L'origine della parola
Trekking pare sia Sudafricana e risale al tempo in cui i nobili immigrati olandesi,
furono scacciati dagli ancor più nobili portatori della fede nella corona Britannica.
Le impronte lasciate dalle ruote dei carri olandesi, i quali democraticamente
partivano per cercarsi altre terre da (ri)espropriare e (ri)occupare, erano
chiamate Trek (?). Non chiedeteci perché! Forse era semplicemente lo scricchiolante
rumore delle ruotacce dei loro poveri carri.
D'altra parte la parolaccia che ci ritroviamo ormai è questa.
Il Trekking e' un'attivita'
abbastanza recente, per raccontarla, basta cominciare dalla preistoria:
Gli uomini cosiddetti primitivi, erano gia' esperti di trekking. Per seguire le
loro prede nella caccia, avevano imparato a fare dei lunghi spostamenti a
piedi.
E da li', popoli che nomadi lo sono rimasti per scelta, come i tuareg; fino
agli antichi romani, che per permettersi le loro conquiste, erano diventati dei
veri esperti di "backpacking" (da ...portarsi tutto sulla schiena!);
pensate ai problemi logistici nello spostare in giro per l'Europa ed il
Medioriente, migliaia di valorosi centurioni!
Criticate pure lo spirito delle loro conquiste, ma ringraziateli per i nostri
Appennini ancora ricoperti da bellisimi boschi di castagno, che a loro
servivano per sfamare le truppe, e fino a poche decine di anni fa sono serviti
per sfamare generazioni di abitatori delle nostre montagne.
Finita la loro era, comincio' un periodo dove per noi europei, fare del
trekking non era la cosa piu' raccomandabile…..
…. Erano arrivati i Barbari, maestri della specialita' "a cavallo"!
Ci rinchiudemmo tra le mura delle nostre citta', trasformate in fortezze
medievali e per lungo tempo gli unici spostamenti erano quasi esclusivamente di
carattere religioso, ovvero i pellegrinaggi ( da "pellegrina", il
mantello con il quale i ...pellegrini si riparavano dalle intemperie,
....ancora non c'erano le giacche in goretex!).
Al lento rifiorire della nostra civilta' corrispose una nuova voglia di
spostarsi e viaggiare, dapprima con motivazioni commerciali, pensate a Marco
Polo, piu' avanti, con motivazioni scientifiche ed esplorative.
Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando si e' cominciato a fare trekking
senza un fine pratico, ma per il solo piacere di farlo.
Trekking è camminare per conoscere, vivere e leggere l’Ambiente intorno
a noi, imparando a rispettarlo, a vivere in armonia con esso, lavorando quindi
anche per far crescere una mentalità nuova, che porti ad un maggiore equilibrio
tra l’Uomo e la Natura.
Prima di intraprendere una qualsiasi
escursione, è importante avere conseguito un adeguato allenamento, essere
dotati dell’equipaggiamento necessario e se non si conosce la zona, studiare
preventivamente il percorso con l’aiuto di carte e guide.
Camminare è talmente fisiologico per cui si
può affermare che è l’unica attività perfettamente equilibrata per il nostro
fisico.
Nell’escursionismo, come in ogni altra attività che presuppone un serio
utilizzo del fisico, è fondamentale abituare gradatamente il corpo agli
sforzi che dovrà produrre. Il trekker, in modo particolare quello che
inizia dopo un lungo periodo sedentario, dovrà preoccuparsi di acquisire
soprattutto resistenza, e di irrobustire i muscoli del corpo, in modo
particolare quelli delle gambe, che sono sottoposti ai maggiori sforzi. A
questo scopo è bene cominciare con semplici passeggiate, per aumentare poi
progressivamente la lunghezza del percorso.
Al semplice camminare si potranno alternare allenamenti per aumentare la
resistenza di base, consistenti in corsa lenta, della durata iniziale di 10
minuti per arrivare poi, gradatamente, a 30/40 minuti. Questo aiuterà a
preparare il corpo ed anche ad avere una buona respirazione, ritmata alla
velocità dei movimenti eseguiti. Anche la bicicletta consente un valido
allenamento, potenziando i muscoli delle gambe senza gravare eccessivamente
sulle articolazioni del ginocchio e della caviglia e senza stancare i piedi.
Nelle prime passeggiate di allenamento, è consigliabile anche indossare uno
zaino leggero e camminare da pochi minuti la prima volta, fino a qualche ora.
L’importante è procedere con passo lento, che permetta anche di osservare
l’ambiente, soffermandosi ogni tanto, quando la fatica si fa sentire, per
recuperare lo stato di equilibrio fisico eseguendo delle profonde respirazioni
(più lunga la fase espiratoria) e permettere una ossigenazione più rapida del
sangue.
L’allenamento diventerà naturalmente più impegnativo se si deciderà di fare un
trek di più giorni, magari anche dormendo in zone non attrezzate con rifugi: lo
zaino, contenendo tenda, sacco a pelo e cibi, diventerà allora più pesante.
l segreto per coprire grandi distanze è un
ritmo costante, senza strappi, arresti o partenze improvvise, dettato dal
proprio allenamento e dalle proprie capacità fisiche. Ecco perché
ognuno dovrebbe abituarsi a sviluppare un proprio ritmo di marcia. All’inizio
dell’escursione bisogna imporsi un passo moderato così da scaldare progressivamente
i muscoli e superare senza danni la parte più dura: la prima ora di cammino.
Si deve adottare sempre un ritmo di marcia coordinato con quello della
respirazione, evitando le lunghe pause perché, oltre a danneggiare la
muscolatura, causano un nocivo raffreddamento generale del corpo.
Quando si cammina il corpo deve rimanere verticale, con il baricentro
perpendicolare ai piedi; in discesa e in salita anche leggermente inclinato in
avanti. Non bisogna sbilanciarsi all’indietro: è il movimento migliore per
scivolare.
In un’ora si superano mediamente 300-400 metri di dislivello in salita
a passo costante e con rare fermate.
Durante la marcia è utilissimo l’utilizzo dei bastoncini telescopici, che
aiutano a scaricare il proprio peso e quello dello zaino su quattro punti
invece che solo sulle gambe. Contribuiscono inoltre ad aumentare l’equilibrio e
preservano le articolazioni.
