PER NON DIMENTICARE

Questi nomi, per tanti ragazzi che oggi militano nelle varie organizzazioni di destra stanno a significare l'esigenza di continuare a lottare e fare politica non per fama o denaro, ma per cambiare questa amata Italia. Loro hanno avuto il coraggio di farlo.

 

Erano dei ragazzi, colpevoli solo di aver lottato per un Ideale a cui credevano....

UGO VENTURINI

Genova, 18 aprile 1970, comizio di Giorgio Almirante. Come al solito, come sempre in quegli anni, è clima di scontro. La sinistra in tutte le sue componenti è mobilitata: dai famigerati camalli, gli scaricatori di porto, braccio armato del partito comunista, già famosi per aver impedito nel sangue il congresso del MSI del 1960, fino all'ultimo consigliere comunale socialdemocratico; tutti sono pronti ad impedire al leader missino di parlare in piazza Verdi. A sua volta anche la destra si mobilita; il comizio di Almirante è un po' il simbolo dell'orgoglio, del coraggio, della voglia di non farsi sopraffare. In piazza è scontro, la polizia separa i contendenti. Il comizio inizia, ma improvvisamente una carica dei camalli fa vacillare le fila delle Forze dell'ordine e i rossi arrivano da dietro fin sotto al palco. I militanti missini si stringono a fare scudo. Dalle file dei rossi vola di tutto: bastoni, bottiglie, sassi. E sarà un sasso a colpire alla testa Ugo Venturini, 32 anni, sposato e padre di un bambino, dirigente dei Volontari nazionali di Genova, che si trova ai piedi del palco, alle spalle di Almirante, per proteggerlo. Durante gli scontri rimane ferito anche il giovane missino Carlo Marazzia di 19 anni. Ugo Venturini morirà il primo maggio, giornata simbolo per un operaio come lui, sindacalista della Cisnal. Da quel giorno e fino al suo scioglimento, nel 1974, il Gruppo dei Volontari nazionali prenderà il suo nome.

CARLO FALVELLA

La notizia della sua morte fu l'avvisaglia che preludeva all'inizio di un decennio di barbarie e di lutti. Non si trattava più (né mai più si sarebbe trattato) di uno scontro di piazza, tra gruppi fronteggianti. Ora siamo all'aggressione singola, all'agguato. Per la prima volta, poi, la vittima è un giovane, appena diciannovenne, vice presidente del Fuan di Salerno. Carlo Falvella ha il volto aperto, pulito di un bel ragazzo studioso. Il suo assassino, che si definisce anarchico, Giovanni Marini, viceversa è già il prototipo del comunista anni Settanta: capelli lunghi, barba folta, eskimo. E' il 7 luglio 1972 quando il Marini, insieme ad altri due militanti dell'ultra sinistra: Gennaro Scariati e Francesco Mastrogiovanni, attende Carlo sotto la sua abitazione, in via Velia. Falvella è insieme ad un altro giovane missino, Giovanni Alfinito, che verrà anch'egli ferito. I due non hanno neppure il tempo di reagire all'agguato che vengono colpiti a coltellate. La lama di Marini si conficca due volte nel cuore di Carlo. Arrestato poco dopo, il Marini verrà condannato all'irrisoria pena di nove anni. Ne sconterà in galera meno di quattro e, in pieni anni Settanta, tornerà all'attività "politica" nell'ultra sinistra, diventando in qualche modo il simbolo vivente dell'impunità che il regime antifascista garantiva ai suoi figli prediletti.

              

STEFANO e VIRGILIO MATTEI

Quella scena non ce la toglieremo mai più dagli occhi: un fotogramma agghiacciante che simboleggia, nella sua drammaticità, l'abisso morale tra le parti in conflitto. Da un lato la barbarie vigliacca di chi appicca il fuoco, nella notte, alla casa del "nemico". Dall'altra il disperato eroismo e l'amore fraterno del camerata Virgilio Mattei, 22 anni, dirigente dei Volontari nazionali e figlio del segretario della sezione "Giarabub" del MSI di via Svampa a Roma. In quella fotografia terribile (pubblicata su tutti i giornali) si vede il volto straziato dal fuoco di Virgilio, una mano che si protende fuori dalla finestra ad afferrare i fili del bucato nel tentativo di tirarsi fuori dall'inferno. Aggrappato a lui il fratellino Stefano di appena 10 anni...
L'intera famiglia Mattei, conosciutissima per la sua fede politica nel popolare quartiere di Primavalle, aveva già subìto più volte minacce e aggressioni nel clima sempre più rovente dei primi anni Settanta. L'attentato alla loro abitazione inaugura un metodo assassino che diventerà presto una "moda" in tutta Italia. E' la notte del 16 aprile 1973 quando un gruppo di comunisti sale al terzo piano delle case popolari di via Campeggi 15, dove abitano i Mattei; si ferma sul pianerottolo e versa lentamente una tanica di 15 litri di benzina spingendo il liquido sotto la porta d'ingresso. Un fiammifero ed è l'inferno. Le fiamme avvolgono la porta in legno, ma si attaccano anche a quella della stanza in cui dormono Virgilio e Stefano. L'intera cameretta prende fuoco in pochi minuti. Virgilio balza in piedi, vede la porta in fiamme e corre verso la finestra. Lui che è grande potrebbe forse mettersi in salvo saltando, ma si volta verso il fratellino che lotta contro la coperta in fiamme. Torna indietro, lo prende con sé, si attarda troppo cercando di spegnergli le fiamme che invece si attaccano anche al suo pigiama. Afferra il fratellino e torna alla finestra. Fuori c'è gente che urla, ma non ci sono ancora i pompieri. Virgilio, il corpo avvolto dal fuoco, cerca di spingere il fratello fuori dalla finestra per lanciarlo tra le braccia della gente sotto, ma non riesce a sollevarlo. La gente urla "buttati, buttati", ma lui ci riprova ancora a salvare Stefano. Ultimo, generoso, disperato tentativo. Le fiamme che divorano il suo corpo gli tolgono ogni energia e Virgilio rimane lì, aggrappato ai fili, il bel volto sfigurato. Quella scena si incide negli occhi, nella memoria e nella coscienza di tutti i militanti di destra e rimane una ferita profonda, inferta non solo alla nostra parte politica, ma alla Civiltà in assoluto. Gli autori dell'eccidio (tre quelli identificati: Marino Clavo, Achille Lollo e Manlio Grillo, tutti appartenenti a Potere Operaio) vengono arrestati dopo un anno di indagini. Per loro la sinistra si mobiliterà con tutte le sue forze: cortei, manifestazioni, aggressioni (che porteranno alla morte di un altro missino), articoli sui giornali, raccolte di firme, petizioni parlamentari. Nonostante l'azione omicida fosse stata anche "rivendicata" da Potere Operaio, la stampa (e non certo solo quella di sinistra) tenterà di alzare una cortina di dubbi, ambiguità e reticenze per difendere gli assassini. Su tutti valga il vergognoso esempio dell'articolo di Fabio Isman su "Il Messaggero", che cerca di accreditare la voce di una "faida interna all'ambiente missino romano". I tre assassini verranno riconosciuti colpevoli in tutti e tre i gradi di giudizio, ma poiché, grazie a magistrati pavidi e a potenti appoggi politici, sono riusciti a fuggire dall'Italia, oggi vivono "tranquilli": uno in Nicaragua e due in Africa.

