullo jñána yoga. Esso conduce l’uomo a prendere consapevolezza di non essere il vero autore delle azioni, perché è la natura fisica ad agire. L’átman, il Sé superiore, è semplicemente uno spettatore impassibile, conscio di essere immutabile, eterno e uno con Dio e con tutte le creature.



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