Chi si cimenta per la prima volta in un trekking ha
bisogno di un accompagnatore già esperto.
Sconsigliamo di andare da soli, anche se si possono trovare lungo il percorso
gruppi a cui aggregarsi: bisogna essere almeno in due; piccoli gruppi di tre
quattro persone possono essere la soluzione ideale, soprattutto se composti da
individui di pari resistenza e preparazione. Essere di più fa nascere spesso
problemi di vario tipo, sia a livello di concezione della vacanza all’aria
aperta, sia al momento di trovare materialmente alloggio nei rifugi o nelle
pensioni in periodi di punta estivi.
Se non si trovano amici disposti a partire e si vuole andare in compagnia, ci
si può rivolgere alle diverse associazioni escursionistiche che organizzano
escursioni e camminate per ogni livello di esperienza e per ogni gusto.
E’ indispensabile, prima di
partire, studiare il percorso su libri, carte e guide, in vendita presso le
librerie specializzate sulla montagna, o presso associazioni, enti locali, cooperative
ed organizzazioni di trekking locali.
La carta topografica è un disegno che rappresenta con segni
convenzionali un’estensione di terreno, proprio come si vedrebbe, in maniera
schematica, guardandola verticalmente dall’alto.
Saper leggere la carta topografica è molto importante, perché da questa
si possono desumere dati e caratteristiche del percorso, fondamentali per
graduare e programmare le escursioni.
Il rapporto tra le reali dimensioni del terreno e la rispettiva
rappresentazione grafica, si chiama “scala”.
Se la scala di una carta è, per esempio, 1:50.000, significa che le dimensioni
riportate sulla carta sono 50.000 volte più piccole che quelle reali sul
terreno.
Tra i segni convenzionali adottati nelle carte topografiche meritano particolare
attenzione le curve di livello, specialmente in funzione delle escursioni in
montagna.
Esse sono delle linee che
uniscono tutti i punti del terreno situati ad uguale altezza. Una semplice
occhiata alle curve di livello fornisce un’idea sulla configurazione del
terreno, poiché le curve sono più fitte nelle pendenze rilevanti e viceversa.
La scala ideale per le carte che si usano nei
trekking è l’1:25.000.
L’1:50.000, è poco dettagliata, ma in
compenso copre una zona molto più estesa, ed è consigliabile solo se i sentieri
sono ben marcati sul terreno (con segnaletica, tabelle ecc).
La maggior parte dei
sentieri, in Italia, è segnata con un’adeguata segnaletica e ciò facilita molto
l’individuazione del percorso.
ll segnale a bandierina
rosso-bianco-rossa è il più utilizzato in campo internazionale. In
effetti, il rosso e il bianco sono colori ideali per i segnavia, ben visibili
in ogni stagione. Non mancano però - creando confusione all’escursionista -
numerosi altri tipi di segnaletica: c’è infatti un ricchissimo campionario che
va dai simboli aritmetici (=, +, -) e geometrici , alle figure di animali, a
complicati simboli grafici, e ai vari colori. E’ pertanto auspicabile che si
giunga al generale utilizzo della bandierina rosso-bianco-rossa.I
segnavia possono essere sassi dipinti, in terreno roccioso, o tabelle di legno
poste su alberi, o paletti di legno conficcati nel terreno, in modo da essere
sempre ben visibili. E’ facile trovare, soprattutto su pietraie e
sentieri poco battuti, mucchietti di pietre, (ometti), messi ad indicare il
percorso migliore. Attenzione, non sempre portano dove vogliamo andare noi!
TEMPI DI MARCIA
Per calcolare con discreta approssimazione il tempo necessario per
portare a termine un percorso escursionistico senza neve, si può usare il
seguente metodo:
·
prima
si misurano sulla carta, con un decimetro, le distanze in linea d’aria;
·
si
calcola 1 ora di cammino per percorrere 4 chilometri;
·
per
superare un dislivello in salita di 300 metri occorre 1 ora;
·
per
ogni ora di cammino si considera un quarto d’ora di riposo.
La lettura della carta e
l’utilizzo di strumenti complementari (bussola e altimetro) permettono di orientarsi,
cioè di stabilire la propria posizione rispetto ai rilievi del terreno, agli oggetti
riportati sulla carta topografica e ai punti cardinali.
La bussola, è costituita da una placchetta trasparente sulla
quale è fissato un quadrante rotondo, girevole e graduato che contiene un ago bicolore
d’acciaio, imperniato e immerso in un liquido stabilizzante.
L’ago è magnetizzato in modo da indicare, se messo orizzontale, il Nord con la
sua punta rossa.
Intorno al quadrante c’è una corona graduata sulla quale sono indicati i punti
cardinali.
Il liquido contenuto nel quadrante stabilizza l’ago impedendogli di tremolare
dopo aver raggiunto la posizione.
Solitamente la placchetta è corredata da un cordoncino che serve per migliorare
l’allineamento dello strumento quando si traguarda la direzione da seguire e
sul lato opposto, di una freccia.
Alcuni tipi di bussola sono da evitare assolutamente:
·
quelle
senza liquido stabilizzatore, perché sono imprecise
·
quelle
che hanno all’interno una bolla d’aria, perché possono non essere esatte
·
quelle
non montate su un supporto trasparente, perché nascondono parte della carta su
cui sono appoggiate.
Sulla carta il Nord è sempre
in alto e i nomi sono scritti orizzontalmente,
permettendo quindi, un facile orientamento della cartina con la bussola.
Per orientare la cartina bisogna ruotare la ghiera del quadrante della bussola
fino a far corrispondere il Nord alla freccia di direzione, poi allineare il
bordo della bussola al margine o al reticolo della carta. A questo punto non
resta che girare la carta finché l’ago magnetico non si ferma sul Nord indicato
sul quadrante.
LA MIA ROTTA
Fuori dei sentieri, nei boschi, su terreno innevato, ma soprattutto
quando la visibilità è ridotta, bisogna esser capaci di procedere utilizzando
l’angolo di rotta” o azimut.
