La visione e l'enigma

Troviamo il brano "La visione e l'enigma" nella terza parte dello Zarathustra, nella quale Nietzsche annuncia la teoria dell'eterno ritorno.

Quando tra i marinai si sparse la voce che Zarathustra era sulla nave - poichè insieme a lui era salito a bordo un uomo che veniva dalle isole beate - si manifestò grande curiosità e attesa. Ma Zarathustra tacque per due giorni, ed era freddo e sordo dalla tristezza, tanto da non rispondere nè agli sguardi nè alle domande. La sera del secondo giorno, però, egli riaprì le sue orecchie, sebbene tacesse ancora: si potevano infatti sentire molte cose strane e pericolose su questa nave che veniva da lontano e andava ancora più lontano. Ma Zarathustra era amico di tutti quelli che fanno lunghi viaggi e che non vogliono vivere senza pericolo. Ed ecco! alla fine, mentre era intento ad ascoltare, egli si sciolse la lingua e si spezzò il ghiaccio intorno al cuore: - allora cominciò a parlare così:
A voi, audaci nel ricercare e nel tentare, e a chiunque si sia imbarcato con vele capaci su terribili mari -
a voi, ebbri di enigmi, allegri nell'ora del crepuscolo, a voi le cui anime sono attratte da suoni di flauto in voragini ingannevolmente tortuose:
- poiché non volete con mano vile, seguire a tastoni un filo, e dove siete capaci di indovinare, trovate odioso dedurre - a voi solo racconterò l'enigma che io vidi - la visione dell'uomo più solitario. -
Incupito andavo di recente nel crepuscolo color di morte - incupito e duro, le labbra serrate. Non un sole soltanto mi era tramontato.
Un sentiero che si inerpicava ostinato tra ammassi di ciottoli, maligno, solitario, cui non si adattavano né erba né cespugli: un sentiero di montagna si sgretolava sotto l'ostinazione del mio piede.
Muto, avanzando sul beffardo rovinio di ciottoli, calpestando la pietraia che lo faceva scivolare: così il mio piede si sforzava di salire verso l'alto.
Verso l'alto - a dispetto dello spirito che lo trascinava in basso, giù verso l'abisso, lo spirito di gravità, il mio demonio e nemico capitale.
Verso l'alto - sebbene fosse seduto si di me, mezzo nano, mezzo talpa; storpio; storpiante; stillando piombo nelle mie orecchie, nel mio cervello pensieri - gocce - di - piombo.
"O Zarathustra", sussurrava beffardamente sillaba dopo sillaba, "tu pietra della saggezza. Ti sei lanciato in alto, ma ogni pietra lanciata - non può fare a meno di ricadere!
O Zarathustra, pietra della saggezza, pietra lanciata da una fionda, tu che frantumi le stelle! Hai lanciato te stesso così in alto - ma ogni pietra scagliata - non può fare a meno di ricadere!
Condannato a te stesso e alla tua lapidazione: o Zarathustra, tu hai lanciato lontano la pietra - ma essa ricadrà su di te!"
A questo punto il nano tacque, e ciò durò a lungo. Il suo tacere però mi opprimeva; e stare in due in questo modo è in verità essere più soli che in uno!
Io salivo, salivo, sognavo, pensavo - ma tutto mi opprimeva. Sembravo un malato, sfinito dal suo tormento, e che un sogno ancora più penoso ridesta mentre sta per addormentarsi.
Ma c'è qualcosa che in me io chiamo coraggio: il quale finora ha sempre ucciso per me ogni scoramento. Questo coraggio alla fine mi impose di fermarmi e dire: "Nano! Tu! O io!".
Coraggio infatti è la mazza ferrata che meglio uccide - coraggio che assalta: perché in ogni assalto vi è una banda che suona. 
Ma l'uomo è l'animale più coraggioso: perciò egli ha superato ogni altro animale. A suon di musica egli ha pure superato ogni dolore; il dolore dell'uomo, però, è il più profondo di tutti i dolori.
Il coraggio uccide anche la vertigine sull'orlo degli abissi! Non è forse lo stesso vedere - un vedere gli abissi?
Coraggio è la mazza ferrata che meglio uccide: il coraggio uccide anche la compassione. Ma la compassione è il più profondo degli abissi: quando l'uomo vede a fondo nella vita, tanto vede a fondo anche nel dolore.
Coraggio è la mazza ferrata che meglio uccide, coraggio che assalta: il quale uccide pure la morte, perchè si dice: "Fu questo la vita? Orsù, ancora una volta!"
Ma in tali parole vi è molto suono di musica. Chi ha orecchi intenda.


