Scritto a Sils-Maria, a Nizza, nel 1885-86, fu stampato da Naumann di
Lipsia nel 1886.
I 296 aforismi che lo compongono si aggruppano vastamente in 9 capitoli: I
pregiudizi dei filosofi; Lo spirito libero; Lo spirito religioso; Massime e
intermezzi; Storia naturale della morale; Noi altri sapienti; Le nostre virtù;
Popoli e Patrie; Che cosa è nobile.
Sono essi la glorificazione, come ogni opera nietzscheana, come lo Zarathustra
specialmente, della vita quale istinto, interesse, volontà, energia.
Il libro si scaglia nel suo prologo contro il platonismo creatore dello spirito
e del bene in sé, contro il dogmatismo incapace di conquistare la verità
che è femmina.
Dei filosofi Nietzsche afferma che Il filosofo è prima di tutto la
coscienza critica del suo tempo, perché il suo sguardo non si posa tanto
sull’oggi quanto sul domani e sul dopodomani. Al filosofo è necessaria la
grandezza d’animo, in un mondo in cui essa non appare piú possibile.
La filosofia è istinto tirannico che crea il mondo a propria immagine, è la più
intellettuale volontà di potenza: i veri filosofi sono coloro che comandano e
legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi
determinano in primo luogo il "dove" e l’"a che scopo"
degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli
operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato — essi
protendono verso l’avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è
stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro "conoscere"
è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è
volontà di potenza.
212. Sono sempre piú indotto a credere che il filosofo, come uomo necessario del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: il suo nemico fu ogni volta l’ideale dell’oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori dell’uomo, ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si sentirono amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi – hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile compito, e infine la grandezza del loro compito, nel costituire essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vivisezionando col coltello proprio il cuore delle virtú del tempo, tradirono quel che era il loro strano segreto: conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento. Essi svelarono ogni volta quanta ipocrisia e infingardaggine, quanto lasciarsi andare e lasciarsi cadere, quanta menzogna si nascondesse sotto il tipo maggiormente venerato della moralità loro contemporanea, quanta virtú fosse sopravvissuta a se stessa; ogni volta essi dissero: “Dobbiamo arrivare e partire da quel luogo, che oggi è per voi meno di ogni altro familiare”. Dinanzi a un mondo delle “idee moderne”, che vorrebbe confinare ognuno in un angolo e in una “specializzazione”, un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse esistere, sarebbe costretto a porre la grandezza dell’uomo, l’idea di “grandezza” proprio nella sua vastità e multiformità, nel suo essere intero in molte cose: determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di sopportare e di assumere sopra di sé, a seconda del limite fino al quale uno può tendere la sua responsabilità. Oggigiorno il gusto e la virtú dell’epoca affievoliscono e assottigliano il volere, nulla è tanto in armonia con i tempi quanto l’estenuazione della volontà.
[...]
Oggi è tutto l’opposto qui in Europa, dove soltanto l’animale da armento
perviene agli onori e onori distribuisce, dove l’“uguaglianza dei diritti”
si potrebbe anche troppo facilmente trasformare nell’uguaglianza dei torti:
intendo dire in una comune guerriglia contro tutto quanto di raro,
d’inconsueto, di privilegiato appartiene all’uomo superiore, all’anima
superiore, alla superiore responsabilità, alla pienezza creativa della potenza
e all’arte del signoreggiare – oggigiorno si addice alla nozione di
“grandezza” l’essere nobili, il voler essere per se stessi, il poter
essere diversi, il restarsene isolati e la necessità di vivere a modo proprio;
il filosofo divinerà qualcosa del suo proprio ideale, quando stabilirà “Piú
grande tra tutti sarà colui che può essere il piú solitario, il piú
nascosto, il piú diverso, l’uomo al di là del bene e del male, il signore
delle proprie virtú, ricco quant’altri mai di volontà; questo appunto deve
chiamarsi grandezza: poter essere tanto multiforme quanto intero, tanto esteso
quanto colmo”. E ancora una volta domandiamo: è oggi – possibile la
grandezza?