L’azimut è determinato dalla direzione del luogo da raggiungere rispetto al
Nord.
Naturalmente bisogna sapere dove ci si trova sulla carta!
L’angolo di rotta si stabilisce in tre tempi:
1. Allineate sulla carta la bussola con la direzione di marcia (punto
di partenza --> punto di arrivo); la vostra posizione rappresenta il punto
di partenza (lato dov’è agganciato il cordoncino), mentre la freccia che indica
la direzione è rivolta verso la vostra destinazione.
2. Lasciando il supporto della bussola fermo, fate girare la ghiera
finché il Nord del quadrante non corrisponde con il Nord della carta.
Trasferite ora il tutto sul terreno.
3. Per fare questo, prendete la bussola in
mano senza toccare la corona. Tenendo il lato del cordoncino verso il petto, girate
su voi stessi fino a far coincidere il nord della ghiera con la punta rossa
dell’ago che indica il Nord.
Davanti a voi avrete la direzione da seguire.
DOVE MI TROVO?
Ci troviamo in mezzo ad un
bosco, abbiamo la bussola, la carta ma non sappiamo dove siamo. Per stabilire
la propria posizione si usa un procedimento che si chiama triangolazione (o
rilevamento retrogrado).
Per metterlo in pratica occorre stabilire due punti noti ( Es: a sinistra delle
case e sulla destra un lago), quindi guardatevi intorno e cercate due riferimenti
inequivocabili e poi individuateli sulla carta.
Puntiamo la freccia di direzione verso il nostro punto di riferimento, giriamo
il quadrante finché freccia di orientamento e ago magnetico coincidono.
Rimettere la bussola sulla carta in maniera che uno dei lati lunghi passi per
il puntoscelto e, facendo perno su questo, giratela fino a quando i suoi meridiani
coincidono con quelli della carta.
Adesso tracciate una linea Ripetete lo stesso procedimento con l'altro punto,
l'incrocio delle due linee corrisponde alla vostra posizione. Se proprio volete
essere pignoli, potete scegliere un terzo punto tra i due precedenti e
verificare che la linea tracciata alla stessa maniera di prima si incontri con
l'intersezione delle altre due.
Camminando con la bussola bisogna controllare il percorso: fare una stima delle
distanze, cercare di riconoscere le caratteristiche del paesaggio, della
vegetazione e del terreno, misurare i dislivelli, verificare sempre che la
realtà corrisponda alle indicazioni della carta.
Tenete presente che finché non avrete imparato ad usarle, carta e bussola
non vi saranno di alcun aiuto, dopo che vi sarete persi!!!
L’altimetro è, in montagna, uno strumento molto utile.
Ne esistono in commercio di due tipi:
·
Meccanico, costituito da un quadrante circolare, con una lancetta imperniata al
centro che indica al quota e la pressione barometrica.
·
Elettronico, con lettura digitale, spesso inserito in orologi da polso. Oltre a
fornire la quota, indica anche i dislivelli parziali e totali percorsi e una
serie notevole di informazioni più o meno utili. I migliori hanno
un’indicazione della quota con un’approssimazione di 5 metri.
L’altimetro è un barometro tascabile che misura la pressione
atmosferica e al contempo permette di conoscere al quota a cui ci si trova.
Va sempre tarato con la quota di punti
conosciuti,
indicata sulla cartina o rilevata da indicazioni esterne (es. cartelli
stradali). Infatti, in caso di variabilità di tempo, lo strumento potrebbe
indicare quote superiori o inferiori secondo le variazioni di pressione
atmosferica.
Fornendo una dato preciso sulla quota, l’altimetro è utile per individuare,
insieme alla carta topografica e alla bussola, la propria posizione.
Per esempio se ci si trova su un certo crinale, ma senza sapere esattamente in
che punto, l’altimetro fornisce la quota, facilmente individuabile sulla mappa
grazie alle curve di livello.
Analogamente si potrà trovare la propria posizione sul fondo di un vallone,
mentre su terreni poco rilevati o pianeggianti l’altimetro non fornisce
elementi utili all’orientamento.
· Scegliere il percorso
consultando libri, guide e carte topografiche, tenendo conto delle caratteristiche
oggettive del luogo dove andremo (boschi , prati, pietraie, nevai, torrenti)
· Ricercare la via più facile,
anche se non è la più breve
· Prevedere un percorso
alternativo, nel caso si sia costretti ad abbandonare quello principale
· Ricavare tutte le
informazioni utili dalla lettura della carta: tempi di percorrenza, passaggi
delicati, dislivelli
· Tracciare a matita
l’itinerario sulla carta
· Tracciare uno “schizzo di
rotta”, rilevando gli azimut tra i punti identificabili lungo il percorso e
riportandoli sull’apposita tabella, assieme a tutte le altre indicazioni utili
(dislivello – distanza - tempo – quote)
Molti passi avanti sono
stati fatti negli ultimi anni in questo settore. Si è cercato di soprattutto di
realizzare una scarpa più leggera possibile senza perdere in robustezza e
resistenza.
Lo scarpone può essere “costruito” con diversi materiali, si va dal cordura al
più classico cuoio e alla più rivoluzionaria plastica ( tutte le scarpe possono
avere degli inserti di materiale traspirante/impermeabile , GORETEX – SYMPATEX
ecc.).
Importante anche la suola, della quale esistono numerosi modelli, con
battistrada più o meno scolpiti ( Vibram – Skywalk).
Nella parte posteriore della suola sono inseriti “polimeri” e cuscinetti d’aria
per attutire l’impatto del tacco col terreno, dissipando l’energia d’urto e
riducendo i rischi di infiammazioni ai tendini, i carichi gravanti sull’anca e
sulla schiena e l’affaticamento generale.
Molte pedule adottano comodi plantari anatomici intercambiabili, igienici e
asciugabili in tempi brevissimi.
Nelle pedule per il moderno escursionista, il vecchio scarpone da
montagna non si ritrova più, neppure nei lacci.