"Alt! Noano!" dissi. "Io! O tu! Ma io sono il più forte dei due: tu non conoscsi il mio pensiero abissale! Questo - tu non potresti sopportarlo!" -
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano, infatti, mi saltò sulle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma proprio dove ci eravamo fermati era una porta carraia.

Guarda questa porta carraia! Nano! Continuai: essa ha due volti. Due sentieri convergono qui: nessuno li ha mai percorsi sino alla fine.

Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. Si contraddicono a vicenda questi sentieri; sbattono la testa l'un l'altro: e qui, a questa porta carraia essi convergono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo". Ma chi ne percorresse uno dei due - sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?

Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo".

Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse aver già percorso un’altra volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che “possono” accadere essere già accaduta, fatta, trascorsa una volta?

E se tutto è già esistito: che ne pensi tu, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra in modo tale che quest’attimo trae dietro di sé tutte le cose a venire? Dunque anche sé stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche questa lunga via “al di fuori” – deve camminare ancora una volta!

E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, ed io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non possiamo esserci tutti stati un’altra volta? E ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?

Il brano si configura come un racconto esposto da Zarathustra ai marinai della nave che lo trasporta nel "mare aperto": egli parla loro della sua salita su di un sentiero di montagna - nel racconto di Zarathustra si associano due immagini essenziali, il mare e la montagna, ossia l'altezza e la profondità estreme che alludono al pensiero dei pensieri - in compagnia di uno strano personaggio, il nano, che rappresenta lo "spirito di gravità", l' "arcinemico" di Zarathustra. Giunti davanti ad una porta carraia, sulla quale sta scritta la parola "attimo", e da cui si dipartono, in direzioni opposte, due sentieri infiniti - la porta carraia e i due sentieri simboleggiano il tempo e l'eternità -, Zarathustra domanda al nano: "Credi tu, nano, che queste vie si contraddicano in eterno?" Questi risponde: "Tutte le cose diritte mentono [..]. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo".

Benché il nano abbia fatto riferimento al circolo dell'eterno ritorno, non ha indovinato l'enigma, perché ha preso le cose "troppo alla leggera". Nondimeno Zarathustra rivolge al nano una seconda domanda: "Guarda, continuai, questo attimo!". Zarathustra domanda ora partendo dall'attimo; e in riferimento ad esso si deve pensare di nuovo l'intera visione che esige una propria posizione nell' "attimo" stesso, cioè nel tempo. In tal modo la domanda è posta ad un livello infinitamente superiore, tale da non poter essere soddisfatta dal nano, che scompare dalla scena, sostituito da una seconda visione, nella quale appare un pastore "cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca".