Anche l'acredine umoristica nietzscheana contro gli
scienziati è proverbiale. Al positivismo Nietzsche contrappone lo
scetticismo antirealista di ricercatori minuziosi della conoscenza.
Contro i giudizi sintetici a priori kantiani e contro l'atomismo delle anime
sferra i suoi attacchi. Nega alla fisiologia, dominata dall'"essere"
di Spinoza, che l'istinto di conservazione sia il fondamentale. La vita è
anzitutto volontà di potenza. La teoria della forza minima e,
aggiunge N., della stupidità massima, sono le teorie fisiche in
voga.
Nietzsche si dichiara avversario delle certezze immediate: l'io penso, l'io
voglio, io sono certo, non hanno diritto di cittadinanza nel suo pensiero e nel
pensiero scientifico.
Non esiste né causa, né successione, né finalità,
né legge, né numero, né libertà, né scopo. Tutto è volontà di potenza. La
psicologia, la scienza dei solitari e dei poeti, la scienza delle scienze, è
studiata da Nietzsche come morfologia e come dottrina dell'evoluzione nella
terribile e nuda volontà di potenza.
Nel secondo capitolo dell'Al di là, Nietzsche raccomanda ai filosofi "cavalieri
dalla triste figura" della verità, di esser prudenti, in nome
dell'innocenza e della "neutralità sottile", e di non istrioneggiare
il martirio. Il sacrificio alla Bruno o alla Spinoza è da commediante.
Rifuggirsi in leggera e vibrante solitudine è necessario. D'altronde,
l'indignazione induce alla menzogna. L'oltreuomo deve, invece, aprir l'orecchio
dell'anima a tutte le lascive facezie dei satiri, a tutte le sfumature volgari
dei cinici. Certo è privilegio di pochi simili forza temeraria che moltiplica
all'infinito i rischi della vita. Questa lode può sperarsene? Nessuna: il
grande e il raro - ha nome di follia.
Lo spirito nobile, lungi dal sì e dal no, espressione del gusto peggiore, quello dell'assoluto, anela alle nuances che sono le caratteristiche dei sommi artisti, è incline al dubbio che insorge contro la giovinezza dell'entusiasmo, contro l'astrologia e l'alchimia moralistiche, per inebriarsi del carattere erroneo del mondo. Quale contraddizione essenziale tra il vero e il falso? Si tratta di prospettiva, di gioco di ombre, di valori illusori.
Nel terzo capitolo, Lo spirito religioso, si pone il problema della fede
quale è propria dei primi cristiani e di Pascal. In Pascal è suicidio della
ragione.
La fede cristiana è, originariamente, un sacrificio, nel senso di
insulto a sé stesso, mutilazione di sé: la voluttà esuberante di penitenza,
la negazione del mondo, l'annientamento del volere, è sintomo di nevrosi religiosa.
Nel santo, Nietzsche vede la successione immediata dei contrasti, o di aspetti
morali contraddittori. Nietzsche, analizzando la passione per Dio, timida e
ardente nella Guyon, aspra e irta in S. Agostino, accenna alla crisi sessuale le
cui teorie troviamo poi sviluppate nel pensiero di Freud.
La Chiesa ha di fatto canonizzato le donne isteriche.
La morale di Nietzsche non comporta simile "mostro di negazione".
Il suo pensiero è tutto per l'impeto affermatore, per l'eternità di quanto è
stato ed è, per la grandezza grandiosa dello spettacolo di lotta universale.
"Al di là del bene e del male" è anzitutto una sfida: tutti,
anche senza saperlo, si sentono provocati.
Il filosofo, che sente di non essersi
ancora pienamente realizzato come tale, vuole affermarsi anche sul terreno
teoretico, mira a legiferare sui principi dell'esistenza. Nietzsche intrappola
il lettore con una domanda: "Che cos'è aristocratico?". E per contro
"Che cos'è volgare?". Insiste sul tema della maschera. Esaminando
l'agire degli aristocratici, si scopre che esso esprime prima di ogni altra cosa
il loro istinto del distacco, e lo manifesta con una molteplicità di maschere,
che vengono fraintese dai volgari come gli unici, veri volti.