Comunque c’è chi lo preferisce, sostenendo ancora che la scarpa deve essere
“bella solida e pesante”, altrimenti non è buona. E’ un convincimento
sbagliato, o perlomeno molto relativo. Se lo scarpone da 1,5 chilogrammi va
bene in alta quota, su neve e ghiaioni, è da ritenersi inutile e controproducente
sui tranquilli sentieri delle nostre montagne. Una pedula da 500 grammi che avvolge
la caviglia e magari consente una discreta traspirazione è molto più adatta.
Esiste la pedula giusta per ogni situazione: se si cammina in climi caldi o a
quote basse è d’obbligo preferire modelli traspiranti, che permettono cioè di
far uscire il sudore e di far espirare bene il piede, altrimenti arrivano
arrossamenti e vesciche.
Se si affronta l’alta montagna con problemi di neve è meglio scegliere modelli
più impermeabili.
Un valido compromesso può essere una pedula a collo alto, con battistrada
scolpito e suola semirigida. Il materiale può essere a scelta in pelle, nabuk,
cordura e se si vuole una scarpa anche impermeabile, con l’interno in GORETEX.
Una particolare cura va riposta nella scelta delle calze. Ideali sono quelle a
imbottitura differenziata studiate per l’escursionismo. I risultati migliori
infatti si ottengono usando la pedula giusta con la calza giusta.
Abolite i calzettoni di lana e i tubolari in cotone. Si
trovano calzettoni, in fibre miste, con curvatura preformata che permettono al
piede di respirare, asciugare e di vivere meglio.
Un’ultima considerazione: è sempre rischioso partire per un trekking
con le scarpe nuove. Pur garantendo una facile adattabilità, le moderne
pedule vanno usate un po’ per adattarle al piede e intervenire su eventuali
arrossamenti con il classico ed intramontabile cerotto.
Dopo le scarpe è lo zaino il
protagonista delle nostre escursioni, la nostra “casa viaggiante” che deve
servire nel modo più funzionale.
Le ditte specializzate ne producono di ogni genere, per tutti i gusti e le
tasche. Il materiale usato in genere è una tela robusta, un cordura ben resistente
agli strappi. Le tinte possono esser vistose o mimetiche.
Sono da preferire i modelli semplici, leggeri, con dorso anatomico ben
imbottito, spallacci che non bloccano i movimenti delle braccia e magari dotati
di asola poggiamani, con comode tasche esterne e fascia in vita larga e
imbottita nei modelli più capienti.
E’ importante scegliere la dimensione dello zaino prima della partenza: partire
con uno zaino troppo grande per una gita di un giorno è inutile e alla lunga si
rivela anche ingombrante e fastidioso; si avrà inoltre la tendenza a riempirlo,
aumentandone così inutilmente il peso. Viceversa cercare di far stare dentro un
piccolo zaino materiale per una marcia di più giorni può creare problemi di organizzazione
dello spazio .
Più utili si rivelano invece le tasche laterali (in una, ad esempio, si può
mettere la borraccia ), e il tascone superiore in cui riporre le cose più
fragili e di uso immediato (gli occhiali da sole, l’altimetro, ecc.).
Altrettanto funzionale è la
separazione all’interno in due zone distinte: una superiore apribile dall’alto,
una inferiore cui si accede mediante una cerniera lampo posteriore, per evitare
di dover svuotare tutto lo zaino per raggiungere quanto abbiamo posto in fondo.
Un buon zaino, inoltre, deve essere dotato di una cintura imbottita che
consenta durante la marcia di agganciarlo alla vita così da distribuire il carico
in maniera ottimale.
Oggi, dopo numerose “tappe”,
si è giunti alla conclusione che il maggior comfort nel trasporto a spalla si
ha se lo schienale del sacco aderisce anatomicamente al dorso e se il carico è
ben distribuito tra spalle, dorso e bacino, regolando adeguatamente l’altezza
del cinturone.
Per camminare sicuri e ridurre lo sforzo e l’affaticamento, inoltre, è
indispensabile che il carico sia equilibrato distribuendo razionalmente il
carico all’interno dello zaino. Nel riporre gli oggetti, si dovrà tener conto
dei loro pesi, dei tempi d’uso e della necessità di pronto impiego, della loro
sensibilità fragilità all’umidità e agli urti, ed evitare che corpi duri e
spigolosi si trovino a ridosso della schiena.
Dallo zaino non deve sporgere o ciondolare nulla per non impigliarsi ai
rami nell’attraversamento di un bosco e per avere più equilibrio.
Lo scomparto interno della patella è il posto ideale per i documenti, cartine,
guide, soldi; in quello esterno o nell’eventuale tasca posteriore potete
mettere vari oggetti come un coltello multiuso, gli occhiali, la piccola farmacia,
gli strumenti di orientamento, qualche bene di conforto per la marcia, le
batterie di riserva.
Un consiglio: non caricate lo zaino oltre l’indispensabile. Durante un trek,
infatti, molti oggetti e indumenti di ricambio si potranno presto rivelare
superflui e vi pentirete di non averli lasciati a casa.
I tessuti con i quali sono confezionati gli zaini, infine, non sono mai completamente
impermeabili e se incappate in un periodo di maltempo rischiate di giungere al
rifugio con indumenti di ricambio bagnati.
Per evitare l’inconveniente esistono delle mantelline di ricambio di nylon che
ricoprono anche lo zaino.
Ma la soluzione più semplice ed economica è di infilare nello zaino, prima di
caricarlo, un saccone di plastica e di riporre in esso tutti gli oggetti,
oppure di mettere quanto volete tenere asciutto in sacchetti di plastica.
Il tipo e la qualità dei vestiti che si indossano durante un trekking
sono di grande importanza per garantire un buon cammino.
I requisiti fondamentali dell’abbigliamento da trekking sono, prima di
tutto, quello di garantire al corpo il giusto calore e la praticità necessaria
in modo da non ostacolare i movimenti.
E’ dunque sempre meglio evitare di indossare giacche ingombranti, pantaloni
stretti o maglioni attillati.
Ricordate che camminare significa, spesso, anche sudare, spesso i camminatori
meno esperti commettono l’errore di accentuare questa conseguenza indossando
capi in sovrappiù o troppo pesanti.
Bisogna invece cercare di lasciar respirare il corpo, di portare sempre nello
zaino un maglione o una giacca pesante in caso di sosta al freddo, ma durante
la marcia è meglio tener presente che il corpo si riscalderà naturalmente,
soprattutto se il tracciato è in salita.