GIUSEPPE SANTOSTEFANO

Reggio Calabria è ancora oggi il simbolo dell'unica, autentica e coraggiosa rivolta popolare contro il regime corrotto dei partiti. Una città tradita e abbandonata, come lo sono la maggior parte delle città del Sud, mantenute in uno stato di sudditanza politica e amministrativa dal potere politico-mafioso. Reggio però, nel luglio del 1970, ha il coraggio di ribellarsi e la sua rivolta è tanto clamorosa, quanto corale e durissima. La miccia è innescata dalla designazione di Catanzaro a capoluogo regionale, ma i motivi sono molto più profondi e radicati. La risposta dello Stato alla rivolta è la repressione più dura e spietata. La città viene messa in stato di assedio come se si trattasse di un'enclave nemica. Migliaia di poliziotti, carabinieri e poi anche l'esercito coi blindati, vengono impiegati per sedare i moti popolari. Il 15 luglio, durante una carica della polizia, muore l'operaio Bruno Labate. Il 17 settembre le Forze dell'ordine assaltano con fucili e mezzi blindati il quartiere Sbarre, roccaforte dei "boia chi molla" capitanati dal sindacalista della Cisnal Ciccio Franco. Un altro reggino, Angelo Campanella, muore colpito da un proiettile. Ciccio Franco viene arrestato e, insieme ai capi della rivolta, deportato a Bari. Solo nel marzo del 1971 i blindati, le centinaia di arresti, i rastrellamenti e le perquisizioni a tappeto riportano "l'ordine" a Reggio. Se un decimo di queste misure fossero state adottate negli anni successivi, a Milano o a Roma, contro le organizzazioni armate della sinistra, il tragico elenco di morti di queste pagine potrebbe essere ben più corto. Ma se una rivolta si può sedare la rabbia non si cancella. Così Reggio non dimentica e alle elezioni del 1972 vota in blocco per il MSI ed elegge Ciccio Franco senatore. In tutta la città le sedi dei partiti "romani" sono deserte. Solo i comunisti, abituati alla guerriglia partigiana, mantengono una loro struttura semiclandestina e armata, fungendo così, negli anni a venire, da cavallo di Troia per il ritorno in grande stile della partitocrazia, della corruzione, delle tangenti... Così, a poco più di un anno dalle elezioni che hanno sancito il trionfo del MSI, i comunisti danno "un segnale" della loro presenza politica assassinando uno dei più attivi sindacalisti della Cisnal, Giuseppe Santostefano, di 50 anni. E' il 31 luglio 1973 quando, durante un comizio del Partito comunista, il sindacalista viene aggredito da un gruppo di militanti rossi. Muore poche ore dopo senza riprendere conoscenza. La sua scomparsa e l'impunità dei suoi aggressori sanciscono la definitiva sconfitta di Reggio.

EMANUELE ZILLI

Anche una tranquilla città di provincia come Pavia può avere i suoi morti e può persino dimenticarseli... E', più o meno, ciò che è avvenuto per la vicenda di Emanuele Zilli, 25 anni, esponente e attivista del Movimento Sociale Italiano, di cui era stato anche candidato alle elezioni comunali. Un militante di quelli che non si tiravano indietro, in anni di scontri anche molti duri. Aggredito una prima volta, nel 1972, in piazza Castello insieme ad un amico, qualche mese dopo stava per fare la stessa fine, insieme ad altri due iscritti, uno dei quali, però, reagì sparando un colpo di pistola che ferì uno degli aggressori, Carlo Leva. Naturalmente questo episodio ebbe grande risonanza ed Emanuele passò non pochi guai. Infatti, poche settimane dopo, fu "prelevato" da un cammando di comunisti mentre si trovava di fronte alla sede del MSI e selvaggiamente percosso. Ricoverato in ospedale in gravi condizioni fu però dimesso quasi subito, ancora sofferente, per consentire alla polizia, non di proteggerlo... bensì di arrestarlo per l'episodio precedente. Due medici del Policlinico furono anche denunciati per la loro prognosi a dir poco "sospetta". Sarebbe del tutto inutile specificare che Zilli fu poi riconosciuto completamente innocente, ma ormai il suo destino era segnato. Emanuele era sposato e padre di due bambine che, nel novembre 1973, avevano appena due e un anno: era un operaio che, per mantenere la sua famiglia, lavorava duramente presso una nota ditta di Pavia, la Bertani, e fu all'uscita dal lavoro che trovò ad aspettarlo la morte... Così "La Provincia pavese" di quei giorni ricostruisce i fatti.
"Sembra che venerdì sera egli fosse uscito dal lavoro e, verso le 18 e 30, stesse facendo ritorno a casa in sella al proprio motorino percorrendo una traversa di via dei Mille. Qui è stato rinvenuto, poco dopo le 18 e 30, esanime a terra accanto al proprio motorino. Il corpo dello Zilli giaceva sulla sinistra della carreggiata. Prontamente soccorso, il giovane veniva trasportato al Policlinico. In un primo tempo si faceva l'ipotesi più ovvia, quella dell'incidente stradale: lo Zilli sarebbe sbandato sulla propria sinistra, andando a sbattere contro un'auto o finendo a terra per un malore. Ma alcune circostanze inducono ad una maggiore cautela: lo Zilli aveva un occhio pesto, come se fosse stato picchiato; sul collo presentava un profondo graffio; ed il suo corpo era stato trovato in una posizione "strana" rispetto al motorino".
"Il luogo era completamente deserto - aggiunge il quotidiano in un altro resoconto - non c'erano macchine intorno contro cui Zilli potesse aver urtato cadendo. Né segni di uno scontro". Tre giorni durò l'agonia di Emanuele che si spense, senza mai riprendere conoscenza, all'alba di lunedì 3 novembre 1973. Sulla sua vicenda non è mai stata fatta luce, non si sono cercati testimoni, non si è vagliato l'alibi dei più feroci estremisti di sinistra che avevano giurato a Zilli "sei il primo della lista"
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La tranquilla Pavia ha preferito dimenticare, magari facendo finta di credere alla tesi dell'incidente... così che di Emanale rimasero solo: un duro comunicato del MSI che chiede inutilmente "Giustizia"; il pianto sconsolato della giovane moglie, Giuseppina, di 21 anni; e quelle due bambine che non hanno praticamente mai conosciuto loro padre.