I libri, le opere. le filosofie - se dietro c'è un aristocratico - sono
soltanto maschere. Lui stesso dichiara che conta solo indicare la propria
natura, che non interessa il bisogno di nobiltà: " Chi è aristocratico
non sente il bisogno di esserlo, chi ne sente il bisogno non lo è".
Vagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno
dominato fino a oggi o dominano ancora sulla terra, ho rinvenuto certi tratti
caratteristici, periodicamente ricorrenti e collegati tra loro: cosicché mi si
sono finalmente rivelati due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una
radicale differenza. Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi.
[...] Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e
diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per tutto quanto di
"buono" venga tenuto in onore in mezzo a costoro, vorrebbe persuadersi
che tra quelli la stessa felicità non è genuina. All'opposto vengono
messe in evidenza e inondate di luce le qualità che servono ad alleviare
l'esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e
soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l'operosità, l'umiltà, la
gentilezza ad essere poste in onore. [...] La morale degli schiavi è
essenzialmente morale utilitaria. I genitori rendono involontariamente il figlio
simile a loro - questo lo chiamano "educazione" -, nessuna madre, nel
profondo del suo cuore, dubita di aver partorito a se stessa una proprietà,
partorendo un figlio, nessun padre si nega il diritto di sottometterlo alle sue
idee e ai suoi criteri di valore. Un tempo addirittura al padre pareva giusto
disporre a suo piacimento della vita e della morte del figlio appena nato (come
tra gli antichi germani). [...] Poco per volta mi si è chiarito che cosa è
stata fino a oggi ogni grande filosofia: cioè la confessione del suo ideatore,
una specie di mémoires involontari e inavvertiti... Di conseguenza non credo
che il padre della filosofia sia un "istinto della conoscenza", ma che
qui, come ovunque, un altro istinto si sia servito della conoscenza (e della
falsa conoscenza!) come strumento. Ma chi consideri gli istinti fondamentali
dell'uomo per chi vedere in che misura essi possano aver avuto un ruolo di geni
ispiratori (o demoni, o coboldi), troverà che tutti gli istinti hanno già
praticato la filosofia, e che ciascuno di essi vorrebbe fin troppo volentieri
presentarsi come lo scopo finale dell'esistenza e signore legittimo di tutti gli
altri istinti. Ciascun istinto infatti aspira al dominio: e come tale cerca di
fare filosofia. [...]
Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non "tornare a s estesso" ogni volta. [...] Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l'"a che scopo" degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato - essi protendono verso l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza. - Esistono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi? Non devono forse esistere tali filosofi?."
Al di là del bene e del male" è un libro di riflessioni e aforismi che
ha come motivo conduttore la ridefinizione dei concetti di "aristocraticità"
e "volgarità".
Questo binomio tematico, che in D'Annunzio assumerà toni esaltati di puro
edonismo estetico e letterario, comporta in realtà, da parte di Nietzsche, una
consapevole provocazione nei confronti del "senso comune":
l'aristocratico non è colui che è "diverso dagli altri" - il
"migliore" nel senso letterale ed etimologico della parola -, ma
l'individuo, chiunque esso sia, che è disposto ad accettare la consapevolezza
della profonda natura "animale" o "naturale" dell'uomo.
L'"animale umano" non è dunque un essere inferiore a cui si
contrappongono i "superuomini" aristocratici, ma è l'uomo reale,
nelle sue naturali determinazioni, le stesse che l'indole
"aristocratica" fa proprie con un atto di libero pensiero.
Si pongono pertanto due possibilità: subire supinamente questa condizione, adattandosi a una vita alienata, da "animale d'armento", salvo poi negarla facendo ricorso a costruzioni metafisiche e valori che servono solo a mascherare ipocritamente la propria debolezza (e tali sono per Nietzsche le ideologie politiche di massa e il cristianesimo stesso); oppure prenderne atto con un gesto di volontà, trasformando questa consapevolezza in una forma di superiorità morale nei confronti dell'ipocrisia corrente. Solo questa coraggiosa accettazione della propria vera natura rende libero il filosofo nei confronti della massa. La superiorità dell'"aristocratico" non è comunque nella liberazione edonistica degli istinti (il "piacere" dannunziano), bensì nell'accettazione del dolore, nella capacità di vivere positivamente la sofferenza senza fuggire da essa: "La profonda sofferenza rende nobili".