Occorre, inoltre, tener presente la meta dell’escursione e il clima del periodo
dell’anno durante il quale si effettua il trek, e non sottovalutare i rigori
del freddo in alta montagna e negli ambienti nordici, o le punte di caldo.
Si tratterà dunque di unire le esigenze climatiche con la maggiore praticità di
movimenti, valutando anche leggerezza, sicurezza, costo e anche moda.
Negli ultimi anni, importanti passi sono stati fatti nel campo
dell’abbigliamento per il trekking, con l’avvento di nuovi e speciali tessuti
che garantiscono grande perfezione tecnica e anche una varietà di modelli per
tutte le esigenze e per tutti i gusti.
·
Calze - Molto importanti sono le Calze e, trattandosi di prodotti “ a
pelle”, è necessario che abbiano requisiti come la facile traspirazione del
sudore, il mantenimento del piede asciutto e caldo, una buona protezione da
irritazioni, abrasioni e vesciche.
Calze con materiali naturali o sintetici?
Il cotone non è costoso ed è abbastanza confortevole, ma assorbe il sudore,
restringe e perde la forma, diventa rigido dopo ripetuti lavaggi.
La lana mantiene caldi ma spesso è ruvida e trattiene il sudore.
Oggi vengono molto utilizzate fibre sintetiche come Orlon, Hollofil, Cool-Max,
Thermax, marchi registrati dalla Du Pont USA. Queste fibre hanno la capacità di
estrarre velocemente il sudore lasciando il piede asciutto, prevenendo così
l’insorgere di vesciche, irritazione e di malattie come i “funghi”.
·
Maglie - L’esigenza principale di un trekker è, generalmente, quella di
difendersi dal freddo e dall’umidità, dalla pioggia e dalla neve.
Occorre permettere al sudore di traspirare, limitando nel contempo la
perdita di calore.
Le maglie di lana che si usavano un tempo assorbono troppo il sudore divenendo
umide, mentre il cotone si bagna rapidamente e raffredda il corpo.
Per questo per le magliette e le calzemaglie, che stanno direttamente a
contatto con la pelle, consigliamo indumenti intimi di polipropilene,
fibra sintetica molto leggera morbida e ideale per eliminare l’umidità e
trattenere il calore (Capilene, Transtex, Cool –Max).
Questo tipo di indumenti è anche utile in estate perché lascia traspirare
agevolmente.
Con le nuove fibre sintetiche (pile, fleece) si confezionano maglie, salopette
e giacche che sostituiscono i maglioni e la camicia, e che sono più leggere e
traspiranti; alcuni modelli associano al pile una membrana antivento che ne fa
capi ideali anche in caso di vento o pioggia leggera (WINDSTOPPER).
·
Pantaloni - Lunghi di cotone, sintetici o imbottiti a seconda della stagione e
dell’area geografica. Anche i pantaloni di pile sono molto caldi, morbidi e comodi,
ma sono piuttosto delicati lacerandosi facilmente sulle rocce o tra i rami degli
alberi.
In caso di trek estivo o a bassa quota, il cotone robusto può essere
sufficiente, mentre assolutamente inadatto è il jeans perché
troppo rigido, specialmente se bagnato. Il pantalone infatti deve lasciare
libero il movimento del ginocchio, soprattutto in caso di arrampicata, per cui,
se è lungo, deve essere largo ed elasticizzato; in mancanza di capi “tecnici”
vanno bene anche le tute felpate .
In inverno i pantaloni possono essere anche termici, in pile, o essere
sostituiti da una tuta o salopette imbottita. I pantaloni possono essere
ricoperti da sovrapantaloni, eventualmente imbottiti, in caso di escursioni in
condizioni di freddo intenso e per la protezione dalla neve.
·
Giacche a vento? In montagna o durante escursioni in climi rigidi lo
strato protettivo esterno deve proteggere dal vento, dalla pioggia, dalla neve
e deve essere in grado di traspirare la condensa prodotta durante lo sforzo,
per evitare raffreddamenti.
La giacca a vento è un capo di abbigliamento efficace, ma più adatto a
situazioni “statiche”, quando cioè non si cammina o non si produce calore.
Sono invece consigliabili le giacche in tessuto impermeabile traspirante
(tipo Entrant o Gore-Tex), che lasciano passare il vapore acqueo del sudore (ma
non le gocce d’acqua e il vento) abbinate a maglioni di pile. La
combinazione ideale è composta da giacca impermeabile, con un buon cappuccio e un
paio di copri-pantaloni, possibilmente con cerniere “a tutta gamba” così da
poterli infilare comodamente anche con gli scarponi (e eventuali ramponi) indossati.
Utile può essere anche una mantellina a “poncho” che copra fino ai piedi,
proteggendo anche lo zaino e lasciando le mani libere, ma questa tenderà a
farvi sudare specialmente in salita.
·
Cappelli - Di cotone, a tesa larga o a visiera, per proteggersi dal sole
durante i trekking estivi (importante coprire anche la nuca!). Nei climi
freddi: berretto di lana/pile leggero o pesante, a seconda dei casi, anche a
passamontagna.
Il cappuccio della giacca impermeabile, concorrerà ulteriormente a proteggere
dal freddo.
·
Guanti - Possono essere di lana impermeabilizzata, pile , con sopraguanti
impermeabili.
Per chi ha problemi di circolazione alle mani o in caso di freddo intenso sono
preferibili le moffole.
Nei climi molto freddi si possono mettere, sopra i guanti, le manopole di
Gore-Tex
·
Occhiali da sole - sono assolutamente indispensabili ad alta quota e
sulla neve per difendere l’occhio dai raggi ultravioletti e dai riflessi.
·
Bastoncini - Un tempo non ci credeva nessuno, ma è conprovato che i bastoncini,
sono veramente utili per camminare in montagna; permettono di distribuire il
peso dello zaino e del corpo su quattro punti, invece che due, migliorano la
sicurezza in discesa, sono ideali con i cani da pastore troppo volonterosi. Si
trovano in tante versioni: telescopici, a due o tre segmenti, fissi. I migliori
sono quelli a tre segmenti, con la punta in vidiam, perché si possono riporre
sullo zaino quando non servono, ma vanno molto bene anche quelli tradizionali
da sci.
