L'Ulisse di Dante
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Quando il sapere non è un valore assoluto:  

il "folle volo" di Ulisse

Nell'immaginario dell'uomo moderno la figura di Ulisse è il simbolo della ricerca del sapere, di colui che instancabilmente cerca nuove strade e sposta in continuazione i traguardi di quel suo inarrestabile e metaforico viaggio verso ciò che è ancora sconosciuto. Difficilmente l'uomo moderno, ancor più l'uomo del secolo appena trascorso e di quello presente, trova elementi negativi nell'impresa di Ulisse alla ricerca del sapere, e se problematiche etiche si pongono ancor oggi allo scienziato in ordine ad esempio alle questioni della manipolazione genetica, è però altrettanto vero che  per noi la conoscenza è un valore comune ormai acquisito e fortemente interiorizzato.

La libertà di ricerca e di pensiero è una realtà indiscussa, non esistono più tribunali, nemmeno immaginari, che mettano in discussione il sapere. Le nuove frontiere raggiunte dalla conoscenze stimolano spesso dibattiti accesi e spesso preoccupati sulle conseguenze della realizzazione tecnica delle scoperte scientifiche, ma  questo è il frutto inevitabile e legittimo del rapporto etico che l'uomo ha con la realtà.

Dante, invece, non è un uomo moderno, appartiene fortemente all'epoca in cui è vissuto, è cioè un uomo del medioevo, il suo pensiero è fortemente radicato a quella realtà.

Dante condanna Ulisse all'Inferno nell'ottava bolgia, tra i consiglieri fraudolenti, ma quello che emerge con maggior forza nel canto XXVI è il racconto  dell'ultima, estrema impresa di Ulisse: il "folle volo" oltre le Colonne d'Ercole.

Ma qual è la discriminante che ci separa l'uomo moderno da Dante e dagli uomini del suo tempo?

Innanzi tutto Dante non è un uomo "copernicano",  la sua visione cosmologica  gli impone un'immagine dell'Oceano profondamente diversa da quella  che più tardi le scoperte geografiche avrebbero offerto. Per lui l'Oceano non è l'ignoto da scoprire, non è la possibile via di comunicazione con i mercati orientali,   per Dante oltre le Colonne d'Ercole c'è il mondo sanza gente (Inf. XXVI; 117), la parte del globo terrestre negata ai viventi, dove l'unica terra emersa è la montagna del Purgatorio. L'impresa di Ulisse rappresenta quindi per il poeta medievale la violazione delle leggi divine. Dante, allora, non poteva supporre che non molti anni dopo la sua morte l'Oceano al di là delle Colonne d'Ercole sarebbe stato navigato e che in Europa si sarebbe presto diffusa la notizia della scoperta delle Canarie.

Se la concezione cosmologica medievale ci aiuta a capire l'immaginario dantesco per quanto riguarda l'ultimo viaggio di Ulisse, un altro elemento importante ci può aiutare a comprendere la condanna di Dante nei confronti di Ulisse.

Mentre per il lettore moderno il nome di Ulisse rimane legato all'Odissea di Omero, è importante sottolineare il fatto che Dante non potè conoscere i poemi omerici e Ulisse è per lui un personaggio conosciuto attraverso le opere latine di Stazio, Ovidio  e Virgilio. Questa precisazione sulle fonti a cui Dante ha attinto per conoscere la figura di Ulisse non è una pura curiosità filologica, in quanto è anche di tale mediazione che risente la condanna di Dante nei confronti di Ulisse. Motivo costante nelle opere latine degli autori citati è infatti l'evidente simpatia per i Troiani, progenitori dei Romani, e l'avversione per i Greci perfidi e falsi che hanno incendiato e distrutto Troia. Per Dante ciò che era narrato nell'Eneide da Virgilio (l'assedio di Troia, il viaggio di Enea, l'aiuto del Cielo all'eroe troiano, la sua discesa all'Inferno) erano fatti storicamente avvenuti. E se tutti i Greci erano perfidi, Ulisse rappresentava il simbolo dell'empietà e della scelleratezza.

Un'altra importante considerazione si impone a questo punto per comprendere maggiormente la posizione dantesca rispetto all'astuto Ulisse: nel medioevo cristiano l'aggettivo sapiente non implicava un giudizio morale necessariamente positivo ed era importante, se non indispensabile, distinguere tra vera sapienza e vana sapienza, cioè tra la sapienza che si rivolgeva a Dio e quella invece che aveva come come fine le cose terrene. Per l'uomo medievale è fondamentale stabilire il valore positivo o negativo della conoscenza, il fine cui essa tende. E allora a qual fine tende il desiderio di conoscenza di Ulisse per Dante?

La sapienza, se non è rivolta a Dio, è stoltezza, è superbia e quindi Ulisse non si trova tra coloro che seguirono le giuste vie della sapienza, ma è dannato nelle Malebolge.

L'orazione di Ulisse ai compagni, nonostante muova da un desiderio di perfezionamento della natura umana (fatti non foste per viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza), è  per Dante un consiglio fraudolento, in quanto la virtù può esercitarsi solo nell'osservanza delle leggi divine e nel riconoscimento dei limiti posti alla conoscenza umana.

Nonostante tutto questo Dante non nega a Ulisse una comprensione umana che nell'Inferno aveva già riservato a Francesca e a Farinata, nel senso che la sua è una condanna sofferta perché sente quel che di grandioso vi può essere nell'impresa di Ulisse.

 

 

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