Il serpente nietzscheano

 

"Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte sono io -: tu non conosci il mio pensiero abissale!
Questo - tu non potresti sopportarlo!". -
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia.
"Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti - è un'altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo".
Ma, chi ne percorresse uno dei due - sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?". -
"Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo".
"Tu, spirito di gravità! dissi lo incollerito non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato - e sono io che ti ho portato in alto!
Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità.
Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?
E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia - esserci già stata?
E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - anche se stesso?
Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori - deve camminare ancora una volta!
E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? - e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno?".-
Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare.
Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse all'indietro. Sì! Quand'ero bambino, in infanzia remota: - allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all'insù, tremebondo, nel più fondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri:
- tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, - tacita, sul tetto piatto, come su roba altrui:-
ciò aveva inorridito il cane: perché i cani credono ai ladri e agli spettri. E ora, sentendo di nuovo ululare a quel modo, fui ancora una volta preso da pietà.
Ma dov'era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare? Stavo sognando? Mi ero svegliato? D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna.
Ma qui giaceva un uomo! E - proprio qui! - il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, - adesso mi vide accorrere - e allora ululò di nuovo, urlò: - avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo?
E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e - lì si era abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.-

Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi!
Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini!
Giacché era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire?
Chi è il pastore, cui il serprente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci?
- Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -; e balzò in piedi.-
Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, - e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa.
La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! -

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Quella che segue è una delle pagine capitali di tutta l'opera nietzscheana.
Zarathustra narra di una ascesa su di un impervio sentiero di montagna, nella quale è accompagnato dallo "spirito di gravità", "metà talpa, metà nano", attraverso le cui parole noi apprendiamo la prima versione della dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale.  
Il serpente che si morde la coda simboleggia il tempo concepito come ciclico e che in un primo tempo può essere concepito come un qualcosa di soffocante, perché l'idea che tutto ritorni è insostenibile poiché nessuno vorrebbe ripetere all'infinito la propria vita, proprio perché la nostra vita non è così perfetta da poter aspirare ad essere desiderata per l'eternità. Il morso al serpente sta a significare che è vero che la dottrina dell'eterno ritorno può essere soffocante, ma solo per chi ha un'esperienza di vita non pienamente realizzata. L'oltreuomo, invece, che sa vivere in superficie e vivere pienamente la sua esistenza come un'opera d'arte, può per davvero desiderare di riviverla in eterno e tagliar la testa al serpente vuol dire spezzare il circolo del tempo che ritorna su se stesso e inserirsi in questo circolo ma se tutto torna su se stesso, si può obiettare, non c'è la possibilità di entrare in questo circolo; e questo è l'apparente paradosso della dottrina dell'eterno ritorno. E' vero che non ci si può infilare nel circolo a nostro piacimento, ma tutto si spiega se, come ci rammenta Zarathustra, teniamo presente che le apparenze ingannano e la teoria dell'eterno ritorno è diversa da come sembra. Del resto, sarebbe assurdo che ora Nietzsche ci dicesse, prospettando i cicli dell'eterno ritorno, come procede il mondo: secondo la logica della volontà di potenza, egli vuole proporci un'interpretazione particolarmente forte del mondo, non una verità, ma un'immagine del mondo che valga la pena di essere vissuta; in altri termini, ci sta dicendo che se ci mettiamo nella prospettiva dell'oltreuomo e se quindi sappiamo vivere pienamente la vita, varrà la pena anche decidere di vivere come se la vita dovesse eternamente ritornare, momento per momento. Soltanto una vita pienamente vissuta si può desiderare che ritorni in eterno, ma solamente un qualcosa concepito come eternamente ritornante assume un valore assoluto tale da poter vivere pienamente la vita: nella dottrina del tempo lineare, ogni istante distrugge quello precedente, ogni cosa è travolta da quella che viene dopo e quindi se accetto tale dottrina non posso vivere pienamente, perchè so che ogni istante sarà distrutto da quello successivo; nella dottrina dell'eterno ritorno, invece, posso vivere la vita fino in fondo perchè ogni cosa che faccio ha un valore assoluto, poiché si sfugge tempo lineare per cui ogni cosa che si fa viene mangiata (e quindi privata di significato) da quella successiva (il mito di "Cronos", ovvero il tempo, che divora i propri figli). Se l'eterno ritorno viene considerato non come dottrina metafisica, ma come interpretazione, allora il paradosso per cui si entra nel circolo si dilegua: posso decidere di vivere come se ci fosse l'eterno ritorno, desiderando con ardore di rivivere ogni singolo istante della vita per l'eternità ( amor fati ), quasi come se al "no" alla vita di Schopenhauer si sostituisse un "sì" eterno ad essa: " la mia formula per la grandezza dell'uomo é amor fati: che cioè non si vuole nulla diverso da quello che é, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l'eternità " ( Ecce Homo ). E così, la fase precedente al nichilismo, quella cioè dei valori morali e di Dio, simboleggia l'eternità, mentre quella del nichilismo passivo, privo di valori assoluti, è il tempo lineare che tutto travolge e nulla ha senso; l'ultima fase, quella del nichilismo attivo, è il divenire continuo che assume valore assoluto e tutto ciò è quanto accade nella dottrina dell'eterno ritorno, la quale fa assumere dignità di assoluto al divenire, tutto fluisce ma in modo circolare. E così si capisce la vicenda del pastore: soffocato in principio dall'interpretazione banalizzante dell'eterno ritorno, riesce ad entrare nel circolo dell'eterno ritorno e col riso esprime la sua piena felicità.