·
"Esiste
un’alimentazione specifica in montagna per compensare il dispendio energetico
della marcia e della scalata, per lottare contro il freddo e gli effetti dell'altitudine?"
·
“Esiste
un’alimentazione che permetta di sopportare la fatica, combattere il
raffreddamento ed evitare la debolezza?”
Valutazione del consumo calorico:
L'escursionista consuma più o meno calorie secondo la velocità, il tipo di percorso,
il materiale utilizzato e le condizioni meteo: le perdite caloriche
possono variare tra le 200 e le 1200 kcal/ora.
In condizioni medie, per una salita di 5 ore, la perdita calorica è stimata :
5×500 kcal/h= 2500kcal. Per calcolare il consumo energetico, bisogna aggiungere
la perdita dovuta all'attività giornaliera restante, circa 2400 kcal che
bisognerà compensare se non si vorranno intaccare le riserve.
Nel caso di un’escursione di una giornata, le 4900 kcal perse saranno
compensate la sera o il giorno successivo da un’alimentazione più abbondante,
privilegiante l'apporto glucidico.
Questa compensazione avviene raramente durante un raid di più giorni
(limitazioni dovute la peso dello zaino o all’assenza di rifugi). Questo
deficit si tradurrà in una perdita di peso corporeo (tessuti adiposi).
·
1.
Gli zuccheri (glucidi) apportano il 55% della razione calorica. Assimilati
rapidamente (10 min. per una bevanda zuccherata), costituiscono il substrato energetico
di qualità per tutte le attività fisiche.
·
2.
Le proteine, d'origine animale o vegetale, giocano un ruolo secondario sul
piano energetico. Il loro apporto può essere diminuito nella razione di un
trekker.
·
3.
I lipidi sono stoccati nell'organismo in grandi quantità. Sono bruciati durante
sforzi prolungati e poco intensi. Sono la principale riserva energetica
utilizzabile durante escursioni di più giorni.
·
60% di carboidrati corrispondente a 1920 kcal. Poichè un grammo di glucidi libera 4 calorie,
avrete bisogno di 480 g di zuccheri.
·
14% di proteine, corrispondenti a 448 kcal. Poichè un grammo di proteine libera 4 calorie,
avrete bisogno di 112 g di proteine.
·
20% di lipidi, corrispondente a 640 kcal. Poichè un g di grassi libera 9 calorie
avrete bisogno di 71g di grassi.
Quindi, con l'aiuto delle tabelle sulle confezioni dei prodotti
alimentari, potrete calcolare la ripartizione dei glucidi, lipidi e protidi dei
differenti alimenti, ottenendo la vostra razione giornaliera.
Una adeguata idratazione
durante gli sforzi fisici prolungati è fondamentale: i liquidi e i sali, persi
sotto forma di sudore o di vapore acqueo durante la respirazione, raggiungono anche
alcuni litri al giorno. Se tale quantità non viene reintegrata, si possono
registrare pericolosi squilibri elettrolitici, un aumento della densità del sangue
e, di conseguenza, un maggiore affaticamento del cuore; le urine risultano più
concentrate con il pericolo di formazione di calcoli e possibilità di dolorose
coliche renali.
La stanchezza può ridurre considerevolmente la sete, caratteristica della
sintomatologia di deplezione sodica: per questo alla sera è buona norma bere
del brodo salato o mangiare un minestrone.
Insieme all’acqua, con il sudore si perde una grande quantità di sali minerali
(potassio, sodio, cloro e magnesio) che possono venire reintegrati con i cibi
(verdura, e frutta). La perdita eccessiva di sali minerali può essere
responsabile della comparsa di crampi e malesseri generali (stanchezza, nausea,
vomito, svenimenti). Per attenuare in poco tempo l’effetto della sudorazione,
inoltre, può essere utile ricorrere a reintegratori salini. Anche la frutta
secca è molto ricca, oltre che di zuccheri, anche di sali minerali.
Bere in montagna
·
Bevete
periodicamente anche se non ne sentite lo stimolo.
·
Aumentate
la quantità d'acqua da bere se fate attività in ambiente caldo o in altitudine
·
Assumete,
durante la marcia, reintegratori salini, in tavolette o diluiti in acqua
·
Dopo
lo sforzo, potrete bere una bevanda mineralizzata o un brodo di legumi o dei
succhi di frutta
·
L'acqua
di fonte non fa male, è la sua temperatura prossima agli zero gradi che è responsabile
di eventuali mal di pancia
·
Limitare
la perdita d'acqua per sudorazione diminuendo l'intensità dello sforzo e
scegliendo un abbigliamento adeguato.
· · Assorbire glucidi complessi
(pasta, riso) in quantità, durante il pasto precedente almeno di otto ore lo
sforzo. Per accelerarne l'assimilazione e per ottenere una supercompensazione ,
cioè un aumento dello stoccaggio di riserve a riposo, è necessario aver
praticato un esercizio (es.: salita al rifugio)
· I cibi liofilizzati sono un
importante passo avanti nella alimentazione in montagna: pesano poco (però ci
vuole l’acqua) e occupano poco spazio. Tuttavia è bene variarli con i cibi
tradizionali, anche perché costano molto e dopo poco non appagano più il
palato.
· Osservare un intervallo
minimo di due ore tra l'ultimo pasto e lo sforzo intenso
Per economizzare il glicogeno ( carburante utilizzato durante gli
sforzi intensi e consumato dopo circa 60/90,min):
· aumentare la quantità di
allenamento di resistenza
· apportare un complemento
energetico durante lo sforzo per mezzo di glucidi semplici (il glucosio arriva
più rapidamente al muscolo), con razioni di 50 g ogni due ore. Le bevande
debolmente concentrate, 5% e a temperatura di 12/15 gradi, saranno le più velocemente
assimilate.