              

GIUSEPPE MAZZOLA , GRAZIANO GIRALUCCI

Padova, 17 giugno 1974, sono le 9,30 quando un gruppetto di cinque persone, tra cui una donna, raggiunge la sede del MSI, in via Zabarella. Due uomini aspettano in strada, la donna si ferma sulle scale, gli altri entrano nei locali della Federazione dove si trovano Graziano Giralucci, 29 anni, sposato e padre di una bimba di 3 anni, ex giocatore e allenatore di rugby, fondatore della squadra del CUS Padova e Giuseppe Mazzola, 60 anni, carabiniere in congedo, sposato e padre di quattro figli. I due uomini, armati di una P38 e di una 7,65 con silenziatore, puntano le armi contro i missini: vogliono farli inginocchiare e legarli con delle catene. Ma l'anziano ex-carabiniere non può piegarsi a causa del busto ortopedico che porta in conseguenza ad un'antica lesione alla colonna vertebrale. Forse reagisce, forse solo si rifiuta di inginocchiarsi, fatto sta che dalla 7,65 parte un colpo che lo ferisce all'addome. Allora reagisce anche Giralucci, ma un colpo di P38 lo ferisce alla spalla, poi, subito dopo, la stessa arma lo finisce con un colpo alla nuca. Mazzola è a terra supino: è inerme, ferito, eppure uno degli aggressori gli poggia l'arma sulla fronte e fa fuoco... Poche ore dopo un volantino, fatto ritrovare a Padova e a Milano, rivendica il duplice omicidio con queste parole: "Lunedì 17 giugno 1974, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la sede provinciale del MSI in via Zabarella. I due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati".Nonostante questa rivendicazione, ecco cosa scrissero alcuni giornali del tempo, riportati da Raffaele Zanon e Roberto Merlo nel loro libro "Noi accusiamo Renato Curcio" (Edizioni del CIS, Padova, 1995): "Il quotidiano "Il Manifesto" accredita questa tesi: "Padova, due fascisti trovati uccisi nella sede del MSI. C'è il sospetto che si siano ammazzati tra loro". "L'Unità", a propria volta, parla di "sedicenti Brigate Rosse", mentre "l'Avanti" e "Il Giorno" si spingono oltre, fino ad affermare che "le fantomatiche Brigate Rosse altro non sono che la copertura delle Brigate Nere, un'etichetta in cui il contenuto umano viene fornito anche da gente iscritta al MSI"; "i mandanti del duplice omicidio alla sede della federazione missina - scrive "Il Giorno" - sono iscritti al partito di Almirante"..."!
Quel clima di menzogna, viltà e complicità venne ben descritto in una canzone scritta dal "Gruppo padovano di protesta nazionale" (che divenne poi la "Compagnia dell'Anello"). Solo 17 anni dopo, il 9 dicembre 1991, a seguito dei soliti "pentimenti" nell'ambito del più vasto processo contro le Brigate Rosse, si arrivò a dare un volto e a condannare gli assassini dei due missini. Si trattava di Roberto Ognibene e di Fabrizio Pelli (nel frattempo morto di leucemia); loro complici furono: Susanna Ronconi, Giorgio Semeria e Martino Serafini. Insomma il "gotha" delle Brigate Rosse, tanto è vero che anche Renato Curcio, Mario Moretti e Alberto Franceschini furono condannati come mandanti della spietata esecuzione.
Oggi il sacrificio dei due missini, vittime innocenti della barbarie comunista, è stato riconosciuto e ricordato anche dal Comune di Padova con l'intitolazione di due vie contigue, nel quartiere Altichiero.

MIKIS MANTAKAS

Il 28 febbraio 1975 si celebra a Roma la prima udienza del processo per il rogo di Primavalle in cui perirono i due fratelli Mattei. Alla sbarra i tre assassini, identificati dopo un anno di indagini. Nonostante l'indifendibilità di un reato così orrendo, tutta la sinistra scende in campo massicciamente in favore degli assassini. La mobilitazione è generale, non c'è giornale o telegiornale che non ospiti autorevoli pareri "garantisti" e innocentisti. Viene persino pubblicato un libro dal titolo "Incendio a porte chiuse" per accreditare la tesi di un incidente e scagionare così i compagni di Potere Operaio. Naturalmente i complici degli assassini si mobilitano anche per fare pressione "fisica" sui giudici. Di fronte al tribunale viene organizzata una manifestazione e alla fine si forma il solito corteo per le vie paralizzate della città e da esso si stacca - secondo una strategia ormai nota - un gruppo che assalta la sezione del MSI di via Ottaviano, al cui interno si trova un piccolo gruppo di studenti universitari del Fuan in riunione. Gli assalitori sfondano il portone, riescono a penetrare nel cortile interno, ma qui vengono affrontati dagli studenti del Fuan che li respingono nella via. Dal gruppo messo in fuga, però, saltano fuori improvvisamente delle pistole. Pochi colpi secchi e Mikis Mantakas, 21 anni, cittadino greco, iscritto all'Università di Roma, da un anno militante del Fuan, rimane a terra senza vita. Ferito anche un altro studente, Fabio Rolli, di 18 anni. Sabrina, la ragazza di Mikis, il giorno dopo, scrisse una struggente lettera d'addio pubblicata sul "Secolo d'Italia". Proprio quella lettera ispirò a Carlo Venturino, leader del gruppo musicale "Amici del Vento", una delle più belle canzoni di musica alternativa, rimasta per oltre vent'anni il simbolo del martirio dei giovani di destra: "Nel suo nome".

SERGIO RAMELLI

Ucciso sotto casa a sprangate ed a colpi di chiave inglese da militanti di avanguardia operaia.