L' essenziale della dottrina è che il futuro è frutto di una decisione: l'anello si chiude nell'attimo che è il centro del contrasto. L'eternità non è quindi qualcosa di esteriore e di eternamente uguale, ma è nell'attimo, che è lo scontro di futuro e passato e che determina il modo in cui tutto ritorna. L'attimo è la cosa più breve ma al tempo stesso più compiuta, in cui si può afferrare la totalità del ritorno: nell'immagine, questo è l'anello vivente del serpente.
Il serpente nero secondi Heidehher simboleggia l'aspetto tetro e senza fine del nichilismo. In questo contesto, i rimandi di Zarathustra alla sua fanciullezza rinviano alla preistoria del pensiero dell'eterno ritorno, che coincide con la genesi e l'avvento del nichilismo. Nietzsche allude qui all'epoca in cui il suo mondo era determinato da Schopenhauer e da Wagner i quali insegnavano il pessimismo e la dissoluzione nel nulla.
Zarathustra cerca inutilmente di liberare il giovane pastore tirando e strappando il serpente. Ciò vuol dire che il nichilismo non può essere eliminato dall'esterno, ponendo cioè al posto del Dio cristiano un altro ideale come la ragione, il progresso, la democrazia. Il serpente nero del nichilismo deve essere superato prprio da chi ne è coinvolto: quando Zarathustra grida: "Mordi!", il pastore stacca la testa del serpente con un morso e la sputa via, balzando in piedi. "Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! "

Al serpente nietzschiano è dedicato un testo singolare di Graziano Biondi (L'enigma della serpe secondo Nietzsche, manifestolibri, pp. 247).
In realtà l'enigma sta per Biondi nel pastore e non nel serpente o nell'iscrizione sulla porta carraia. La definizione dell'Eterno Ritorno è stata già data nel colloquio fra Zarathustra e il nano prima di arrivare in cima al monte. Il serpente solo secondariamente allude al tempo, ma in primo luogo è simbolo dionisiaco della vita che porta in sé la morte. Il pastore simboleggia la malattia storica dell'uomo moderno, indebolito dal pessimismo e dal dubbio: le sue fonti sono giustamente indicate nel Pastore errante di Leopardi, a Nietzsche carissimo, e in una scena cruciale del Tristano wagneriano. La metamorfosi del malato riguarda la sua interiorità, non gli avvenimenti della società o il tempo storico. Egli è tentato dalla pastorale redenzione cristiana, che si nutre di dolore e di morte, ma viene risvegliato dal veleno a un tempo balsamico e mortifero. Chi l'assapora e lo supera ne è immunizzato, passa per una morte alchemica e purificatrice - la controfigura nietzschiana, prima di Zarathustra, avrebbe dovuto essere Paracelso. L'incontro con il serpente trasforma il pastore in senso opposto a quello di Adamo, lo porta al di là del bene e del male e gli fa ritrovare il gusto di vivere nell'esposizione rischiosa rivelandogli la perennità della natura attraverso la morte individuale. Rinascita della vita ritrovata e accolta così com'è dopo l'esperienza del disgusto e del pericolo, ritorno a qualcosa che non è differente da prima ma ora è amato perché lo si vuole ancora e per sempre. Zarathustra, che prima ha respinto nel nano la tentazione dello spirito di gravità, del Ritorno come inane ripetizione, ha rammemorato ascoltando il cane ululante la morte dei suoi cari e del vecchio anno, si è immerso nell'incubo del proprio sepolcro, della caverna mitraica e antiplatonica cui allude la porta carraia, si riconcilia così con la vita e torna fra gli uomini accettando il proprio tramonto. Una convincente documentazione, che segue le letture e gli appunti del Filosofo, comprova questa interpretazione, rinviando a fonti "marginali"  più che a schemi filosofici allegorizzanti. La vittoria sul serpente è iniziazione dionisiaca, in una dimensione psicologico-esistenziale più vicina, semmai, agli schemi junghiani che alla deriva del postmoderno debolista. Sarebbe qui forse stato opportuno un confronto con Gilles Deleuze, che al labirinto esistenziale e alla coppia aquila-serpente ha dedicato pagine memorabili.