Una breve guida per chi si è perso nel magico teatrino del barocco leccese…
ma non ha più voglia di cercare la strada di casa…


LECCE E LA PIETRA LECCESE

La pietra che il viaggiatore trova al suo arrivo nel Salento nelle mille forme plasmate dall'uomo e dalla natura, nei numerosi menhir e nelle arcane dune pietrificate a picco sul mare delle scogliere adriatiche di Torre S. Andrea, nelle torri di avvistamento degli attacchi turchi delle quali è intervallato l'intero periplo della provincia, è la pietra dei borghi antichi, delle chiese, dei grandi architetti-scultori che dal '500 in poi hanno portato questa "povera" materia prima ai fasti di un teatrino popolato da putti e angeli sorridenti, da cariatidi ed erme, colonne tortili ed infiniti festoni e ghirlande, ed hanno concepito strade come quinte di scena capaci di stupire e stregare lo straniero come un canto di sirene… Questa pietra, che ha dato lavoro quotidiano ad infinite schiere senza nome di maestranze edili ed abili scalpellini, emerge dal suolo salentino che l'ha celata per millenni come un tesoro sommerso dal mare (immagine poco metaforica e molto reale, essendo roccia sedimentaria del fondo marino con frammenti biologici di gusci di animali, sabbia e conchiglie, il tutto rimescolato, compattato e pietrificato). La grana fine, impastata con piccole tracce di argilla e di cristalli di sali un tempo disciolti nel mare, è in effetti poco coesa e facile da scolpire con scalpelli e sgorbie in acciaio temprato, altra cosa rispetto ai marmi ed alle rocce più propriamente calcaree (non parliamo poi dei graniti) che presentano tutti maggiori durezze, sfumature di colore, durata nel tempo, e differenti tecniche, fasi e tempi di lavorazione. Di questi tipi di pietre il Salento è anche produttore, si pensi alle pietre cavate a Surbo, a Soleto ed a Santa Cesarea, ma la più diffusa è senza dubbio la CALCARENITE del Miocene (il "Lecciso" di cui parlavamo), anche nella variante del CARPARO, sfumato nell'arancione, più sgranato e duro. La tessitura dei grani della pietra leccese è qua e là interrotta da presenze fossili (vertebre, ossa lunghe, conchiglie, esoscheletri, denti) e la pietra si presenta in uniformi tonalità chiare senza striature o venature paragonabili a quelle dei marmi e degli alabastri; solo un occhio allenato può "leggere" le tenui linee di sedimentazione o le parti di diversa coesione e durezza rispetto alle altre, dovuta a cedimenti interni o ad azioni di rimescolamento del materiale in tempi progressivi nella storia geologica del giacimento. La composizione stessa del materiale esalta pregi (lavorabilità) e difetti (degradabilità): gli agenti atmosferici che colpiscono meccanicamente le superfici esterne (pioggia, grandine, accumuli di neve) infieriscono particolarmente sulle parti più scolpite ed esposte, minando la coesione stessa dei grani (già provata dalla pressione acustica dei rumori cittadini); agenti fisici naturali come l'umidità di risalita dal terreno o la persistenza dell'acqua nella pietra per fenomeni di capillarità, privano la pietra dei composti solubili, indebolendo la struttura stessa. Ben più grave e da mettere sotto accusa è il danno causato dallo smog: i gas incombusti di auto e moto e soprattutto la presenza di anidride solforosa o solforica nell'aria, il fenomeno noto come pioggia acida, muta i carbonati, estremamente duri, in solfati (quindi in gesso…); inoltre la presenza di ossido di carbonio muta i carbonati in bicarbonati, estremamente solubili: è così che quello che era sopravvissuto a 3, 4 secoli e più, è stato spazzato via quasi a vista d'occhio. Quelli descritti sono i processi che portano all'alveolizzazione e/o allo sfaldamento per piani paralleli della pietra, che si possono facilmente osservare ovunque. Ben altro il discorso della brunitura naturale della pietra, dovuta a processi di ossidazione e di crescita ed essiccamento di vegetazione crittogamica di alghe, funghi e licheni, che protegge dal degrado la superficie coperta e dona una piacevole patina d'antico.
Francesco Vitiello