"Diciamo subito ancora una volta quel che già abbiamo detto cento volte: giacché oggi non sono ben disposti gli orecchi a intendere certe verità, le nostre verità! Ci è già abbastanza noto quanto suoni offensivo annoverare, senza fronzoli e non metaforicamente, l'uomo in genere tra gli animali; e ci verrà quasi considerata una colpa l'aver costantemente usato, proprio in riferimento agli uomini delle "idee moderne", le espressioni "armento", "istinti dell'armento" e simili. Che importa! Non possiamo fare altrimenti: sta proprio in questo, infatti, la nostra nuova conoscenza. Abbiamo riscontrato che l'Europa ha raggiunto l'unanimità in tutti i suoi principali giudizi morali, senza escludere quei paesi in cui domina l'influsso europeo: si sa, evidentemente, in Europa quel che Socrate riteneva di non sapere e ciò che quel vecchio famoso serpente aveva un tempo promesso di insegnare - si "sa" oggi che cos'è bene e male. Deve allora aver suoni aspri e tutt'altro che gradevoli agli orecchi la nostra ogn' or rinnovata insistenza nel dire che è l'istinto dell'uomo animale d'armento quel che in lui crede di saperne abbastanza a questo proposito, celebra se stesso con la lode e il biasimo e chiama se stesso buono: come tale, questo istinto è arrivato a farsi strada, a predominare e a signoreggiare sugli altri e guadagna sempre più terreno in armonia a quel crescente processo di convergenza e di assimilazione fisiologica di cui esso è un sintomo. La morale è oggi in Europa una morale da armento - dunque, stando a come intendiamo noi le cose - nient'altro che un solo tipo di morale umana, accanto, avanti, e dopo la quale molte altre, soprattutto morali superiori, sono o dovrebbero essere possibili. Contro una tale "possibilità", contro un tale "dovrebbe", questa morale però si difende con tutte le sue forze: essa si affanna a dire con ostinazione implacabile "io sono la morale in sé e non v'è altra morale se non questa!" - anzi, sostenuta da una religione che appagava le più sublimi concupiscenze delle bestie da mandria, lusingandole, si è giunti al punto che persino nelle istituzioni politiche e sociali troviamo una espressione sempre maggiormente evidente di questa morale: il movimento democratico costituisce l'eredità di quello cristiano.
Leggendo che La morale è oggi in Europa una morale da armento, non dobbiamo ridurre questo enunciato a un puro e semplice gesto di disprezzo nei confronti delle masse, ma inserirlo nella giusta cornice scientifica d tipo illuminista che connota il pensiero di Nietzsche in questa fase del suo percorso filosofico: per Nietzsche la "moralità" non è una qualità spirituale di carattere superiore infusa da un Ente di natura divina, bensì è una proprietà dell'essere vivente simile a tutte le altre, comprese quelle biologiche. Ecco un altro passo tratto da "Al di à del bene e del male" che può chiarire il significato di questo pensiero:
Da: Al di là del bene e del male, afor. 3:
"Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto le loro bucce, mi sono detto: occorre anche considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico; occorre, a questo punto, trasformare il proprio modo di vedere, come si è fatto per quanto riguarda l'ereditarietà e l'"innatismo". Come l'atto della nascita non può essere preso in considerazione nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, cosl l'"esser cosciente" non può essere contrapposto, in una qualche maniera decisiva, all'istintivo - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari. Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per esprimermi più chiaramente, esigenze fisiologiche di una determinata specie di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza sia meno valida della "verità": simili apprezzamenti, con tutta la loro importanza regolativa per noi, potrebbero, pur tuttavia, essere soltanto apprezzamenti pregiudiziali, una determinata specie di "niaiserie", come può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri quali noi siamo. Supposto, cioè, che non sia proprio l'uomo la "misura delle cose"(...)".
