L’ANNO CHE FECE TREMARE IL MONDO

1948 ITALIANI ALLE URNE

di

Carlo Boccadifuoco

1948 SILVANA MANGANO IN POSA

I PARTITI POSTBELLICI ITALIANI, SIN DAL LORO ESORDIO, USARONO VOLTI NOTI PER LA PROPAGANDA POLITICA

PREMESSA

Illustrare la storia del proprio Paese, anche in una piccola esposizione, non è semplice, perché coinvolti emotivamente, si è tentati di proporla con concetti che ora mitigano ora invece esaltano l’idea.

           Con questo scritto ho inteso fornire un’analisi che illustra uno spaccato della società italiana del dopo guerra, evidenziando come la mentalità dei nostri padri si mostra indecisa, secondo una mia valutazione, nello stimare, in tempi brevi, gli avvenimenti politici nazionali.          

           Le blandizie della tentazione mi hanno spesso creato l’idea di affermare che il poco spirito combattivo, forse rinunciatario del popolo italiano è una nemesi storica ma, nella ricerca di queste attenuanti al comportamento dei nostri più prossimi antenati, ho opposto la necessità della logica.

           Proprio per questo, gli avvenimenti descritti, tramite notizie giornalistiche dell’epoca e testimonianze dirette d’anziani, hanno la presunzione di presentarsi scevri da falsi pudori.

LE CONDIZIONI DEL “TRATTATO DI PACE”

           Il nostro Paese perse la seconda guerra mondiale per due gravi motivi:

           “Il primo d’ordine economico – strategico - militare, l’altro strisciante, per la volontà nascosta di forze politiche di minoranza che, d’accordo con paesi esteri, ci condussero ad un armistizio separato sperando nella clemenza degli Alleati”.

            La resa fu totale e senza condizioni, la pace non scoppiò e, dopo cinquantadue anni non siamo ancora apprezzati in Europa.  

           Dalla storiografia sappiamo che la Prima Repubblica Italiana iniziò la sua esistenza nel Giugno 1946, con un governo ad interim, affidato al Senatore Enrico De Nicola eletto suo primo rappresentante.

            Il Presidente De Nicola, con gran capacità e fermezza, guidò la nuova Nazione verso il “Trattato di Pace” ratificato con gli Alleati, il 10/Aprile/1947 a Parigi e poi, verso il primo governo nazionale post bellico.

           In verità, la repubblica oggi spacciata come prima tale non fu, S. E. Benito Mussolini, capo del precedente governo, fondò, dopo la sua liberazione da Campo Imperatore, la Prima Repubblica Italiana a Salò che, con la sua “Costituzione”, fu genitrice dell’attuale Costituzione Italiana.

           Col “Trattato di Pace” di Parigi, che fu imposizione e non trattato perché la mendicata clemenza non giunse, l’Italia subì eccessi non previsti dalle forze antifasciste. Spiccavano, per importanza, clausole riguardanti: A) il nostro territorio nazionale, B) la forza alle armi, C) la futura politica economica e, dulcis in fundo, D) condizioni politiche discriminatorie.

           Nel punto “A” del capitolato di resa s’imponeva che l’Italia cedesse alla Francia il “Col di Briga” ed il “Col di Tenda” e, all’ex Jugoslavia, invece, consegnava gran parte della Venezia Giulia con Trieste e la sua provincia.

           La linea di confine, nel nostro nord-est, fu stravolta e fatta passare, tra l’altro, nel centro abitato delle città d’Udine e Gorizia, sconvolgendone l’assetto politico e sociale.

           Sempre la volontà Anglo, Francese, Americana costrinse l’Italia, Paese povero di risorse, alla rinuncia delle colonie; mentre essi, i vincitori, continuarono a detenere il controllo dei loro possedimenti coloniali, stuprando ancora oggi quei Paesi delle loro risorse minerarie.

           Con l’esproprio dei territori nazionali del nord est, sì iniziò un infame processo, durato anni, che portò a morte, per “infoibazione”, migliaia d’italiani precipitati, con mani e piedi legati dal filo spinato, in quei pozzi d’asburgico retaggio.

           La “foiba” più grande e maggiormente famosa è quella di “Basowitza”, essa contiene oltre settecento corpi tra i quali molti sono i bambini.