MARIO ZICCHIERI

Sei mesi esatti dopo la morte di Sergio Ramelli, quando sembrava già di aver toccato il fondo di ogni aberrazione nella violenza politica, arriva da Roma un'altra notizia shock. E' il pomeriggio del 29 ottobre 1975 quando un gruppetto di ragazzi si accinge ad aprire, come tutti i pomeriggi, la sezione Prenestino del MSI in via Erasmo da Gattamelata. Stanno chiacchierando voltando le spalle alla strada quando arriva un'auto, un finestrino si abbassa, ne esce la canna segata di un fucile che esplode pochi, rapidi colpi, centrando in pieno il gruppo di ragazzi. La micidiale scarica di pallettoni uccide sul colpo Mario Zicchieri, detto "Cremino" per la sua corporatura esile, studente-lavoratore di 16 anni e ferisce Mario Lucchetti... 15 anni. Così, sulla scena "politica" fa la sua comparsa per la prima volta il fucile a canne mozze di chiaro ascendente mafioso e la vile strategia omicida che ricorda i gangster americani degli anni 30. Ma l'azione (lo si scoprirà quindici anni dopo a seguito delle confessioni dei brigatisti Seghetti e Morucci) era stata studiata a tavolino "per incutere timore ai militanti di destra i quali, nonostante le ripetute aggressioni subìte, non davano segni di cedimento". Zicchieri è la più giovane vittima di quegli anni assurdi e ancora oggi vengono i brividi pensando che si era avvicinato alla destra solo da pochi mesi, sull'onda emotiva dell'uccisione di Mantakas. Per lui non ci fu giustizia, come per la maggior parte dei camerati assassinati. Gli esecutori materiali del delitto sono ancora tra noi...

ENRICO PEDENOVI

Ad un anno dalla morte di Sergio Ramelli, a Milano si vive sotto una cappa di paura e di tensione. Non passa giorno senza che l'elenco delle aggressioni dell'"antifascismo militante" si allunghi. La sinistra estrema e quella ufficiale sono compatte, mobilitate con tutte le loro energie, per impedire qualsiasi forma di commemorazione pubblica dell'anniversario. La famiglia stessa non riesce a trovare una chiesa in cui far recitare una messa di suffragio dopo il rifiuto del parroco di viale Argonne. Come ai tempi della prima guerra civile, nel 1945, anche i preti hanno paura e temono ritorsioni. Arriva così il mattino del 29 aprile e si sa già che sarà una giornata dura; per il pomeriggio è previsto il raduno dei militanti di destra in via Mancini, sede del MSI, ma alle prime luci dell'alba la sinistra ha già deciso come "commemorare", a modo suo, la morte di Sergio. Assassinando l'avvocato Enrico Pedenovi, 50 anni, consigliere provinciale del MSI, padre di due figlie di 22 e 10 anni. Ecco la ricostruzione del delitto compiuta da Benito Bollati nel suo libro: "Il delitto Pedenovi" (Lasergrafica Polver, Milano, 2001) pubblicato in occasione del venticinquesimo anniversario della morte. Bollati, già deputato milanese del MSI, è stato l'avvocato di parte civile della famiglia Pedenovi nel processo contro gli assassini.
"Alle 7,45 del 29 aprile 1976, Enrico Pedenovi esce dalla propria abitazione in viale Lombardia per recarsi presso il suo studio (...). Come ogni giorno (...) era salito sulla sua utilitaria parcheggiata davanti allo stabile ove abitava, aveva percorso il viale Lombardia in direzione di piazza Durante e si era fermato dopo circa cento metri al distributore di benzina (...). Come ogni mattina aveva sfogliato i giornali per conoscere sommariamente le prime notizie. (...) Quella stessa mattina tre persone, a bordo di una Simca rubata la notte precedente, attendono che Pedenovi sia immerso nella lettura; due di essi scendono, si avvicinano alla macchina, sparano contemporaneamente contro di lui e raggiungono la Simca che si dirige verso piazza Durante".
Enrico Pedenovi era un "nemico" semplicemente in quanto esponente missino. Il suo volto e il suo indirizzo erano stati pubblicati da "Lotta continua" su una lista di proscrizione dal significativo titolo di "Pagherete tutto" contente nomi, immagini, indirizzi e abitudini di un centinaio di militanti della destra milanese. Eppure chi ebbe modo di conoscere Pedenovi lo ricorda come uno degli uomini più miti e concilianti, un padre di famiglia onesto e laborioso che non aveva mai inteso la politica come scontro. Allora perché colpire proprio lui? La risposta arriverà molti anni dopo quando, una volta smantellato l'apparato militare di Prima Linea, salteranno fuori anche i suoi assassini.
Nel corso del procedimento penale si scoprirà, infatti, che gli autori del delitto, militanti proprio di Lotta Continua che aspiravano a diventare terroristi di Prima Linea, scelsero, tra i molti obiettivi possibili e schedati, quello "più facile". Facile perché Pedenovi era un uomo pacifico e metodico che non adottava precauzioni, che usciva sempre alla stessa ora, senza guardarsi alle spalle. Ma facile anche perché, come dissero gli imputati: "l'omicidio era legittimato", una dichiarazione che Bollati ci spiega ricordando che, in quegli anni, da parte di tutti: "Era comodo additare nei "fascisti" i responsabili di tutti i mali, anche quelli di natura sociale ed economica, che non potevano non pesare sui governi, per distrarre l'attenzione della violenza dalle loro persone. I "fascisti" venivano lasciati in prima linea da soli a fronteggiare il comunismo nella sua peggiore espressione. Dietro quella fragile prima linea molti socialisti e democristiani si creavano un alibi, nel caso in cui quella trincea venisse travolta, esprimendo, anche con il silenzio, il loro consenso alle violenze o, peggio, additando i punti deboli da colpire. Ecco perché Enrico Galmozzi dice davanti ai giudici che si sentiva legittimato alla violenza, soprattutto quella contro i "fascisti" e sino al loro omicidio".
Quando la notizia della morte di Pedenovi si diffuse, come è ovvio decine di missini cercarono di recarsi sul luogo del delitto per portare un fiore, per esprimere cordoglio alla famiglia; ma l'intera zona era chiusa, presidiata da un cordone, non già di polizia o carabinieri, bensì di almeno seimila compagni con i volti coperti e le chiavi inglesi. In tutte le strade limitrofe al luogo del delitto gruppi armati di comunisti impedivano a chiunque di avvicinarsi. Ci furono inseguimenti e decine di pestaggi. Chi riuscì a forzare il blocco e ad arrivare sul luogo del delitto, non vi trovò neppure un fiore, né l'ombra di un poliziotto. Rimaneva solo una "anonima" macchia di sangue sull'asfalto per la quale nessuno aveva il coraggio di mostrare pietà, in un grigio squallore figlio della paura e dell'inciviltà, simboli di quegli anni impossibili.
Gli assassini di Pedenovi furono giudicati nel 1984, nell'ambito del maxi-processo contro Prima Linea nel quale, complessivamente, furono inflitti quindici ergastoli e oltre dodici secoli di carcere per nove omicidi, 12 tentati omicidi e centinaia di attentati, rapine e violenze di ogni tipo. "Il 22 ottobre 1984 - scrive ancora Bollati - dopo centodue udienze e diciotto giorni di camera di consiglio, la terza Corte d'Assise di Milano emetteva il suo giudizio (...). Per gli imputati del delitto Pedenovi la condanna all'ergastolo venne pronunciata nei confronti di Bruno La Ronga e Giovanni Stefan. In virtù dell'autocritica espressa in dibattimento Enrico Galmozzi si vide infliggere 27 anni di reclusione. Pietro Del Giudice, riconosciuto concorrente morale nell'assassinio fu condannato a 28 anni".
In appello (e in Cassazione) il carcere a vita verrà confermato solo a Giovanni Stefan (peraltro latitante). 29 anni vengono inflitti a Bruno La Ronga e 27 confermati a Enrico Galmozzi, mentre Pietro Del Giudice viene assolto.