Nietzsche, come al solito, muove un'accesa polemica nei confronti di Socrate, accusato di falsità e di ipocrisia (so di non sapere, egli diceva per mettere in difficoltà l'avversario), biasimato per aver introdotto il concetto di "uomo virtuoso", facendo così, insieme ad Euripide, morire il senso del tragico razionalizzando ogni cosa: in questo passo di Al di là del bene e del male, il riferimento è alla teoria dialettica di Socrate, fatta propria da Platone, secondo cui la vera conoscenza - soprattutto la vera conoscenza del bene - non è nel possesso di una comune opinione, nella supina ripetizione di ciò che tutti pensano, ma nella ricerca "filosofica", o "noetica", di una verità nascosta dietro l'apparenza del mondo sensibile. Una costante dell'intera opera di Nietzsche, poi, é l'attacco al cristianesimo, che troverà la sua massima espressione nell'Anticristo: in Al di là del bene e del male, vi é una condanna totale e senza mezzi termini dell'esperienza "storica" del Cristianesimo, vale a dire della sua trasformazione in istituzione politica e culturale. Per tutta l'opera Nietzsche teorizza la somiglianza strutturale e ideologica tra il cristianesimo come "sistema di valori" e qualsiasi altra forma di ideologia sociale che abbia come scopo la liberazione dell'uomo dalla sofferenza. La sofferenza, il dolore, per il nostro filosofo non è eliminabile da un'esistenza che voglia essere autenticamente libera. Nella Volontà di potenza, Nietzsche, nemico accanito del Socialismo, del Comunismo e della democrazia, simpatizzante per l'aristocrazia, definirà il Socialismo come una balorda interpretazione dell'ideale cristiano.
Alla radice della filosofia e della morale - dice in sostanza Nietzsche in questo aforisma - c'è l'istinto di conservazione e di accrescimento della vita. Dietro ogni grande teoria filosofica, ogni ideale morale o misticismo religioso, c'è la volontà di vivere, concepita come una forza naturale sempre uguale a se stessa. "Comunque sia da concepire questo "fondo", resta in ogni caso che, nella demitizzazione, esso si oppone al mito come il vero al falso, è il criterio di verità in base a cui la favola si rivela favola. Ora, uno dei miti, anzi il mito che Nietzsche si è applicato con più calore a distruggere, è proprio la credenza nella verità. "Anzitutto, scuotere la credenza nella verità". Non in qualche verità determinata, ma nella verità come tale.
Resta ora da chiarire il titolo dell'opera, Al di là del bene e del male: esso é riferito all'oltreuomo, tutto assorbito dalla vita terrena, ateo, senza inutili speranze ultraterrene, creatore di valori, rinnegatore dei valori tradizionali: egli é appunto al di là del bene e del male comunemente detti, ossia é su "un altro pianeta", ha un'altra scala di valori da lui stesso impostata e riconosciuta. In Al di là del bene e del male é evidente la precisa consapevolezza che Nietzsche ha del significato e dell'importanza dell'interpretazione nella decifrazione della realtà e del suo senso.
Pensare di poter esprimere direttamente la "verità" è ingenuità o malafede; occorre operare anche in filosofia come opera la vita nella sua immediatezza: celandosi dietro una maschera. Egli stesso scrisse, a questo proposito:
"Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. (...) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà."
La maschera è dunque un mezzo ambiguo, dietro il quale da un lato la verità ama nascondersi per salvaguardare la propria profondità; ma che dall'altro noi utilizziamo per non vedere la realtà, per sfuggire da essa.
"Nel terzo saggio di questo libro ho presentato un modello di quel che in un caso del genere intendo per "interpretazione" - a questo saggio è fatto precedere un aforisma ed esso stesso ne rappresenta il commento. Indubbiamente, per esercitare in tal modo la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa, che oggidì è stata disimparata proprio nel modo più assoluto - ed è per questo che per giungere alla "leggibilità" dei miei libri occorre ancora del tempo - una cosa per cui si deve essere quasi vacche e in ogni caso non "uomini moderni": il ruminare...".