Zarathustra espone così la dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale: essa è necessariamente implicata dalla fede nell'evidenza del divenire, come condizione di possibilità del divenire stesso. Il passato deve essere redento, deve essere riportato nell'ambito della volontà di potenza, perché altrimenti esso - come immutabile - vanificherebbe il divenire, lo renderebbe qualcosa di illusorio; ma la redenzione del passato non può essere la sua modificazione, con il costituirsi di un altro passato, perché ciò amplierebbe solo la dimensione dell'immutabile; dunque, lo stesso passato, in tutte le sue sfumature di contenuti, deve eternamente ritornare così come esso è stato. Il tempo, quindi, non ha uno sviluppo semplicemente lineare, bensì circolare: l'andare in avanti è, insieme, un tornare indietro, perché andando avanti ci si muove - restando in un circolo - verso il punto di partenza. Quindi, ciò che stato non è qualcosa di immodificabile, di eternamente sottratto alla volontà, ma è - all'opposto - qualcosa che ritornerà infinite volte, eternamente, ossia sarà eternamente voluto  così come esso è stato. 
Ritornando eternamente su se stesso, il divenire del mondo - e quindi il mondo stesso - non ha principio né fine, non ha alcuno scopo né alcun senso il cui essere prestabilito ed immutabile vanificherebbe il divenire stesso. L'oltreruomo, conoscendo la dottrina dell'eterno ritorno e volendo l'eterno ritorno, si identifica allora con la dimensione universale della volontà di potenza, essendone la piena consapevolezza: 

In quest'ottica, Nietzsche può parlare di un amor fati: l'oltreruomo vuole ed ama la necessità dell'accadere di ogni cosa, che si ripete all'infinito. La necessità di cui parla Nietzsche è una necessità cieca, irrazionale: gli enti, infatti, non hanno alcun legame intrinseco fra di loro, perché questo legame sarebbe - di nuovo - un immutabile che vanificherebbe il divenire. La necessità nietzscheana è allora la necessità dello stesso ripetersi eterno del caos:

 “ il caos implica la necessità del ritorno eterno del caos, della mancanza di senso del tutto. Appunto per questo Nietzsche scrive che ‘il carattere complessivo del mondo è ... caos per tutta l'eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine’ metafisico-epistemico ” .

Nietzsche - come racconta Andreas-Salomé - avrebbe provato "quell'"indicibile tristezza" per l'avverarsi del pensiero dell'eterno ritorno, e ne avrebbe parlato solo con quella “ voce sommessa e mostrando tutti i segni del più profondo raccapriccio ”. Così la gioia dell'oltreuomo per il proprio eterno ritornare nell'essere "è la maschera inevitabilmente indossata dall'angoscia a cui l'Occidente è destinato. 

Mentre Zarathustra e il nano si trovano davanti alla porta carraia, la porta dell'Attimo dove convengono e da cui dipartono due sentieri da nessuno mai percorsi fino alla fine, il sentiero del passato e il sentiero del futuro, e mentre il Maestro parla e insegna l'Eterno Ritorno dell'Uguale, come in un sogno o una visione, all'improvviso, appare un uomo:

 "Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca".
"Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinti su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e lì si era abbarbicato mordendo.
"La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! Non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi!".
"Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido". Il pastore morse come gli fu gridato e sputò lontano da sé la testa del serpente. Balzò in piedi. Non era più un pastore, tantomeno un semplice uomo ma "un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!".

L'apparizione del pastore, priva com'è di ogni legame e continuità di spazio e tempo con la scena della porta carraia, indica la non-prevedibilità e non-sistemabilità della nuova concezione del tempo che in questo luogo dello Zarathustra si viene affermando.
Il morso al serpente è, invece, l'evento: la decisione con cui il pastore impara ad amare l'Attimo, il luogo, la decisione, in cui l'eterno e il tempo dileguano, vivono.
In parole più povere l'uomo si è liberato, è ora in mare aperto in balìa delle onde della sua libertà. In questa libertà l'uomo che ora è oltre se stesso ri-crea ad ogni passo se stesso danzando liberamente con il caso come il fanciullo di Eraclito che giocando con il caos afferma il cosmo.
L'uomo-che-viene è senza valori perché li trasmuta, senza idee perché le crea: la sua azione è la misura dei valori, il suo pensiero la verità di una vita, di un attimo.
Dio è morto ma la disperazione del vuoto che il divino decesso ha prodotto è vinta da una volontà che si conosce e si accetta come necessità e si libera nel ritorno eterno dell'evento dell'Attimo.
Quando l'uomo si apre al senso della terra la necessità diviene libertà, il nichilismo creatività.