ANGELO PISTOLESI

Se a Milano la differenza numerica tra rossi e missini è tale da rendere quasi impossibile persino un funerale, a Roma la scontro non è impari. Le organizzazioni giovanili del MSI non mollano neppure un metro, nonostante il clima sempre più pesante. Le sezioni continuano a funzionare, tra una molotov e un attentato, nelle scuole si fa attività politica nonostante le aggressioni e i pestaggi. Così la sinistra decide di lanciare un'ennesima offensiva per spezzare definitivamente la resistenza dei "fasci": un'offensiva omicida che costerà la vita di quattro ragazzi nel giro di dieci giorni a cavallo delle vacanze natalizie. Poiché su questi omicidi non si fece mai piena luce e non furono identificati (ma in realtà neppure cercati) gli assassini, ogni ipotesi resta valida, compresa l'oscena sensazione che "tirare al fascista" fosse in quei giorni una sorta di tragico sport per i compagni in vacanza...
Il primo di questi delitti avviene la sera del 28 dicembre 1977, appena tre giorni dopo Natale... Gli assassini suonano al citofono di Angelo Pistolesi, 31 anni, iscritto al MSI e attivista nel quartiere Portuense. Una scusa per farlo uscire, poi, appena aperto il portone, una micidiale scarica di pallottole lo centra in pieno petto. L'azione viene rivendicata dai Nuovi Partigiani...

         

FRANCO BIGONZETTI,FRANCESCO CIAVATTA,STEFANO RECCHIONI

Il tempo per un funerale, l'ennesimo a Roma e, nel gelo di un inverno cupo, arriva il capodanno 1978. Il clima politico è ancora più tetro e raggelante di quello invernale e ne sanno qualcosa i ragazzi della sezione di via Acca Larentia, che il giorno dopo l'Epifania si ritrovano per decidere cosa fare alla riapertura delle scuole. La sezione è un povero stanzone chiuso da una saracinesca in un vicolo non transitabile dalle auto perché chiuso da una breve gradinata. Una sezione di estrema periferia, come la Primavalle dei fratelli Mattei, una di quelle sezioni dove si esprime l'anima popolare e sociale della destra italiana: ben lontana dall'immagine borghese, capitalista, arrogante e becera che la stampa, come il cinema o la tv cercavano di darle. Una destra autentica, radicata nei problemi del proprio tessuto sociale; una destra capace di proporre un modello di economia basato sul lavoro e la partecipazione non sullo scontro sociale. In questo senso una destra che faceva molta più paura di quella "pariolina" (o "sanbabilina" a Milano). Questa destra, antagonista nella realtà popolare, che "per definizione" doveva essere di sinistra, andava sradicata con ogni mezzo. E quello scelto per Acca Larentia fu: la mitraglietta... E' sabato pomeriggio, si preparano i volantini per un imminente concerto a Roma degli Amici del Vento. Alle 18 i ragazzi escono per volantinare in piazza Risorgimento. In sezione restano solo cinque ragazzi : Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Vincenzo Segneri, Maurizio Lupini, Giuseppe D'Audino. Dopo venti minuti anche loro si apprestano ad uscire. In tre sono già fuori quando un commando di cinque o sei giovani, fra cui sembra di scorgere anche una donna, apre il fuoco su di loro. Franco Bigonzetti, colpito alla testa, cade davanti alla porta della sede. Francesco Ciavatta tenta di fuggire lungo la scalinata, raggiunto da una raffica di colpi si trascina per alcuni metri poi rotola giù dalla rampa. Vincenzo Segneri, benché ferito al braccio, riesce a rientrare in sezione e a chiudere la porta blindata.
"Gli assassini non sono ancora sazi di sangue - scrive Adalberto Baldoni in "Il crollo dei miti" (Settimo Sigillo, Roma, 1996) - si fermano davanti alla porta della sezione. Imprecano, bestemmiano poiché non sono riusciti ad ammazzare anche gli altri, prima di raggiungere una Renault 4 rossa, lasciare le armi nel bagagliaio e fuggire a piedi".
I soccorsi tardano ad arrivare. Bigonzetti, 19 anni, studente in medicina, figlio di un impiegato, è ormai senza vita, ma Ciavatta non ha ancora perso i sensi e rantola poche parole, prima di perdere i sensi tra le braccia dei suoi camerati. Morirà durante il trasporto in ospedale, aveva solo 18 anni, era figlio di operai e pochi mesi dopo suo padre, per la disperazione, si getterà dalla finestra della sua casa in piazza Tuscolo. La notizia della strage attraversa Roma come un fulmine. Decine e decine di militanti giungono da ogni parte della città. La tensione è al massimo. Polizia e carabinieri, che hanno effettuato i rilevamenti, confermano la dinamica bestiale dell'agguato. Nei volti delle decine di ragazzi accorsi sul posto c'è sgomento e una rabbia profonda, tanto terribile quanto impotente. Un operatore della Rai butta con disprezzo (o con colpevole distrazione) una cicca di sigaretta sulla macchia di sangue ancora fresco di Ciavatta. E' la scintilla, volano pugni, calci, interviene la polizia. Urla, bastonate, lancio di lacrimogeni, un'auto dei Carabinieri viene presa a calci. Il capitano Edoardo Sivori impugna la pistola, tenta di sparare, ma l'arma s'inceppa. Prende allora la pistola dell'autista e apre il fuoco ad altezza d'uomo contro il gruppo di missini. Stefano Recchioni, 19 anni, militante della sezione di Colle Oppio, viene colpito in fronte. Morirà due giorno dopo, il 9 gennaio, all'Ospedale S. Giovanni dopo che, inutilmente, i suoi genitori si erano offerti di donare i suoi organi. Nei corridoi dell'ospedale dove si sta spegnendo la sua giovane vita si consuma anche il dramma dei suoi camerati. Un dramma non scevro di amare conseguenze. La strage di quella notte s'inciderà, infatti, come un marchio di fuoco e il nome di Acca Larentia diventerà, per tutta una generazione, sinonimo stesso di martirio innocente e impotente. I colpevoli dell'agguato sono rimasti ignoti e liberi e ciò nonostante la rivendicazione firmata dai Nuclei Armati di Contropotere Territoriale e le confessioni di una pentita, Livia Todini, che portarono, nove anni dopo i fatti, all'arresto di Mario Scrocca, un infermiere che il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici si tolse la vita in cella. Altri tre arrestati: Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis furono assolti in primo grado "per insufficienza di prove", come pure Daniela Dolce, rimasta latitante.