            Oggi, per volere delle genti friulane, Basowitza è monumento nazionale ai caduti, monito della brutalità dei “graniciari” slavi, delle truppe titine e di quelle popolazioni d’oltre confine.

           Le clausole militari prevedevano una limitazione numerica delle Forze Armate; non oltre duecentomila uomini potevano essere in servizio permanente. Ci veniva imposta inoltre anche la rinuncia ad essere in possesso di sommergibili, aerei da bombardamento e portaerei.          

           Le condizioni politiche discriminatorie, inique e insipienti, sancivano che qualunque militare Alleato, anche se colpevole di reati comuni commessi in Italia durante l’occupazione, avrebbe goduto l’immunità penale.

            Queste incredibili discriminazioni legali, di sapore persecutorio, crearono un profondo malumore in ogni regione della penisola, con l’insorgenza di pericolose faide.

           Francia Gran Bretagna e Stati Uniti, compresero l’insostenibilità di questa clausola e, in tempi opportuni, per evidenti ragioni d’ordine pubblico, esaminarono se sarebbe stato possibile il suo emendamento.

           I tre Paesi promossero l’abrogazione della franchigia penale, che tutelava i loro uomini, ma poterono attuare il piano, solo in seguito alla dichiarazione tripartita di Washington del 25/dicembre/1951 e, dopo che la maggioranza dei firmatari del trattato accettò la mozione.

           Solo l’URSS si oppose a quest’atto, essa, nascostamente, vincolava il suo assenso di cancellazione della non punibilità, all’uscita che non avvenne, dell’Italia dal Patto Atlantico.

            Per quanto riguardò le richieste economiche previste dall’accordo, subito si capì che erano pesanti, esse si riferivano alla riparazione dei danni bellici, ma tutta la materia sì regolò con accordi individuali speciali.

           L’Italia ritenne di avere soddisfatto gli obblighi economici sanciti, includendo tra le spese, la confisca degli armamenti che si trovavano nel territorio sovietico e nei Paesi ad essa divenuti satelliti.

           L’URSS, al contrario, per strategia politica, a lungo mantenne aperta la questione, essa chiedeva all’Italia un maggiore indennizzo che sperava di ottenere portando il nostro Paese nella sua sfera d’influenza, ciò significava il controllo e dominio del Mediterraneo attraverso la flotta del Mar nero che sarebbe stata opportunamente rinforzata.

           Il ricatto economico e, la “quinta colonna” infiltrata, doveva conseguire il risultato di controllare e possedere la più enorme “portaerei” del dopoguerra estesa nel Mediterraneo.

           Questa mira espansionistica sgomentò il Vaticano, che era stato sotterraneamente filo nazista, perché riconosciuto unico baluardo contro il comunismo, ma anche tutta l’Europa insieme all’America si rese conto del grave pericolo rappresentato dal bolscevismo comunista che faceva temere per una nuova guerra.

           L’URSS tentò in molti modi l’attuazione del suo progetto d’egemonia continentale e marina, anche con la “guerra fredda”, cercando d’infiltrare una quinta colonna capace di minare i governi e di sobillare i cittadini.

I PRIMI PERICOLI PER LA NEONATA REPUBBLICA

           Già da questi anni, il PCUS sovietico finanziò il PCI tramite i dirigenti di partito dei due Paesi servendosi dei servizi del KGB[1] e, proprio per questo, i golpisti nostrani, erano pronti all’insurrezione armata. La conferma ufficiale, avvenuta pochi mesi or sono, è fornita dal “Dossier Mitropkin”, forse incompleto ma certo attendibile.

           In quel clima di guerra fredda, in territorio italiano, anche gli Alleati e la Chiesa Cristiana Cattolica, assieme alle forze sane del Paese, *s’impegnarono nelle grandi manovre politiche e sociali, riuscendo a creare una disfatta elettorale nel PCI durante le prime votazioni repubblicane del 1948.  

L’On. Comunista Ferdinando Santi, sull’Unità, motivò in questo modo, la sconfitta:          

           “Siamo rimasti soli; il mondo intero complottava contro di noi.