La modernità a cui si riferisce Nietzsche è la nostra modernità delle
macchine, della velocità ad ogni costo. Una modernità che non lascia più
spazio all'attenzione e alla profondità, che fa, appunto, della velocità una
maschera per nascondere la propria angoscia ed impotenza. Ruminare, quindi, nel
senso di lasciarsi tempo, di ripensare a lungo su ciò che si è letto, di non
voler cogliere "subito tutto", di essere, cioè, il contrario di un
uomo moderno.
Da: Al di là del bene e del male, afor. 16:
"Continuano ancora ad esistere ingenui osservatori di sé, i quali
credono che vi siano "certezze immediate", per esempio "io
penso", o, come era la superstizione di Schopenhauer, "io
voglio": come se qui il conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo
oggetto, quale "cosa in sé", e non potesse aver luogo una
falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell'oggetto." …
se il "soggetto" della conoscenza, colui che conosce, può falsificare
i dati della sua conoscenza sovrapponendovi le proprie "verità"
prefabbricate e le proprie teorie morali; così anche l'"oggetto", la
cosa che si vuole conoscere, si nasconde dietro un'apparenza, una serie di
maschere, che caratterizza tutto ciò che è vivo: la vita ama nascondersi per
difendersi... "Ma non mi stancherò di ripetere che "certezza
immediata", così come "assoluta conoscenza" e "cosa in sé",
comportano una "contradictio in adjecto": ci si dovrebbe pure
sbarazzare, una buona volta, della seduzione delle parole! Creda pure fin che
vuole il volgo, che conoscere sia un conoscere esaustivo; il filosofo deve
dirsi: se scompongo il processo che si esprime nella proposizione "io
penso", ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle
quali mi è difficile, forse impossibile, - come per esempio, che sia io a
pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia
un'attività e l'effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un
"io", infine, che sia già assodato che cos'è caratterizzabile in
termini di pensiero, - che io sappia che cos'è pensare. Se io, infatti, non mi
fossi già ben deciso al riguardo, su quale base potrei giudicare che quanto
appunto mi sta accadendo non sia forse un "volere" o un
"sentire"? Ebbene, quell'"io penso" presuppone il confronto
del mio stato attuale con altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di
stabilire che cosa esso sia: a causa di questo rinvio a un diverso
"sapere", esso non ha per me, in nessun caso, un'immediata
certezza."
Malgrado la sua critica nei confronti del linguaggio filosofico tradizionale,
in questo caso Nietzsche "ricade" nel meccanismo della confutazione
logica: egli asserisce, infatti, che la "certezza" cartesiana circa il
fondamento primario dell'"io penso" - al di sotto dell'io, della
coscienza, non c'è nulla poiché è il pensare che costituisce il fondamento di
ogni certezza - è contraddetta dall'esistenza, accanto al "pensare",
di altri stati della coscienza quali il "volere" e il
"sentire".
In base a quale principio assoluto possiamo dunque stabilire che prima viene il
pensare e poi tutto il resto? In base, sostiene Nietzsche, a una semplice nostra
decisione in tal senso. Ma proprio Nietzsche ci ha insegnato che una decisione
non crea una verità. " - Al posto di quella "certezza
immediata", alla quale il popolo, nel caso in questione, può credere, il
filosofo si ritrova in tal modo nelle mani una serie di problemi della
metafisica, vere e proprie questioni di coscienza dell'intelletto, che così si
formulano: "Donde prendo il concetto del pensare? Perché credo a causa ed
effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare d'un io e perfino d'un io come
causa, e infine ancora d'un io come causa dei pensieri?". Chi,
richiamandosi a una specie d'intuizione della conoscenza, si sentisse così
fiducioso da rispondere, come fa colui che dice: "Io penso e so che questo
almeno è vero, reale, certo" -troverebbe oggi pronti in un filosofo un
sorriso e due punti interrogativi: "Signor mio, gli farebbe forse capire il
filosofo, è improbabile che lei non si sbagli: ma perché poi verità a tutti i
costi?." Per comprendere il significato di quest'ultima frase, leggiamo
questi altri due brevi aforismi tratti da La volontà di potenza: "Contro
il valore di ciò che rimane eternamente uguale (vedi l'ingenuità di Spinoza,
come pure di Cartesio) c'è il valore di ciò che è più breve e transeunte, il
seducente scintillio dorato sul ventre del serpente vita". "Non
"conoscere" ma schematizzare, - imporre al caos tutta la regolarità e
tutte le forme sufficienti al nostro bisogno pratico". Dunque la verità a
tutti i costi è un bisogno pratico di sopravvivenza dell'uomo; solo di
quell'uomo, però, che teme, per debolezza, la forza vitale del
"divenire", del caotico cambiamento che caratterizza la vita.