ALBERTO GIAQUINTO

Gli anniversari degli eccidi più feroci diventavano, in quegli anni allucinanti, altrettanti regolari appuntamenti con la morte. Era già successo a Milano, con Enrico Pedenovi ucciso ad un anno dalla morte di Sergio Ramelli. Così, anche il 10 gennaio 1979, ad un anno dalla strage di via Acca Larentia, per Roma è una giornata di terrore e per i camerati un'altra giornata di lutto. Lo scenario è quello della repressione: ogni manifestazione è vietata, tutte le sezioni sono blindate e i responsabili "diffidati". La sinistra mobilitata in presidi armati contro "le provocazioni". I giovani di destra impediti a manifestare si ritrovano in cortei spontanei che cercano di convergere su via Acca Larentia. La Questura interviene, come sempre quando si tratta di manifestazioni di destra, in maniera pesantissima. Ne nascono scontri, tafferugli, inseguimenti. Durante uno di questi uno studente del Fronte, Alberto Giaquinto, 17 anni, viene colpito alla testa da un proiettile esploso, a distanza ravvicinata, da un agente in borghese: Alessio Speranza. E qui inizia il giallo infamante che, chi ha vissuto quegli anni, ricorderà benissimo. La sera il telegiornale della Rai enfatizza gli scontri, esattamente con la stessa energia con la quale minimizzava le violenze di sinistra, dando ampio risalto alle immagini di un'insegna della Democrazia Cristiana bruciata... Quindi riferisce che "uno degli assaltatori" della sezione DC, armato di pistola, era stato affrontato da un agente di polizia che lo aveva colpito, ovviamente per legittima difesa. Le parole del commentatore sono accompagnate da un filmato del luogo in cui Giaquinto è stato colpito e la telecamera si sofferma anche su una pistola di grosso calibro lasciata a terra. "Questa è l'arma che impugnava il missino" affermano i solerti giornalisti cui non sembra vero di poter additare al pubblico la "violenza fascista". Ma quella non era la verità. Giaquinto non era armato e non stava assalendo nessuno. Per anni la famiglia, gli avvocati, il partito, nonostante le potenti omertà e le coperture conniventi, denunciarono i responsabili di quello che appariva un autentico omicidio. Solo al processo, alcuni anni dopo, venne fuori la verità. Si scoprì che, contrariamente a quanto affermato nei verbali, Alberto Giaquinto non era stato colpito alla fronte, bensì alla nuca, quindi mentre fuggiva e non mentre attaccava. Ma soprattutto che fine aveva fatto la famosa pistola, mostrata nel filmato del telegiornale, quella che secondo la polizia Giaquinto impugnava? Sparita. Mai esistita. In realtà era stata messa lì, a terra, da un funzionario della Digos, per far ricadere le colpe sul giovane missino. A tale proposito vi è anche la testimonianza di un militante di Democrazia Proletaria, che assistette all'omicidio: "Poi ho sentito lo sparo ed ho visto un ragazzo a terra. Stava morendo, ma quei tipi hanno allontanato tutti i cittadini che volevano portargli soccorso; lo hanno lasciato sul selciato per più di venti minuti scosso come da brividi di freddo. Ricordo come tremasse quel corpo. Non aveva pistole né vicino né lontano da lui, quel ragazzo non aveva fatto niente per morire così!".
La vicenda si è conclusa con una mite condanna dell'agente killer e dei funzionari complici. Rimane comunque emblematica delle responsabilità degli organi dello Stato nel creare una "strategia del terrore" a senso unico, rivolta sempre e solo contro la destra, per compiacere il nuovo padrone: il PCI.
La morte di Alberto Giaquinto ispirò ad un altro cantautore di destra, Michele Di Fiò, una canzone dal titolo "Italia".

STEFANO CECCHETTI

Ma la tragica giornata del 10 gennaio 1979 non è conclusa con gli scontri e con la morte di Giaquinto. Proprio mentre il telegiornale della sera mette in scena la sua parodia della verità, l'altra faccia della strategia del terrore, i comunisti, si muovono per offrire anche il loro contributo all'anniversario di Acca Larentia. Il metodo prescelto è quello già sperimentato per uccidere Zicchieri: sparare da un'auto in corsa. Una tattica vile, che non prevede nessuna possibilità di reazione e bassissimi rischi. Il commando omicida non sceglie neppure le vittime, non compie un "gesto politico simbolico", come nel caso dell'assalto di via Acca Larentia, colpisce nel mucchio, con un solo obbiettivo: uccidere un fascista. Stefano Cecchetti, 19 anni, simpatizzante del Fronte della gioventù, è con altri amici al bar di Largo Rovani, al quartiere Talenti, un bar di quelli frequentati da giovani di destra, ma certo non solo da loro. Si commentano gli episodi della giornata, c'è rabbia, orrore, dolore per Alberto Giaquinto, anche se nessuno lo conosce di persona: era un camerata ed è stato assassinato. Fa buio e freddo quando i ragazzi escono, non fanno neppure caso ad un'auto che si mette in moto, non vedono neppure le canne delle armi uscire dal finestrino, sentono solo i colpi secchi. Stefano cade a terra senza vita, in un lago di sangue, altri due giovani: Maurizio Battaglia e Alessandro Donatore, di 18 anni, rimangono feriti.
L'agguato viene rivendicato dai Compagni Organizzati per il Comunismo, che rimarranno impuniti...