            L’America di Wall Street, di Jim Carrey e di Monsignor Spellman ci ha infamato, minacciando di farci morire di fame, mentre ci mandava lettere e regali.

            In Europa, i finti miti e rosei olandesi, intenti a coltivare tulipani con grazia ed, a spremere petrolio con ferocia dalle vene degli indonesiani trucidati, pregavano per gli italiani affinché votassero per De Gasperi per salvare il Papa e, pregavano per il Papa per salvare De Gasperi.

           In Italia, i Cardinali con le loro scomuniche e il Vescovo di Roma, capo di uno stato terreno e straniero, ordivano le loro trame al grido sanfedista –“O con Cristo o contro Cristo”-

            Il gesuita padre Lombardi, nel suo girovagare, conduceva le sue prediche in piazza e i comizi nelle chiese arringando i credenti, in ciò coadiuvato dai giovani dell’Azione Cattolica, che con pio furore vandaeno e, con i loro eleganti manganelli rivestiti di lucidissimo cuoio, diffondevano il cattolicesimo.

            Le devote “Figlie di Maria”, con il loro atto di fede-

           -Sempre col papa sino alla morte- che bella sorte- che bella sorte-

ci odiano additandoci al pubblico ludibrio, mentre negli occhi hanno la stessa commiserazione cruda e inesorabile degli antenati che accendevano il fuoco agli eretici commentando-

           -Per la salvezza della tua anima, fratello!-

           Tutti erano contro di noi.”

           Non dicono però i comunisti delle loro sopraffazioni, dell’avversione per ogni idea diversa, dell’arroganza che li attanaglia, della boria e tracotanza dei loro atteggiamenti, della mancanza di civismo politico nei loro appartenenti.

           Esagerazione a parte, degli eleganti manganelli o degli olandesi tesi a salassare petrolio dai cadaveri indonesiani e, delle “figlie di Maria” piromani, l’isolamento degli estremisti di sinistra divenne reale.

            Scrutator, giornalista del Sunday Times, nel 1948, con gran concisione e lungimiranza, così si espresse indicando il pericolo comunista:

           “…Se cadono i Dardanelli, cade la Grecia; se cade la Grecia, cade l’Italia; se cade l’Italia, cade la Francia; se cade la Francia, è la fine dell’Europa libera.

           …Fermati in Grecia ed in Turchia, i Sovietici hanno ora concentrato la loro attività sull’Italia.

           …Il loro strumento maggiore è il solito, una quinta colonna chiamata Partito Comunista Italiano”.

           Erano concetti semplici, comprensibili da tutti, anche dai più distratti ed ignoranti, erano giudizi evidenti che mettevano in agitazione intere popolazioni dall’Alpi alle piramidi, dall’uno all’altro polo, solo il popolino italico stentava a capire.

           In tutte le Chiese d’ogni confessione, nelle moschee e nelle sinagoghe, nelle pagode e nei riti esoterici, sotto cieli splendenti o brumosi, si levava un unico coro tra i credenti, che un Dio benigno preservasse l’Italia dal comunismo perché poteva divenire la porta europea per la sua diffusione.

           Neppure nelle sale cinematografiche taceva la propaganda politica, la “Settimana Incom” e “l’Incis” presentavano cinegiornali divisi in tre parti, le malefatte comuniste e la guerra di Corea, il benessere americano e le elezioni italiane.

            Poi al buio, Cary Grant, Gary Cooper, Robert Mitchum ed altri, raffiguravano il mito dell’eroe americano che combatteva il cattivo ovunque, mentre, sempre Holliwood, ci mostrava le gambe tornite di Jane Mansfield, Rita Hayword e Judy Garland.

           In quel periodo di speranze e illusioni giungevano, in casa nostra, tonnellate di lettere d’italiani emigrati, che pregavano parenti, amici e conoscenti di non farsi catturare dal pericolo rosso sempre più immanente.

           L’italiano Vittorio Gorresio, in un suo scritto, “Carissimi nemici*” così si esprimeva in proposito di quei tristi momenti:

           “La vigilia del 18 Aprile pareva l’alba dell’anno Mille, quando Satana doveva essere sciolto dalla sua prigione, secondo l’Apocalisse di San Giovanni”.

