Gaetano Vergara. Homo sum, humani nihil a me alienum puto

Tutto ciò che è umano ha una logica umana che è anche la mia logica. Tutto, anche le azioni più irrazionali infime e aberranti, sono anche le mie azioni. Homo sum. Nulla, nulla dell’uomo mi è estraneo. L’umanesimo della ragione non è così lontano dall’umanità delle viscere. L’uomo a venire è ancora e anche l’uomo della pietra; ogni scienza contiene una coscienza; ogni gesto buono una carica distruttiva; e ogni violenza una tensione d’amore, una carica affettiva, passionale, erotica. Ecco perché ti ho violentata, ieri.

Eri così dolce e mansueta, così disponibile verso questo cliente tanto difficile da soddisfare. E poi trovavo eccitante che fossi venuta nella mia casa di scapolo impenitente e insoddisfatto per razionalizzarmi gli spazi e rendere accogliente la mia solitudine. Per un attimo ho immaginato di essere il tuo sposo promesso. Pensavo che fossimo impegnati a progettarci il futuro, a scegliere dove avremmo fatto colazione, dove avremmo dormito e fatto l’amore, quali erano le stanze destinate ai bambini e al nostro studio, in che luogo ci saremmo riposati e dove avremmo ceduto all’ozio dei sensi.

L’uomo dell’attico dell’ultimo piano della metropoli di cemento e grattacieli vive ancora rintanato nel buio delle caverne della nostra coscienza.

Quando ti sei abbassata a disegnare con le mani sinuose l’angolo in cui avresti messo un camino per rendere più caldo e accogliente il freddo solitario dei miei inverni, ho smesso di vederti il collo e le mani e ho cominciato a sentire le tue natiche strusciarsi tra le mie cosce. Tu continuavi a parlare e a spiegare non so bene che cosa sui colori del pavimento, le luce sulle pareti e i parati da buttare via. Ma la tua voce risuonava lontana. Un’eco distante fuori dalla caverna dei sensi in cui mi ero rintanato a scrutare il desiderio crescermi dentro. Cercavo di contenermi. Ma più mi concentravo nello sforzo, più regredivo allo stadio animale che mi ha spinto a saltarti addosso come su di una cagna ritrosa. All’inizio sei rimasta muta e immobile. Io, per un attimo, sono ritornato alle mie facoltà razionali per pensare che forse avrebbe potuto fare piacere anche a te una botta di vita e via. Ma poi hai cominciato a dimenarti cercando di sfuggire alla mia presa, e ogni tuo movimento faceva crescere in me l’ansia di possederti, di sentirti gridare stretta tra le mie braccia, di vedere annullata ogni tua facoltà e volontà residua. Volevo sentire anche te schiava del desiderio che mi aveva rapito librandomi oltre ogni margine e scaraventandomi fuori dalla realtà. Volevo fare di te un prolungamento del desiderio che scoppiava al centro del mio corpo.

Sarebbe stato bellissimo, se tu non mi fossi svenuta tra le cosce. Sei caduta con le braccia al suolo tramortita mentre ti venivo troppo presto sulla schiena. Mi sono arrabbiato. Sono impazzito dal dispiacere. Il desiderio frustrato si è trasformato in un’ira montante che si è scaraventata sul tuo corpo privo di sensi sotto forma di calci pugni e pedate sulla faccia sulle gambe e sul culo. Poi ti sono caduto addosso e ho cominciato a piangere come un bambino. Ti ho baciato e leccato una ad una le ferite dal collo alle gambe e alla schiena. Tu eri riversa ancora immobile sul pavimento mentre tra le lacrime scorreva via la mia follia. Mi sono reso conto di aver compiuto un gesto bestiale e aberrante. Ho avuto paura che avresti potuto denunciarmi; mi avresti rovinato, avresti distrutto la mia vita tranquilla di scapolo impenitente e solitario.

Ti ho messa sulla sedia su cui sei seduta, ti ho legata con la corda con cui sei legata e ti ho ripulito le ferite amorevolmente come alla figlia che avrei voluto avere e che non ho. Poi ho pensato di ammazzarmi o di ammazzarti. Ma non ne ho avuto il coraggio. Sono una persona troppo perbene, per fare certe cose. Non vorrei mi prendessi per quello che non sono. Io sono solo un uomo, nulla, null’altro che un uomo solo.

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