Burckhardt e il folle Nietzsche

Dobbiamo rico­noscere Burckhardt e Nietzsche come co­loro che hanno rac­colto le onde mnemiche, e vedere come entrambi siano toc­cati in modo affatto diverso dalla loro consapevolezza uni­versale.  Dobbiamo far sì che entrambi possano rischiararsi reciprocamente, e una simile conside­razione deve aiutarci a comprendere in quale misura Burckhardt abbia sofferto la sua voca­zione.

Si tratta di due si­smografi di grande sensibilità che quan­do ricevono e tra­smettono l'onda va­cillano nelle fondamenta.  Una grande differenza però li separa: Burckhardt ha ricevuto l'onda dalla regione del passa­to, ha avvertito le scosse pericolose e si è preoccupato di rafforzare la stabilità del proprio sismografo.  Così, sebbene abbia subito queste pericolose scosse, non ha mai accettato in pieno e senza esitazione le vibrazioni estreme.  Ma quando ha acconsentito...

Burckhardt ha avvertito la pericolo­sità della propria vocazione, il fatto che avrebbe dovuto semplicemente crolla­re, ma non per questo ha ceduto al Ro­manticismo.  Il periodo in cui ha accettato una coazione fatale e determinata a vibrare assieme a qualcos'altro lo ha attraversato e vissuto con tale intensità che retrospettivamente ha guardato a questo periodo senza esserne corrucciato, come a una fase di pericoli inte­riori alla quale ormai era sfuggito.  Se tutto ciò non avesse costituito una par­te essenziale della sua funzione mnemica complessiva egli, anche in seguito, non avrebbe certo reagito in quel modo. Ma egli dovette vibrare, affinché nuovi ambiti si distaccassero dalla coltre di fatti scomparsi. Egli ha riportato alla luce la festa, ed essa lo ha costretto a riflettere un fram­mento della vita elementare che prima non si era mostrato, e al quale egli te­meva in fondo di dar forma.  Concetti come moralità e amoralità appaiono inadeguati per avvicinarsi a queste for­mazioni.  Burckhardt era un lucido ne­gromante.  Perciò gli si sono parate di fronte le potenze che lo hanno seria­mente minacciato.  Ad esse è sfuggito costruendo per sé la torre di veggente.  Il suo modo di essere veggente è simile a quello di Linceo: sta seduto nella torre, parla e non rinuncia a pronunciare ora­coli.  Burckhardt era e rimase un illuminista che non volle essere altro che un semplice insegnante.

Ma qual'è stata la funzione di Burckhardt nella vita di Nietzsche?  Quando Nietzsche crollò - a Torino, che con la sua luce limpida e la sua aria asciutta gli aveva provocato una euforia che poggiava su gam­be malferme-; quan­do salutò la limpidezza di Torino; quando acconsentì alla vita, egli non fece altro che simulare un desiderio di guarigione: si trat­tava solo di una pausa sempre più breve tra salute e malattia.  E' a Torino, attraversa le strade e crolla. Abitava da un giornalaio ebreo di nome Delfino.  Tor­na a casa e comincia a scrivere cartoline e lettere a tutti gli amici firmandole «Dioniso il Crocifisso».  Nietzsche è precipitato completamente nella follia religiosa.

L'uomo, la cui uni­cità consiste nella dedizione incondiziona­ta alla fede nella gran­dezza del futuro, è diventato con questo tentativo vittima delle proprie idee.  Non aveva mai veramente sopportato la solitudine, che è la sola atmosfera per colui che prende su di sé un simile ten­tativo.  Da sempre cerca compagni, li trova, li perde ed è costretto a ricono­scere: non erano quelli giusti.  Non ha mai sopportato la solitudine profonda, che sola si accorda con colui che chiama gli altri a una nuova creazione.  E' l'at­mosfera desiderata che egli non poteva vivere.  Sentiva di essere un vero sovversivo, e una tale ammissione giustificava anche le sue preoccupazioni economi­che, poiché temeva che i suoi libri po­tessero essere interdetti.  Lui, che così spesso aveva scritto sulla passione del­l'uomo e sul privilegio di essere supe­riore alle sofferenze, quasi fosse un ver­me timoroso e storto, giace a terra.

In Svizzera gli amici non sanno nulla di questa sua condizione.  L'unico che sa qualcosa è Jacob Burckhardt, che il 6 gennaio riceva una let­tera firmata «il Croci­fisso».  Non ne cono­sciamo il contenuto.  Si tratta verosimilmente di accuse che in Nietz­sche adesso erompono in modo molto violen­to verso ciò che lo circonda, accuse che in buona parte erano giustificate.  Burckhardt ha settant'anni, e neppure lui è in grado - tantomeno fisicamen­te - di fare qualcosa.  Si reca da Overbeck con la lettera, e solo allora inizia il tentativo di riportare indietro Nietz­sche.