           Già settimane prima del momento elettorale, la vita economica della nazione sembrò fermarsi, il mondo intero era in ansia; sia la “cortina di ferro”, sia l’occidente, trattenevano il respiro per l’incertezza della situazione e del suo gran significato politico e geostrategico.

           La competizione elettorale italiana tracimava i confini nazionali.

           In tutti i continenti e nelle cancellerie politiche, come tra i pastori transumanti d’Aspromonte, il possibile avvento del comunismo aveva assunto il significato di un esame definitivo, nelle coscienze la sua vittoria era sinonimo di dittatura, la ripulsa corrispondeva alla libertà.       

           L’Italia geografica divenne il centro d’attenzione della stampa internazionale, i radiocronisti più accreditati ed i migliori fotografi erano, in quei giorni, qui concentrati.

           Oltre duecento giornalisti trasmettevano le loro notizie, più di tre milioni di parole il giorno, un fiume in piena, grande trenta volte l’intera “Divina Commedia”.

           Tutte le reti radiofoniche più importanti mandarono i loro campioni della comunicazione; ad ogni ora qualcuno trasmetteva nuovi servizi.

           Tra i tanti corrispondenti accreditati ospitammo, Austin Lake, il primo giornalista che aveva messo piede nella Germania hitleriana al seguito delle truppe americane, Pierre Lazareff, di France Soir, che aveva aumentato la tiratura del suo giornale da quarantamila ad oltre un milione di copie.

           Spiccavano poi i nomi di Murrow, asso tra gli assi, che la CBS aveva inviato a Roma, lui, primo tra tutti, aveva descritto i bombardamenti tedeschi di Londra e poi quelli inglesi di Berlino.

           Seguiva, non per minore importanza, Henry Cassidy che aveva ottenuto durante la guerra, unico occidentale, un’intervista con Giuseppe Vissarionovic Giugasvili, l’ex seminarista, il Sosso di quell’età, deforme per il suo braccio sinistro anchilosato e più corto del contro laterale e, ormai, anche alcoolista.

           Inviato dall’Inghilterra giunse Randolph Churcill del Daily Mail e poi, dal mondo intero, una lunga sequela di nomi, forse meno conosciuti, ma certo abili nel loro lavoro.

           Mai, al Viminale e nei palazzi della politica s’era vista una simile eccitazione che coinvolgeva intere città, tutto il mondo sapeva che le elezioni italiane erano il più importante avvenimento giornalistico dopo la cessazione delle ostilità.

           La sintesi di quell’enorme numero di servizi giornalistici, indirizzati in tutto il globo, imprimeva nella mente che gli italiani, il 18 Aprile, col loro voto avrebbero confermato un aspetto già esistente o, del tutto nuovo, per la configurazione dell’Europa.

           La piccola Italia, unica tra le nazioni perdenti, avrebbe convalidato l’avanzata della sfera d’influenza del comunismo sovietico o la sua chiusura sulla piattaforma continentale; la giovane Italia avrebbe fissato i limiti della nuova disposizione europea, tra Est ed Ovest, tra la cultura liberale e quella comunista.

           Sulla stampa nazionale anticomunista, così si sintetizzava il pericolo in una testata giornalistica:

           “La vittoria di De Gasperi è la pace; la vittoria di Togliatti è la guerra”.

IL MONDO E’ COL FIATO SOSPESO

            Ogni nazione tratteneva il respiro, solo gli italiani furono lenti a capire, certo la nostra gente era frustrata, stanca, disillusa, amareggiata, ma il pericolo incombeva, tutta la terra sembrava in sofferenza. 

           Molti, da noi, ritenevano che il Paese liberale non avesse futuro, certi per convincimento politico, altri per disperazione.

             Molti disillusi, non speravano più; con la Patria dominata da stranieri noti e occulti, in cui interi paesi, ancora mucchi di rovine, senza strade e comunicazioni, inventavano la loro giornata in preda alla fame ed alle gravi deficienze sanitarie, ogni cosa appariva senza senso.

           L’avvilimento era totale, la sfiducia trionfava, la pseudo democrazia dei vincitori avviliva.

           Su ogni credo benigno di rinnovamento nazionale, di continuo, aveva il sopravvento l’incertezza del domani, della mancanza di lavoro e delle gravi condizioni sociali.