Es.: 50 g di glucosio corrispondono a :
8g di datteri secchi
66g di uvetta secca
5 banane secche
7 fichi secchi
10 caramelle
1 litro di tè con 6 cucchiai di miele
Per ricostituire gli stock di glicogeno dopo lo sforzo:
· bere molte bevande zuccherate
· mangiare abbondantemente
glucidi "lenti" (pasta – riso – pane – legumi – patate, patate dolci)
Se lo sforzo è inferiore a tre ore, un’alimentazione solida non è
necessaria, l’idratazione con zuccheri al 5% è sufficiente.
Diminuire la quantità di proteine durante il pasto seguente lo sforzo per
privilegiare l'apporto glucidico.
E’ sempre bene evitare gli alcoolici durante l’attività fisica per la
pericolosa vasodilatazione che provocano. Usateli con moderazione anche a fine
giornata, soprattutto se siete molto stanchi.
Sarà la situazione meteorologica (e nivologica) a indurci a partire o
meno per un'escursione e se sì a determinare la destinazione e l'itinerario.
Un cambiamento delle condizioni meteorologiche può portare
l’escursionista a pressioni fisiche e psichiche tali da esporlo a rischi
maggiori.
Egli può sottrarsi a queste situazioni unicamente agendo in maniera sensata e
idonea al caso. Ciò implica un continuo aggiornamento sulle condizioni per dare
corretto e reale fondamento alle decisioni.
E' richiesta la capacità di:
Tutto ciò, ovviamente,
associato alle misure di protezione e sicurezza.
Vento. Uno dei parametri da non sottovalutare in montagna
è il Vento. Nei bollettini nivometeorologici è sempre riportata la direzione e
l'intensità dei venti in quota.
In condizioni di bassa
temperatura il vento ha un ruolo determinante. Nelle zone polari è stato introdotto
un valore equivalente al potere raffreddante del vento, il cosiddetto «wind
chill factor».
In Canada quando questo valore, annunciato dai bollettini meteo, supera un
limite prestabilito vengono ridotte certe attività esterne (per esempio vengono
chiuse le scuole).
Anche l’effetto meccanico del vento può essere considerevole, in particolare se
si presenta in modo irregolare, ossia a raffiche. La pressione esercitata sul
corpo può essere notevole e condurre ad una caduta, che può essere fatale in
zona esposta. Venti tempestosi improvvisi possono verificarsi soprattutto con i
temporali o in situazioni di favonio (vento di caduta)
Nebbia - La nebbia costituisce uno dei maggiori problemi
per l’escursionista, specialmente in alta montagna quando, su tratti innevati,
compare in banchi improvvisi e imprevisti.
Fenomeno comune in montagna in qualsiasi stagione, anche in estate, la nebbia,
o meglio le nuvole basse, rendono difficile la vista dell’itinerario e, a lungo
andare, disorientano anche chi è pratico della zona. Le conseguenze sono
immaginabili: trovarsi in terreni sconosciuti, di fronte a difficoltà
impreviste, e talora insuperabili, come balze e pareti, con dispendio di tempo,
energie e rischio di bivacco in luoghi inospitali.
Fino ad un certo punto aiutano l’istinto e lo spirito di osservazione;
oltre servono la bussola, la carta topografica e l’altimetro: strumenti da
conoscere e da usare insieme con sicurezza e disinvoltura per risolvere le
situazioni avverse.
Prima della partenza o prima che arrivi la nebbia, bisogna determinare il punto
preciso in cui ci si trova e, mediante carta e bussola, stabilire la direzione
da prendere. Spesso è saggio tornare sui propri passi. Con la nebbia bisogna
spesso controllare il percorso per mantenere la direzione stabilita (azimut) mediante
frequenti (a seconda della visibilità) punti intermedi (alberi, rocce, compagni,
ecc.).
Tutti questi problemi sono automaticamente risolti quando il sentiero che si
percorre è ben segnato, con segnavia posizionati nei punti giusti e ad
intervalli regolari.
Se la nebbia è molto fitta e si è per lo meno in due, in caso di dubbi sul
percorso un escursionista rimarrà fermo ad un segnavia e gli altri cercheranno
il segnavia successivo, rimanendo sempre in contatto di voce. Anche se rallenta
il ritmo della camminata, questo progredire dà ottime garanzie di non finire
improvvisamente fuori percorso.
Il caldo - Oltre che ostacolare la marcia, camminare
per ore al caldo può provocare alcuni fenomeni localizzati ad una parte del
corpo o generalizzati all’intero fisico. Rientrano nel primo caso gli eritemi
solari, arrossamenti della cute che alcune volte si complicano con ustioni
maggiori, consistenti nella formazione di vesciche.
La seconda ipotesi comprende casi di ben più gravi, come colpi di calore o di
sole, che si manifestano con cefalea, vertigini, nausea, vomito e febbre alta.
Tali problemi vanno prevenuti con una protezione adeguata del corpo, sia per
quanto concerne l’abbigliamento - indispensabile il cappello - che con l’uso di
creme solari protettrici.
La sensazione più immediata che determina il calore è la sete, in pratica l’allarme
del nostro organismo per reintegrare i sali perduti col sudore.
Si può bere liberamente, o bisogna contenersi? Quando si incontrano fontane, o
meglio ancora fresche fonti di montagna, cosa c’è di più bello che poter
saziare la propria sete con acque che sgorgano direttamente alle rocce e dai
muschi alpini?
Solo con l’acqua fredda e soprattutto con le bevande gassate tenute in
frigorifero occorre moderarsi. Caldo d’inverno e fresco d’estate, il tè rimane
un’ottima bevanda per chi cammina. Nella borraccia termica il tè o altre
bevande mantengono a lungo la loro temperatura iniziale.
E’ importante, se si cammina in giornate particolarmente calde e afose, pensare
ad una “siesta” nelle ore centrali del giorno, recuperando nelle ore più
fresche del mattino e della sera.
Il freddo
Il mantenimento dei 37°C corporei è essenziale per la vita
del nostro organismo.
Di fronte a variazioni della temperatura esterna, l’organismo provvede per via
riflessa e automatica a far sì che queste non influiscano sulla propria
temperatura.