Overbeck era molto sensibile.  Si muove, trova Nietzsche in un angolo, completamente prostrato e decide di trasportarlo a casa.  La lettera legittima la sua iniziativa.  Così scova un infer­miere, un tedesco, un uomo particolar­mente ingegnoso.  Riescono a convin­cere questo superuomo a partire tran­quillamente con loro, dicendogli che è atteso a Basilea come una personalità principesca, dato che Nietzsche crede di essere chissà chi.  Il trucco funziona.  Nietzsche raccoglie alla rinfusa le sue forze e i due riescono a portarlo a Basi­lea.  Il crollo di questo superuomo, di questo collega tanto stimato è qualcosa che Burckhardt aveva da tempo temu­to. Nulla sarebbe più sciocco dal crede­re che Burckhardt avrebbe liquidato Nietzsche con fredda ironia.

Veleda siede nella torre, la veggente nelle labbra.  Ma quale tipo di veggente è Nietzsche?  E' il tipo del Nabi, del pro­feta antico, che corre per strada, si straccia le vesti, urla di dolore e forse riesce a trascinare con sé il popolo. Il suo gesto originario è quello della guida con il tirso che tutti sono costretti a se­guire.  Ciò spiega le sue annotazioni a proposito della danza.  In Burckhardt e Nietzsche i tipi primordiali del veggen­te si scontrano al confine tra germane­simo e romanismo.  La questione è se il tipo del veggente è in grado di soppor­tare le scosse violente della sua professione.  L'uno cerca di trasformare tali scosse in vocazione.  La mancata riso­nanza lo mina continuamente: resta propriamente un insegnante.

Due figli di pastori protestanti che as­sumono due atteggiamento diversi ri­spetto al senso di Dio nel mondo: l'uno sente il soffio demonico del dio della di­struzione e si colloca in una torre.  L'al­tro vuole far causa comune con questo demone.  Burckhardt ha avvertita tale presunzione e ha raccontato come una volta lo ha ringraziato... (... ) Linceo per­cepisce sopra di sé un altro Linceo: «ma io non so esserlo».  Chi era nel giusto?  Giusto o ingiusto non sono concetti.  Ma dov'è l'espressione adatta e una psico­tecnica dello strumento?

Romanismo e germanesimo trovano in Burckhardt un equilibrio proprio perché ci troviamo in Svizzera.  In Nietzsche l'orgiasmo anticheggiante ­è una immagine del desiderio che egli non era in grado di fronteggiare. Come poeta, in lui scaturiscono evocazioni che pro­vengono da un ambito musicale mai raggiunto da Burckhardt.

Nietzsche ha fortemente corteggiato Burckhardt, ma quest'ultimo si è allon­tanato da lui come uno che a Gerusa­lemme vede correre un derviscio: Vele­da verso un uomo colpito dall'amok. Entrambi continuano a fiorire innesta­ti su uno stesso tronco.

A Basilea Burckhardt aveva lavorato in un giornale conservatore: «Ho guar­dato nell'occhio ubriaco della pleba­glia».  Adesso cerca ciò che è l'antitesi di Nietzsche, cerca la misura o la forma in­tensificata, una forma che sia vita e al contempo suo contenimento: Rubens.  Aveva davanti agli occhi un mondo che gli offriva la forma già impressa, e che al tempo stesso gli forniva le unità di mi­sura.  Poteva restare seduto nella sua torre e agire come uno specchio conca­vo, poiché ciò che agiva su di lui era il dar forma e non il dramma mistico: Veleda e la madre che dilania il figlio.  Questa esposizione solitaria alle scosse più ter­ribili è ciò che ha condotto Nietzsche, con la sua logica superiore del destino, alla rovina.  Nietzsche ha sofferto in Wa­gner la reazione verso la vanitosa for­mula di pathos.

D'un tratto possiamo scorgere così l'influenza del mondo antico in en­trambe le sue correnti: quella apollinea e quella dionisiaca.  Ma quale ruolo svolge l'Antico nello sviluppo della per­sonalità del veggente?  Da un lato Ago­stino di Duccio e Nietzsche, dall'altro Burckhardt e gli architetti: tettonica contro linea.

In Nietzsche e in Burckhardt pos­siamo scorgere come la veggenza si biforca nelle sue concezioni fonda­mentali.  L'una insegna e trasforma sen­za esigere; l'altra esige perché trasfor­ma, servendosi dell'antico orgiasmo del primo danzatore: «Molti portano il tirso, pochi sono i baccanti».  Non vi è al­cun dubbio: Nietzsche e Burckhardt portavano il tirso.  Per Burckhardt sia­mo giunti così a quelli che erano i limiti del suo potere.  Ma Burckhardt ha avuto ciò che lo innalza sopra di noi e che costituisce per noi un modello: Incapacità di sentire, forse anche troppo acuta­mente grazie alla sua Sophrosyne, i li­miti della propria missione.  In ogni ca­so, la capacità di non scavalcare mai ta­li limiti.

La Repubblica-3 MAGGIO 2002