           Opposto all’avvilimento generale, si ergeva, moderno mostro dalle sette teste, il Partito Comunista Italiano, quello di Togliatti e della sua amica Nilde Iotti, presuntuoso, tracotante, violento, litigioso ed egoista, sicuro della sua vittoria finale.

           Durante la campagna elettorale di Togliatti, nel mezzogiorno d’Italia, ove l’ignoranza dominava assoluta e lo Stato era latitante, si videro contadini genuflettersi al suo passaggio, come davanti a nuovo Messia, intanto che madri piangenti gli porgevano bambini affamati in atto di devozione e d’impegno.

            Frattanto, nei poveri tuguri, qualcuno rendeva inoperoso il Cristo fissando una nuova icona sopra i capezzali.

           Questi avvenimenti, vivi nelle cronache d’allora, erano indici di un’umanità dolente di miseri analfabeti, elettori comunisti per ignoranza, disperati per le necessità economiche e per la giustizia sociale ora latitante.

           I poveri, gli umiliati, gli offesi, forti della sfrontatezza del popolo in movimento, nuovi giacobini, cedevano alle blandizie comuniste adorando chi tra le sinistre, esaltando il loro sentimento di potenza, sapeva animarli. Primo tra tutti Togliatti, il comunista Togliatti, che quel popolo sconsiderato riteneva novello santo, inviato da Stalin per aiutare i diseredati, i deboli e gli inetti.

           “Strana incredibile Italia di soli cinquant’anni fa, che si barcamenava, preda di un malessere imperante, incapace a discernere tra il pragmatismo di bene e di male”.

           In quei momenti di gravissima incertezza, come spesso suole accadere, molta della media borghesia, credendo le sinistre le future reggenti delle sorti d’Italia, fece la grand’abiura, correndo, quasi a gara, tra le braccia degli ipotetici vincitori.

           E’ questa la stessa gente, volta gabbana, impostore, qualunquista, che da sempre dette il “Giardino d’Europa” allo straniero; è lo stesso popolo che non seguì un Capo quando finalmente l’ebbe, che preferì tornare nelle stalle sotto lo straniero.

           “Vecchie reminiscenze, foriere di funesti presagi mi tornano in mente ripensando i versi del Manzoni nel “Secondo coro dell’Adelchi” o, di Parini nella sua ode “La caduta”, vati dell’infelice situazione sociale italiana.”

           Dobbiamo tuttavia riconoscere che le speranze comuniste di allora erano reali, esse non erano esaltazione, il pericolo era concreto.

           I comunisti, forti dell’appoggio dell’Internazionale Socialista, tracotanti, attendevano la vittoria elettorale, memori che due anni prima, nel 1946, alle elezioni per la “Costituente”, avevano ottenuto nove milioni di voti contro gli otto milioni e centomila della Democrazia Cristiana.

           In via delle “Botteghe Oscure” erano consapevoli della propria forza numerica, ed erano certi d’averla aumentata dopo l’opera d’infiltrazione capillare svolta nel Mezzogiorno d’Italia.

            Il bersaglio comunista, data per scontata la vittoria, puntava all’affermazione come partito di maggioranza assoluta, nella peggiore delle ipotesi erano in ogni modo certi di comporre il governo.

            La massima affermazione sarebbe dipesa dall’affluenza alle urne del ceto borghese che, proprio per questo, doveva essere distolto dal votare.

           Per questa valutazione i Togliatti, i Secchia, i Longo…, nella loro strategia politica, decisero di non esasperare la contesa elettorale ed escogitarono soluzioni che davano tregua, almeno apparente, tra i partiti.

           I capi del PCI capirono il loro tallone d’Achille e camuffarono l’aspetto rivoluzionario del loro estremismo, cambiando, in quelle elezioni, il simbolo della “falce e martello” con il volto bonario di Garibaldi.

           Non reputando sufficiente quanto già fatto, la mossa successiva fu d’inserire, nelle loro liste elettorali, personaggi ritenuti “indipendenti” dal pubblico e che, per questo, avrebbero avuto un certo seguito nelle comunità borghesi.