FRANCESCO CECCHIN

E' la notte tra il 28 e il 29 maggio 1979 quando gl'inquilini di via Montebuono, nel quartiere Trieste, a Roma, vengono svegliati da grida disperate. Chi si affaccia vede un corpo riverso nel cortile di un condominio, ai piedi di un muro alto cinque metri. Arriva la polizia, poi un'ambulanza. Si tratta di Francesco Cecchin, uno studente diciottenne, conosciuto come attivista missino. E' in condizioni gravissime e ci si chiede come abbia fatto a precipitare in quel cortile. I giornali del mattino non riportano neppure la notizia, ma i suoi familiari e i suoi camerati sanno qual è la verità. Francesco Cecchin era sceso di casa insieme alla sorella per una passeggiata fino a via Montebuono, dove un suo amico lavora in un ristorante. Poco dopo mezzanotte, mentre i due ragazzi sono fermi davanti all'edicola di piazza Vescovio, spunta una Fiat 850 bianca che compie una brusca frenata davanti a loro; dall'auto scende un uomo che urla all'indirizzo di Francesco: "...E' lui, è lui, prendetelo!". Intuendo il pericolo e, probabilmente, riconoscendo l'aggressore, Francesco fa allontanare la sorella e corre in direzione di via Montebuono, inseguito dagli occupanti della macchina. La sorella, intanto, si getta vanamente al loro inseguimento, urlando: "Francesco, Francesco!"; le sue grida vengono udite da un giovane che, sceso in strada, nota un uomo darsi alla fuga verso via Monterotondo e qui salire sulla Fiat 850 bianca che si allontana velocemente. Il corpo di Francesco viene quindi rinvenuto in fondo ad un cortile, in posizione supina, distante circa un metro e mezzo dal muro alto cinque metri, perde sangue dalla tempia e dal naso e tiene ancora strette nella mano sinistra un mazzo di chiavi, di cui una storta che spunta tra le dita, e in quella destra un pacchetto di sigarette. A questo punto sarebbe stato lecito attendersi immediate indagini, invece sembra che tutti abbiano una fretta tremenda di liquidare l'accaduto come "un incidente". La polizia, negando che vi sia stata una colluttazione, arriva a ipotizzare che Francesco - impaurito - abbia scavalcato il muretto del cortile senza rendersi conto che sotto c'era un salto di cinque metri... Ma Francesco conosceva bene quel palazzo e il suo cortile, in quanto ci abitava un suo amico; inoltre era ben strano che il corpo fosse stato trovato in posizione supina, anziché riversa, tipica di chi si lancia, e senza contusioni agli arti, inevitabili quando si effettua un salto volontario da una simile altezza. Prende così corpo la tragica ipotesi che il corpo di Francesco sia stato gettato, già esanime, al di là del muretto che delimita il terrazzo; tesi avvalorata da altri particolari: innanzitutto il trauma cranico, segno che il peso dell'impatto al suolo si è scaricato tutto sulla testa; poi le chiavi e il pacchetto di sigarette ancora strette nelle mani: chi pensa di lanciarsi oltre un ostacolo cerca istintivamente di avere le mani libere; infine, la dichiarazione resa da alcuni testimoni che affermano di avere udito: "le grida di un ragazzo, poi alcuni attimi di silenzio... e, infine, un forte tonfo non accompagnato da alcun grido": è difficile credere che una persona possa gettarsi spontaneamente giù da un muro alto cinque metri e non emettere il minimo grido neppure atterrando pesantemente a terra. Che prima di questo tragico epilogo ci fosse stata una colluttazione è dimostrato, poi, dalla chiave piegata rinvenuta tra le dita di Francesco, sicuramente usata come arma di difesa contro i suoi assassini, e dai segni dei colpi subiti riscontrati su tutto il corpo. Il 16 giugno, dopo 19 giorni di coma, Francesco muore e solo allora vengono avviate le indagini. Viene arrestato Stefano Marozza, iscritto al PCI e proprietario della famigerata 850 bianca, il quale cerca di scagionarsi dichiarando che la sera dell'agguato era andato a vedere un film, ma gli inquirenti verificano che il cinema indicato era chiuso... Ciò nonostante, mentre nessuno si preoccupa di verificare chi poteva essere insieme a lui quella sera, qualcuno gli fornisce un nuovo alibi, questa volta "perfetto"; mentre ogni prova e ogni riscontro viene fatto sparire dagli incartamenti. Anni dopo il giudice, scrivendo la sentenza, dichiara che se non era stato in grado di condannare l'imputato e neppure di fare piena luce sull'omicidio Cecchin, ciò era colpa dei ritardi nelle indagini e del modo di procedere degli investigatori, al punto che il magistrato ipotizza persino di avviare un procedimento nei confronti degli organi di Pubblica Sicurezza.

ANGELO MANCIA

Durante tutti gli anni Settanta non c'è stato praticamente alcun luogo di raduno della destra che sia stato risparmiato: centinaia di sedi e sezioni di partito, del Fronte, del Fuan, della Cisnal, ma anche circoli o associazioni non comuniste sono state devastate o attaccate. Un discorso a parte merita l'attacco alla stampa di destra. La redazione del "Candido", in via Bellarmino a Milano, fu fatta saltare in aria nel 1972 e poi, trasferita in via De Santis, fu devastata e bruciata nel 1978. Assalti e devastazioni subirono anche la sede del "Borghese" a Milano e de "lo Specchio" a Roma. Naturalmente anche il "Secolo d'Italia", quotidiano del MSI, dalla sua vecchia e malconcia sede di via Milano, a Roma, aveva assistito a decine di assalti, come pure la tipografia di via del Boschetto, fatta saltare in aria il 7 marzo 1980 ferendo in maniera grave alcuni tipografi. Non ci "scappa il morto", però, e così i rossi, cinque giorni dopo, tornano alla loro tattica preferita: quella dell'agguato alle spalle sotto casa. La mattina del 12 marzo, in via Federico Tozzi, due killer in camice bianco sparano due colpi di pistola alla schiena e poi il colpo di grazia alla nuca di Angelo Mancia, dipendente del "Secolo d'Italia", oltre che segretario della sezione del quartiere Talenti. L'omicidio viene rivendicato da una delle tante sigle dell'estremismo comunista: i Compagni organizzati in Volante rossa e viene giustificato come "ritorsione " per la morte di un compagno. Gli esecutori materiali dell'omicidio rimasero però ignoti.

