Croce

 

Politica e morale: un'antinomia

di Benedetto Croce

Il Machiavelli si trovò dinanzi l'antinomia di politica e morale, resa acuta dal tramonto del dominio che la dottrina della chiesa cattolica aveva mantenuto per secoli, facendo della politica un capitolo della morale, e, quando diverge dai precetti della morale, considerandola come male. Ed egli ardì asserire che la politica non è né la morale né la negazione della morale, cioè il male, ma ha l'esser suo positivo e distinto come forza vitale che nessun'altra forza può abbattere e nessun raziocinio cancellare, come non si vince e non si cancella ciò che è necessario.

L'importanza di questa asserzione del Machiavelli è dimostrata dal duplice ed opposto sentimento col quale fu accolta: da una parte, di soddisfazione della verità, onde la politica veniva trasferita dalla oscurezza della pratica e dalla perplessità dei giudizi alla luminosità della teoria, e, dall'altra, come di un sospetto, una riluttanza, una paura e un conseguente scongiuro al veder sorgere accanto alla morale una forza che non è la sua, non messa da lei al mondo e che pareva capace di sopraffarla. [ ... ]

Ma anche lo sbigottimento e l'orrore e gli scongiuri contro quella dottrina, che si acuirono nella accusa di empietà e di malvagità lanciata al Machiavelli, si convertiranno in un giudizio di verità se si riconosce che l'affermazione di lui sul valore positivo e originale della politica e delle leggi che la governano bisognava che fosse messa in armonia con la pari positività e originalità e con l'autonomia dell'altro termine della diade, la moralità, perché questo era il nuovo problema che si apriva col Machiavelli, non potendosi tornare indietro da lui e considerare la politica come una specificazione o una parte dell'etica stessa, o come il male, l'azione del diavolo: che è ancora oggi la teoria che si scodella agli scolari dai cosiddetti filosofi cattolici, (il cui limite è in questo aggettivo posto al sostantivo di filosofo, che non patisce aggettivo di sorta al pari di quello di poeta che è sempre secundum poesim e non secundum aliud). Né la positività della coscienza morale poteva essere più abolita dopo il cristianesimo, né quella della politica dopo il Machiavelli. E il Machiavelli non solo non negò la morale, ma fu egli stesso una delle più alte e dolorose anime morali che la storia ci faccia conoscere, e anelò e cercò sempre l'attuazione della moralità nel mondo, e le maledizioni di cui fu oggetto accrescono soltanto l'aneddotica dei calunniati da coloro che non sanno quello che si dicono.[…]

Il Machiavelli, dunque, non sacrificò la morale alla politica, ma dell'una e dell'altra ammise l'autonomia, e quello che in lui manca è l'esigenza di mediare le due autonomie, che non si potevano lasciare l'una accanto all'altra, l'una come una realtà da accettare, l'altra come un desiderio insoddisfatto ma fondamentale e inestinguibile quale fremeva nel suo petto e si manifesta in molte sue ardenti espressioni. Fu questo il suo errore? lo esiterei nel rispondere «sì» a questa domanda, perché temo che questo «sì» involgerebbe tutti i filosofi, perché ogni filosofo tratta certi problemi e non riesce a trattarne altri, e tanto meno il Machiavelli che non fu uomo dedito tutto alle indagini teoriche, ma di affari e di azione e a cui l'azione fu portata via e che di ciò non si consolò mai né mai vi si rassegnò. Egli aveva fatto bene la sua parte di lavoro: non gli si poteva chiedere che ne facesse un'altra, che non propose a sé stesso.

 

 

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