           Altra nuova sicurezza di vittoria, derivava, oltre che dal clima di massima serenità e tranquillità elettorale, dalla manovra posta in opera per riuscire a far disperdere voti alle altre forze politiche e nell’allontanare, dalle urne, chiunque che li avrebbe potuti osteggiare.

           Da via delle “Botteghe Oscure” e dalle sedi periferiche s’inviarono direttive categoriche, che imponevano ai propri uomini di non disturbare le assemblee degli avversari mentre un gran numero di donne, attiviste politiche, fu inviato nelle strade e nei mercati rionali.

           Queste sobillatrici ebbero il particolare compito, col loro chiacchiericcio, di far sì che le massaie disertassero le urne non esprimendo il proprio voto:

“…non è il caso di lasciare soli i bambini e le pentole sui fornelli la mattina del 18 Aprile”,

così andavano ipocritamente cicalando e aggiungevano:

“…. é tutta una burla, Mussolini, De Gasperi, Togliatti, l’uno vale l’altro. E’ sempre la stessa musica”.

           La confusione d’idee nel popolino divenne tremenda, gli italiani erano sempre più titubanti, sembrava, ai molti politici liberali, che tanti avevano accettato il suggerimento dei marxisti.

GLI ITALIANI COMPRENDONO IL PERICOLO

           Come il pio del vangelo, dopo aver porto l’altra guancia non sappiamo cosa fece, finalmente De Gasperi, Saragat, Pacciardi, Corbino e gli altri segretari di partiti anticomunisti, stanchi di subire, iniziarono ad arringare gli italiani, ma questi, ancora incapaci di capire che era in lizza la loro libertà, in un primo momento scrollarono le spalle.

           Solo i più attenti porsero l’orecchio al clangore politico, ma pochi avevano contezza della feroce lotta tra le forze politiche avverse e dell’importanza futura della “buona scelta”.

           Molte iniziative si crearono per contrastare il comunismo, così nel tempo gli Alleati restituirono Trieste senza l’Istria all’Italia, il MSI intervenne nell’agone politico con i suoi sistemi clamorosi e, i cattolici, sferzando le coscienze contro il Satana rosso, s’impegnarono con i loro “Comitati Civici”.

           Finalmente la stampa liberale assunse un ruolo deciso, di primo attore, svegliando le coscienze sopite, convincendo finalmente i molti “re tentenna” della necessità di votare per la libertà di pensiero e d’azione.

            Gli italiani, moltitudine di nuovi Lazzaro, risorsero scotendosi di dosso il torpore e la sfiducia verso il potere politico.

           Agli attenti comunisti, scaltri imbonitori, maestri d’insidie e costruttori di perfidie, non sfuggì la mutata situazione politica e, le loro segreterie di partito tentarono con nuovi mezzi di riconquistare l’elettorato che si allontanava dal loro volere.

           Lo sgomento di perdere la vittoria finale scosse “Botteghe Oscure” con il suo “Fronte Democratico Popolare per la Libertà, la Pace e il Lavoro” e la lotta politica divenne violenta, dura, cattiva, gli scontri fisici avvennero realmente e non furono leali, amichevoli e bonari come nella fantasia narrativa di Guareschi.

           Esclamerà Togliatti dopo le elezioni:

“A batterci è stata la mobilitazione delle paure; delle paure suscitate contro di noi comunisti”.

           L’odio crebbe a dismisura, l’onda dell’emotività aumentò in un crescendo di bolgia dantesca, sembrò che Attila fosse sull’Alpi pronto ad espugnare l’Italia.

           In questa situazione turbolenta, mentre l’arroganza comunista emergeva sempre più forte, i partiti laici cercarono più fortemente il miglior modo per raggiungere gli indecisi.

           Finalmente le coscienze sono deste, una fiamma di riscatto e di rivolta contro il comunismo si muove per l’Italia, “bisogna vincere” è il nuovo motto, e più i comunisti si sentivano forti e sicuri, più le forze contrapposte s’ingigantivano.  

Infine il periodo di campagna pre elettorale terminò ed il PCI, nella confusione più completa, affidò a Togliatti il suo comizio di chiusura.