PAOLO DI NELLA

Negli anni Ottanta il clima politico va lentamente cambiando, l'ondata devastante della violenza di piazza degli anni Settanta si va esaurendo. Delle orde di comunisti urlanti sono rimasti solo pochi drappelli di terroristi armati, braccati da uno Stato che si è deciso a catturarli solo quando hanno "alzato troppo il tiro". Il resto della massa di rivoluzionari falliti sta disperdendosi: c'è chi si annienta nella droga, chi fa carriera nei partiti democratici, chi diventa un borghese "piccolo piccolo" o chi, invece, mette la propria "ferocia" al servizio del grande capitale. Così le aggressioni, gli agguati e i pestaggi si diradano; ma non scompaiono del tutto. D'altra parte tanta violenza, così pervicacemente coltivata, insegnata e, oltretutto, accettata dai mass media e quasi sempre impunita, non può sparire dal mattino alla sera. L'ultima fiammata mortale di tanto odio la si registra ancora a Roma, nella notte tra il 2 e il 3 febbraio 1983, quando due autonomi aggredirono a colpi di spranga Paolo di Nella, dirigente provinciale del Fronte della gioventù. Preferiamo, questa volta, lasciare la ricostruzione dell'episodio e della successiva inchiesta al testo di un dossier redatto, alcuni anni dopo, dal nucleo di Azione Giovani - Trieste Salario di Roma. Paolo amava il suo quartiere, e proprio in nome di questo amore aveva programmato una battaglia per l'esproprio di Villa Chigi, che voleva far destinare a centro sociale e culturale. Per far partecipare gli abitanti del quartiere a questa battaglia sociale, il 3 febbraio sarebbe dovuta cominciare una raccolta di firme. Paolo, impegnato in prima persona nell'iniziativa, aveva dedicato gran parte della giornata del 2 ad affiggere manifesti che la rendevano pubblica. Dopo una breve interruzione, l'affissione riprese alle 22. Durante il percorso non ci furono incidenti, anche se Paolo e la giovane militante che lo accompagnava, notarono alcune presenze sospette. Verso le 0.45 Paolo si accingeva ad affiggere manifesti su un cartellone situato su uno spartitraffico di piazza Gondar. Qui sostavano due ragazzi che, appena Paolo voltò loro le spalle per mettere la colla, si diressero di corsa verso di lui. Uno di loro lo colpì alla testa. Poi, sempre di corsa, fuggirono per via Lagotana. Paolo, ancora stordito per il colpo, si diresse alla macchina, da dove la ragazza che lo accompagnava aveva assistito impotente alla scena. Dopo essersi sciacquato ad una fontanella la ferita ancora sanguinante, Paolo riportò in sede i manifesti e il secchio di colla. Verso l'1.30, rientrò a casa. I genitori lo sentirono lavarsi i capelli, muoversi inquieto e lamentarsi. Lo soccorsero chiamando un'ambulanza, che però arrivò quando ormai Paolo era già in coma. Solo nella tarda mattinata del giorno dopo, il 3 febbraio (tardi, maledettamente tardi per uno nelle sue condizioni), Paolo venne operato, e gli vennero asportati due ematomi e un tratto di cranio frantumato. Le prime indagini furono condotte con estrema superficialità dal dirigente della Digos romana incaricato del caso, il dottor Marchionne. Non ci furono infatti né perquisizioni, né fermi di polizia tra gli esponenti dell'Autonomia Operaia del quartiere Africano. La ragazza che era con Paolo, unica testimone dell'agguato, venne interrogata dagli inquirenti che, più che all'accertamento dei fatti, sembravano interessati alla struttura organizzativa del Fronte della gioventù e ai nomi dei suoi dirigenti, magari per dar corpo all'ignobile storiella della "faida interna". L'istruttoria sembrò avere una solerte ripresa quando al capezzale di Paolo arrivò anche l'allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Passato però il momento di risonanza dovuto a questo gesto, tutto tornò ad essere chiuso in un cassetto. La sera del 9 febbraio, alle 20,05, dopo sette giorni di coma, la solitaria lotta di Paolo contro la morte giunse a termine. Seguirono giorni di forte tensione, in cui finalmente gli inquirenti si decisero, almeno apparentemente, a dare concretezza alle indagini. Vennero finalmente fatte alcune perquisizioni nelle case dei più noti esponenti dei Collettivi autonomi di Valmelaina e dell'Africano. Uno dei massimi sospettati era Corrado Quarra, individuato perché non nuovo ad aggressioni a ragazzi di destra. Dopo aver tentato varie volte di sottrarsi all'incontro con i magistrati, comportamento che non fece altro che confermare i sospetti su di lui, venne arrestato per caso la notte del 1 agosto 1983. In un confronto all'americana Daniela, la ragazza che era con Paolo quella notte, lo riconobbe come colui che materialmente lo aveva colpito. In conseguenza dell'avvenuto riconoscimento il fermo di polizia a suo carico divenne ordine di cattura per omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Dopo tre mesi di silenzio, il 3 novembre, la ragazza venne convocata per il secondo riconoscimento. Concentrandosi sulle caratteristiche somatiche della persona che accompagnava lo sprangatore, Daniela indicò il secondo presunto aggressore. A questo punto si rivelò il tranello in cui era caduta: il giovane da lei riconosciuto non era l'indiziato, ma un amico da lui appositamente scelto. Inoltre costui non doveva essere riconosciuto come complice dello sprangatore, ma come alternativa al Quarra nella persona dello sprangatore. A questo punto il giudice istruttore, dottor Calabria, disse alla ragazza che, se aveva sbagliato il secondo riconoscimento poteva aver sbagliato anche il primo. Discorso finalizzato a facilitare la scarcerazione del Quarra che avvenne il 28 dicembre. Questo proscioglimento, che segnò la fine delle indagini sull'omicidio di Paolo, fu passato sotto silenzio. Se ne ebbe notizia solo il 30 maggio 1984, grazie ad un comunicato del Fronte della gioventù". Con la morte di Paolo si chiude questo capitolo di sangue che è ormai storia, anche se quasi totalmente sconosciuta, del nostro Paese. Vogliamo chiuderlo con le parole di un'altra struggente canzone: "Generazione '78", di Fabrizio Mancinelli, che non solo descrive quegli anni, ma soprattutto il sentimento di un'intera generazione di ragazzi "un po' ribelli e un po' guerrieri" che hanno saputo sacrificarsi per un'ideale.

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