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Unicef

Siamo giunti in fine alla mattina dell’ultimo giorno di permanenza in Rwanda…
Secondo il programma tutta la delegazione avrebbe dovuto visitare il progetto Unicef a Kigali,ma poiché le jeep messe a disposizione non erano sufficienti, si decise che ciascuna scuola avrebbe scelto un alunno da mandare. Per il Majorana ero stato scelto io, Francesco Porcaro, e così quella mattina mi trovai alle ore 8 dentro la jeep pronto per l’incontro. Durante il tragitto verso il centro, che si trova su una delle “mille colline” di Kigali, i responsabili dell’Unicef ci consegnarono un opuscolo che parlava degli scopi che ha l’Unicef nel paese. Nell’autovettura c’era anche una mini-troupe di giornalisti i quali portavano con sé delle caramelle che lanciavano hai bambini mentre salivamo la collina… ancora quella spiacevole sensazione pensai, Da una parte non c’era cosa più struggente e gratificante che vedere un bambino che sorrideva quando riceveva dei doni, che fossero caramelle,bottiglie di plastica (la famosa agachuppa) o qualsiasi altra cosa, dall’altra però ogni loro sguardo di gratitudine mi faceva sentire un benefattore che da dentro una grande macchina gettava briciole della sua felicità, tale sensazione cresceva sempre di più fino a trasformarsi in una domanda orrenda… eravamo ancora colonizzatori???
Mi sentii un po’ triste e sulla mia faccia si era stampato un sorriso stereotipato, una maschera che avrei tenuto fino al momento in cui scendemmo dalla jeep.
Un grande striscione celebrava il nostro arrivo… poiché era in francese non ci capii molto però mi spiegarono che era colmo di ringraziamenti… appena messo piede fuori dall’auto, avendo circa una mezz'ora d’anticipo rispetto al resto del gruppo (eravamo stati i primi ad arrivare), ci tuffammo in mezzo a i bambini che ci aspettavano con espressioni tra sorpresa e timore.

Grazie all’intuizione di un’amica, per rompere il ghiaccio, presi la telecamera e girai il display verso i bimbi che in questo modo si vedevano ripresi… fu il momento della giornata che mi segnò più di ogni altro. I bambini cominciarono a ridere, a muoversi, a scherzare con la loro immagine riflessa, mi facero cenni di assenso, divertiti da quel gioco strano, mai visto e mai provato. Anche io mi divertii a cercarli tutti a non dimenticare nessuno, anche quelli che ancora erano intimiditi. Si possono dare tante interpretazioni antropologiche di questo episodio ma io lo ricordo nitido per un solo motivo: stavamo giocando insieme e insieme ci divertivamo.

Dopo alcuni minuti io e un giornalista vedemmo più in alto rispetto a dove avevamo  parcheggiato un gruppo di ragazzi dai capelli rasati (come la stragrande maggioranza dei bambini) vestiti con delle divise blu che giocavano a pallone… uno dei pilastri su cui si fonda l’operato dell’Unicef in Rwanda è proprio lo sport, inteso come mezzo per  creare amicizie, divertimento, unione tra gli individui, motivo per stare insieme. Incuriositi ci avvicinammo, erano scalzi… è più corretto dire scalze… perché la squadra era femminile!!! La notizia data da un’altra giornalista ci sbalordì… “Caspita sono pure forti!”  aggiunse il mio compagno… dopo un reciproco cenno d’intesa, dopo che che ci era arrivato un passaggio, ci buttammo nella mischia. Anche qui mi divertii e mi affaticai moltissimo  ma c’era in  me un sentimento di profonda gioia che in qualche maniera mi faceva sentire realizzato, parte di qualcosa di importante… non so come esprimermi meglio, posso solo dire che ho provai una comunione incredibile con tutto quello che mi circondava.
Dopo un po’ arrivarono tutti glia altri e così iniziammo a visitare il centro, il quale era formato da 2 edifici principali adibiti a scuole elementari, 1 campo da calcio,  1 da pallavolo, e un bagno con 15 latrine.

Dentro le scuole i bambini attenti seguivano le lezioni impartite da maestri che, ci hanno spiegato, sono abitanti di kigali che hanno frequentato corsi professionali per insegnare. Ogni classe formata in media da circa 50 alunni seguiva lezioni di ogni genere: da scienze a italiano, da matematica a disegno.

Sulle pareti c’erano decine di cartelloni coloratissimi che testimoniavano il lavoro svolto durante l’anno esattamente come una scuola da noi pensai….  L’importanza così rilevante delle scuole è che i bambini ricevendo un grado anche minimo di istruzione possono più facilmente costruirsi un futuro. Il motto dell’unicef sembra essere “scuola e sport” semplice ma efficacissimo per risollevare l’infanzia di migliaia di ragazzi.

Una volta usciti dalle strutture un nutrito gruppo di piccoli intonò alcuni canti preparati per l’occasione. L’ultima parte della visita stava per iniziare: la federazione nazionale italiana di rugby aveva portato del materiale(palloni, magliette,pantaloncini) da distribuire… appena sentii il verbo distribuire automaticamente si innestò  in me il sorriso stereotipato accompagnato dalla solita domanda che mi eclissò gran parte della gioia dei bimbi in quel momento, tuttavia cercai di non accentuare troppo queste mie sensazioni perdendomi nei loro abbracci questi si,davvero sinceri. Dopo i discorsi del sindaco di Roma, delle istituzioni, del comitato dell’Unicef, i bambini vennero da noi prima che ce ne andassimo definitivamente e ci portarono dei regali fatti da loro, la commozione generale era stata forte, sentii più di un ragazzo dire ”Vabbè senti questo è troppo io mi sento in debito mi sa che rimango qui e a Roma torno fra qualche tempo…” effetivamente anche io provai un po quella sensazione… volevo rimanere a dare una mano… Che c’è da fare scavare un pozzo? Ok mi rimbocco le maniche e andiamo… forza dobbiamo lavorare! Bisogna fare qualcosa! Sulla strada del ritorno guardai quei doni a cui tenevo davvero molto: una piccola sedia di legno, una palla fatta con le foglie secche di banana, un piccolo strumento a corde… autentici capolavori di impegno e dedizione… bellissimi.
Ritornati in albergo preparammo i bagagli; la sera, dopo una visita al centro Papuk, si sarebbe tornati a casa, malinconici,  ma pieni di voglia di fare, di ricordare, di costruire.

Francesco Porcaro VD