            Per l’occasione Roma fu invasa da migliaia di persone urlanti, lupi feroci che mostrarono la bramosia di potere quando il loro idolo testualmente affermò che “si era fatto mettere due fila di chiodi nelle suole delle scarpe, dal proprio ciabattino, per meglio prendere a calci De Gasperi dopo la vittoria del Fronte”.

           Cessato il comizio, la stessa massa anonima, che già aveva nuove divise con la stella rossa, percorse, diurno licantropo, le vie della città cantando:

“..e vattene, e vattene, - schifoso cancelliere, - se non ti squagli subito- son calci nel sedere!”-

           Da quel momento, per cinque giorni, nel mondo politico e in Italia calò il silenzio.

           Ora, dopo tutte le clamorose strategie, bisognava perfezionare le ultime mosse, la diplomazia tessé più attivamente accordi sotterranei ma non per questo meno validi, mentre ancora si contavano gli ultimi indecisi.

           Fu per questo che la mattina del venerdì, gli italiani uscendo da casa, trovarono le vie cittadine tappezzate di striscioni con la scritta:

           “Il fronte vince, vota per il Fronte”

           Questo motto ripetuto sino alla nausea ad ogni angolo di strada, accrebbe l’esasperazione dei più e l’italiano sopito, finalmente sveglio, votò in massa contro il Fronte.

           L’ultima menzogna comunista, incostituzionale, per decorrenza dei termini fissati, fu il manifesto che apparve nelle città il mattino del 18 Aprile, la sua scritta ipocrita diceva:

           “Se sei con Cristo, cancella Garibaldi! Cattolici, la vostra ora è venuta”, seguiva la firma apocrifa di Pio XII

           Rammentando che il viso di Garibaldi compariva come simbolo comunista, si comprende come questa sia stata una trovata antidemocratica tesa, vile tranello, ai più semplici tra i cattolici perché chi “cancellava” la testa di Garibaldi dalla scheda elettorale votava per il Fronte.

           Nelle sue previsioni il PCI riteneva di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi, questo sarebbe avvenuto se la percentuale dei votanti fosse stata minore del 70% ma, con un’affluenza dei votanti dello 80% il Fronte sarebbe stato un partito di maggioranza con più elettori della DC, restando però il minoritario dei quattro partiti che avrebbero formato l’alleanza governativa.

           Solo nel caso in cui il numero dei votanti avesse superato il quorum dello 89,1%, come nelle elezioni del Giugno 1946, il Fronte avrebbe subito una clamorosa sconfitta.

L’imponderabile avvenne.

GLI ANEDDOTI SONO STORIA

           L’onorevole Luigi Longo, chiusa la campagna elettorale, prima dello scrutinio, scrisse e fece scrivere nel suo settimanale “Vie Nuove” articoli inneggianti alla vittoria elettorale del suo partito, ma il risultato del giorno dopo portò le duecentomila copie stampate quasi tutte al macero.

           Riportiamo, in breve, quanto scritto su “Vie Nuove” del 17 Aprile 1948:

“Il solito scritto di Alberto Cavaliere s’intitolava -VITTORIA- ed i suoi quattordici versi avevano un’enfasi glorificante di peana; poi l’articolo di fondo comunicava ai cittadini che:

           “Il Fronte terrà fede al suo programma elettorale”     

           In un disegno caricaturale si mostrava il ministro degli interni Scelba che si rivolgeva ad un passante dicendogli:

           “Abbiamo fatto votare le monache di clausura, i pazzi, i morti: non riesco a capire chi ha fatto vincere il Fronte”, il passante candidamente risponde-

           “Il popolo”

           In diversa illustrazione De Gasperi dice a Scelba:

           “Beh, ora per vincere non ci resta che iscriverci al Fronte”

           Un’altra striscia, mostra un grosso prete che legge terrorizzato i risultati elettorali esclamando al suo interlocutore anch’egli sacerdote:  

           “Accidenti ha vinto il Fronte!” di rimando-

           “Hai paura che vieteranno le funzioni in chiesa?”- “No, ma che vieteranno il cambio delle valute”

           In una diversa battuta tre borghesi commentano le elezioni in un caffè:

           “Si”, il Fronte ci ha fregato, ma andiamo a guardare la qualità”

           Un’ultima vignetta mostra De Gasperi, Scelba, Sforza, Saragat, sepolti sotto una valanga di voti del Fronte mentre il primo dei tre commenta:    

“...e pensare che abbiamo faticato tanto per farli votare”      

           Nei calcoli elettorali, oltre la cabala, si tenevano in gran conto le condizioni meteorologiche del giorno delle votazioni, bel tempo tanti votanti, brutto tempo pochi votanti.

