Schopenhauer come educatore

Lo scritto  Schopenhauer come educatore è del 1874.

Nietzsche, accogliendo l'impostazione di Schopenhauer, ricorda all'uomo che la sua vera essenza non sta profondamente dentro di sè, bensì immensamente al di sopra di sè, ma, lungi dal difendersi da questo doloroso destino, come aveva fatto Schopenhauer e come in seguito farà Freud, Nietzsche si abbandona all'incontenibile sovrabbondanza della vita, liberando tutte le maschere e tutte le illusioni attraverso cui questa si offre e si produce.
La scelta non è arbitraria, ma risponde al bisogno di stabilire una coerenza tra premesse e conseguenze. La premessa schopenhaueriana era che noi siamo vissuti dalla vita di cui, solo per un inganno, ci pensiamo autori; la ragione è la tessitura di questo inganno.

Nietzsche, nella premessa di Schopenhauer, coglie l'essenza del tragico, ma proprio per questo anche il beneficio dell'illusione senza il quale non potremmo vivere.
A questo punto la "rappresentazione" da inganno diventa rimedio, e perciò, nel linguaggio nietzschiano, l'ordine apollineo, per quanto ingannevole, salva dalla dissolvenza delle forze dionisiache in preda alle quali l'uomo non potrebbe vivere.

Ammiratore di Schopenhauer, Nietzsche ne accoglie la verità dell'esistenza minacciata da forze immensamente più potenti di lei  ma, "liberato" da Schopenhauer, Nietzsche accoglie anche il mondo dell'apparenza, e quindi dell'illusione e della maschera senza di cui la vita non sarebbe vivibile. Smascherata la volontà irrazionale, il problema non è più quello di difendersi dalla rappresentazione del mondo e quindi dall'illusione e dalla maschera in nome della verità, ma di liberare rappresentazioni, illusioni e maschere, senza di cui la vita sarebbe impossibile.
Si prospetta qui il conflitto tra vita e verità, dove Nietzsche sta dalla parte della vita, mentre Schopenhauer stava dalla parte della verità.

Nel Tentativo di autocritica, che nel 1886 precedette una nuova edizione de La nascita della tragedia, Nietzsche risolse il conflitto abolendo la distinzione tra verità e illusione perché sospettava, in quanti la sostenevano, (quindi in Platone, nel Cristianesimo, in Kant e nello stesso Schopenhauer), un'ostilità alla vita, una rabbiosa, vendicativa avversione alla vita stessa, un odio contro  le passioni, la paura della bellezza e della sensualità.

Questo sospetto porta Nietzsche a vedere il mondo delle apparenze non come una difesa contro il terrore che può incutere la visione dei caratteri caotici e abissali della volontà di vita, ma come l'espressione liberata della sovrabbondanza e del carattere multiforme che la volontà di vita racchiude in se stessa. Da questo punto di vista non c'è più dualismo tra verità e illusione, perché l'illusione non è prodotta dall'uomo per difendersi dalle atrocità dell'esistenza, ma è prodotta dalla volontà di vita che, liberandosi, esprime se stessa come potenza plastica formatrice di apparenze e illusioni.

La risoluzione del dualismo, che da Platone a Schopenhauer, attraverso il Cristianesimo e Kant, percorre l'intero pensiero dell'Occidente, è insieme il superamento del pessimismo, perché là dove le illusioni sono le forme in cui si libera la verità dell'essere, non è più necessario, "per amore della verità", rinunciare alla vita nel mondo delle illusioni.
L'Autocritica di Nietzsche non lascia dubbi in proposito: "Nel libro ritorna più volte l'allusiva frase che solo come fenomeno estetico l'esistenza del mondo è giustificata.

Nietzsche mantiene dunque il principio di Schopenhauer secondo cui l'essere è volontà di vita, ma libera l'Occidente dal pessimismo perché lo libera dall'invenzione dell'al di là.  Ad esso sostituisce una visione estetica dove sono ospitati rappresentazione, illusione, apparenza e tutti quei fenomeni che nel mondo della morale non hanno cittadinanza se non come negatività.