Il seguente aforisma (n. 289), sempre tratto da Al di là del bene e del male,
è stato giudicato "una delle pagine più belle che Nietzsche abbia mai
scritto". In esso emerge con forza quel concetto di profondità insondabile
del "vero" che ha connotato gran parte del pensiero del
Novecento:
Da: Al di là del bene e del male, afor. 289:
"Negli scritti di un eremita si ode ancor sempre qualcosa coma la eco del deserto, qualcosa dei bisbigli e del timido guardarsi attorno della solitudine…" Malgrado l'apparenza, anzi, proprio "dietro di essa", deserto e solitudine nascondono ancora qualcosa; l'eremita ascolta proprio questo "qualcosa". "… dalle sue più forti parole, dal suo stesso grido affiora ancora una nuova e più pericolosa specie di silenzio, di tacita segretezza. Chi di anno in anno, ogni giorno e ogni notte, è stato in un intimo contrasto e colloquio con l'anima sua, chi nella sua caverna - può essere un labirinto, ma anche una miniera d'oro - è divenuto un orso antidiluviano o un disseppellitore o un custode di tesori e un drago…" Il "nuovo" filosofo che Nietzsche intende essere non è colui che dà chiarezza, ma colui che scava nella profondità senza paura di sporcarsi; nella profondità dell'esistenza infatti si trova l'oscurità (che la nostra "coscienza" ritiene fangosa) di una condizione vitale elementare di cui è stolto avere paura, perché in essa si cela il tesoro della vita. Il filosofo, come il drago della mitologia sassone, è il custode del tesoro celato nel cuore della terra. "… finisce per ricevere, persino nelle sue idee, un tono di luce crepuscolare, un profumo tanto d'abisso che di muffa, qualcosa di incomunicabile e di ripugnante che investe con un soffio gelido chiunque gli passi accanto. L'eremita non crede che un filosofo - posto che un filosofo sia sempre stato, prima di tutto, un eremita - abbia mai espresso in libri le sue intime ed estreme opinioni: non si scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé? - dubiterà, anzi, che un filosofo possa avere in generale "estreme e intime" opinioni, pensando invece che ci sia in lui, dietro ogni caverna, una caverna ancor più profonda - un mondo più vasto, più strano, più ricco al di sopra d'una superficie, un abisso sotto ogni fondo, sotto ogni "fondazione". Ogni filosofia è filosofia di proscenio - questo è un giudizio da eremita: "V'è qualcosa di arbitrario nel fatto che costui si sia arrestato qui, abbia rivolto lo sguardo indietro e intorno a sé, non abbia, qui, scavato più profondamente e abbia messo in disparte la vanga - c'è pure qualcosa di sospetto in tutto ciò". Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondimento, ogni parola anche una maschera."
Non esistono fenomeni morali, ma solo un'interpretazione morale dei
fenomeni.
Il cristianesimo fece bere a Eros il veleno: in realtà egli non ne morì,
ma degenerò in vizio.
| La demenza è rara nei singoli, ma è la regola nei gruppi, nei partiti,
nelle epoche.
| Si deve contraccambiare il bene e il male: ma anche perché proprio alla
persona che ci ha fatto il bene e il male?
| Non si odia finché la stima è ancora poca, ma solo quando si stima
qualcuno come uguale o superiore.
| Uomini gravi, malinconici, diventano più leggeri e salgono, a volte, alla
superficie proprio a causa di ciò che rende gravi altri, a causa dell'amore
e dell'odio.
| Non la forza, ma la costanza di un alto sentimento fa gli uomini superiori | |