           Sul tempo s’innesta l’aneddoto, raccontato ai bostoniani, dal giornalista William Cunnigham; egli scrive che Attilio Piccioni, allora segretario politico della DC, si svegliò alle quattro di mattina quel 18 Aprile e, come fanno tutti i romani per saper che tempo farà, alzò gli occhi verso “il cupolone” notando grossi cirri incombere su San Pietro.

           Cominciò tra sé a borbottare in questo modo :    

“Signore, tu sai quanto abbiamo penato; io ho perduto sei chili in questi ultimi venti giorni correndo di qua e di là attraverso tutta l’Italia e ora tu ci abbandoni, fai piovere proprio oggi”     

           La figlia lo udì e avvicinatasi gli disse :

           “Pazienza, prendiamola come una prova che ci manda il Signore”    

           Intanto che così, nel cuore dei capi delle opposte fazioni, si dubitava con diverso credo, tra ansie e trepidazioni, il dramma era certo più serio nel cuore dei miseri. Nell’arco alpino, parecchie famiglie passarono il confine, spaventate da un profondo senso di pericolo, molti genitori inviarono i bambini oltre le Alpi per raggiungerli subito dopo il voto, mentre, nelle banche della penisola, avveniva un continuo prelievo di denaro che corse, attraverso canali sotterranei, verso l’estero.

           Il mondo economico si fermò trattenendo il respiro, indicativo fu che dal 15 al 22 Aprile non si stipulò alcun contratto assicurativo, sembrava che un comune tacito motto accomunasse tutti:

           Torni dopo le elezioni”

           A Cinecittà i registi fermarono le direzioni artistiche e gli attori furono mandati a casa, si scoprì poi che per ogni film era prevista una doppia sceneggiatura con duplice finale, ognuno immaginato per la vittoria dell’uno o dell’altro versante politico.

           Non mancarono apparenti contraddizioni, gli uomini in quel periodo disertarono le sartorie ed i negozi d’abbigliamento, mentre le donne spendevano quanto potevano comprando calzature, vestiario, biancheria, cosmetici, perché la loro preoccupazione era che con la possibile vittoria comunista fossero banditi tutti i beni considerati di lusso.

           La Borsa, come sempre, nei periodi di massima incertezza, nonostante la depressione, impazzì con i titoli che salivano oltre ogni più rosea previsione, la Montecatini guadagnò 122 punti in pochi giorni, il commento degli economisti fu:

           “La borsa sconta la vittoria del Fronte”

           dissero quelli di sinistra; per il liberismo economico, invece, il motivo era da ricercarsi nella sicura vittoria delle forze di Centro e negli aiuti americani che certo sarebbero arrivati.

           L’ingordigia del popolo comunista, di quegli otto milioni d’elettori, più che dalla storiografia del PCI e delle scarpe chiodate di Togliatti, è descritta, con vero realismo, dalle liti che scoppiarono nelle campagne per il modo di suddividersi le abitazioni dei ricchi, che in quei mesi persero sul mercato, anche il 30-40% del loro valore.

           Oggi, dopo cinquantadue anni, di quell’Italia paesana, affamata, arruffona e ingenua, possiamo anche sorridere, ma se quel 18 Aprile avesse decretato un diverso assetto politico, ora non potremmo che piangere.

           Anche questi nostri dì sono precari, ma noi giudizioso popolo di destra, promuoviamo ogni nostra capacità e qualsivoglia credo per dare ai nostri figli quei valori che stimiamo.

                                                                                                   

[1] La dizione giusta è : “Ka Ghe BE”.

* Anche la criminalità mafiosa siculo americana intervenne contro il comunismo nella contesa elettorale.

* Personalmente non ritengo che in alcun caso un nemico possa essere carissimo.

 

Carlo Boccadifuoco