Sulla capacità di tollerare il freddo influiscono vari fattori soggettivi come
la costituzione fisica (i soggetti con pannicolo adiposo sviluppato resistono
maggiormente al freddo), l'allenamento del corpo, lo stato di salute, il grado
di stanchezza e l'intensità dei movimenti.
Inoltre è da rimarcare che i bambini sono più soggetti al raffreddamento, a
causa della maggior superficie esposta al raffreddamento in relazione al volume
del corpo.
Per loro il mercato offre indumenti meno isolanti e meno scelta, rispetto a
quelli creati per gli adulti e quindi meritano particolare attenzione.
Esistono particolari accorgimenti che ci permettono di poter affrontare il
freddo:
L’alimentazione e l’abbigliamento, consentono al nostro organismo di
risparmiare calorie, altrimenti fornitegli dai depositi degli zuccheri e di
grassi esistenti nel corpo.
Un fattore importante, dipendente dalla nostra volontà, è il movimento che
istintivamente cerchiamo di fare quando abbiamo freddo, ciò provoca un aumento
di consumo di sostanze nutritive da parte dei muscoli e un conseguente aumento
delle temperatura corporea.
La pioggia
E’ un elemento naturale da mettere in preventivo anche in trek brevi, e da
saper affrontare con filosofia e qualche accorgimento.
Con un buon completo antipioggia, impermeabile e traspirante, o anche con una
mantellina , potremo far fronte a qualsiasi evenienza.
I fulmini
I temporali, specie quelli estivi, violenti e improvvisi, portano con sè un
pericolo anche per l’escursionista: il fulmine. Davanti a questa imprevedibile
forza della natura, l’uomo è pressochè impotente. I temporali si scatenano soprattutto alla fine del
pomeriggio, per cui è conveniente partire presto alla mattina.
Il fulmine segue generalmente il percorso più breve fra la nuvola e il suolo;
ogni cosa che si sopraeleva dal suolo (alberi, camini, edifici alti, cime di
monti, persone in piedi) accorcia il percorso e diventa bersaglio del fulmine.
Dove cercare riparo?
Buoni ripari sono: abitazioni, costruzioni con struttura metallica, baracche
con pareti di metallo, autovetture, vagoni del treno, cabine metalliche (per
es. cabina telefonica). Inoltre, si può cercare riparo anche in caverne nelle
quali si può stare in piedi (ma non all'entrata) oppure all'interno di un bosco
con alberi di altezza simile. In casi urgenti, si può trovare una protezione
anche all'interno di capanne, bivacchi, cappelle o fienili (non toccare le
pareti esterne), sotto i fili d'alta tensione o cavi a sbalzo (ma non in
prossimità di tralicci!). In mancanza di tutto ciò ci si può proteggere dalle
scariche in posizione rannicchiata in conche del terreno, in vie ribassate, ai
piedi di una roccia (senza appoggiarsi alla roccia!).
Se si è in gruppo non ci si deve tenere per mano (corrente di passo).
Sono da evitare alberi singoli o con rami che si abbassano fino al
suolo, come pure i bordi del bosco con alberi d'alto fusto. sono pericolosi gli
oggetti esposti quali cime, creste, torri, tralicci, gru o carri del fieno.
Possono pure essere pericolose piscine o laghi, soprattutto lungo la riva,
tende non protette, barche con alberi di metallo, vie ferrate. Bisogna inoltre
evitare di portare oggetti esposti (bastoncini, piccozze,canne da pesca ecc.).
Talvolta l’elettricità si scarica anche senza che il fulmine cada. Ne danno
avvertimento i capelli che si rizzano, solletico e prurito nelle parti scoperte
del corpo e fiammelle azzurre nell’aria.
La neve dà alla natura la veste più magica e
suggestiva, e valorizza itinerari di media montagna.
Naturalmente bisogna essere forniti dell’attrezzatura adeguata per muoversi con
sicurezza e agilità e sulla neve.
La neve fresca offre un pessimo supporto, soprattutto se farinosa. Per non
affondare è opportuno calzare le racchette da neve e aiutarsi con i bastoncini
da sci.
La neve vecchia disciolta e ricongelata più volte è un eccellente terreno di
marcia, che aderisce bene anche su pendii ripidi.
Più dura e ghiacciata è, meglio funzioneranno i ramponi, indispensabili quando
lo scarpone non fa più presa sulla neve.
Assieme ai ramponi si usa la piccozza, con la quale, tra l’altro, si arresta
una eventuale scivolata. Completano l’equipaggiamento invernale: un cordino da
utilizzare nei passaggi più difficili come corda fissa, le ghette alte fino al
ginocchio e gli scarponi perfettamente impermeabili con lo scafo di plastica.
E’ meglio evitare i pendii pericolosi e gli itinerari noti per le loro
valanghe, informandosi bene prima di partire. Se si è costretti ad attraversare
una zona sospetta, la cosa migliore da fare è avanzare uno alla volta. Una sola
persona sepolta da una valanga ha migliori probabilità di sopravvivere se tutti
gli altri possono prestarle soccorso.
Importantissimo è l’utilizzo dell‘ ARVA (Apparecchio per la ricerca di dispersi
in valanga), emettitore-ricevitore di onde radio; permette di cercare e
ritrovare in breve tempo i compagni travolti da un’eventuale valanga.
La neve, comunque, rende la marcia più lenta: occorrerà perciò modificare le
proprie tabelle di marcia.
“L’arrivo a un rifugio di alta montagna è
una delle più dolci emozioni della vita alpina; la vista delle esili pareti in
mezzo alla durezza delle rupi, ispira un senso infinito di pace e sicurezza;
s’acquieta l’ansia della salita ed è sospesa l’inquietudine del giorno a venire;
il nostro cuore si apre alla tenerezza come quando, dopo un lungo viaggio,
poniamo piede sulla soglia sicura della nostra casa, e l’anima si colma di
gratitudine per chi ha conosciuto il rifugio”.
Con queste parole Guido Rey esprimeva,
nel secolo scorso, con tinte quasi di poesia, gli stessi sentimenti che si
provano quando, dopo una giornata di trekking, si arriva al rifugio. Il rifugio
comunque, non deve essere il punto di arrivo, il fine di un’escursione, ma
semmai una base logistica per andare in natura.
In Italia i rifugi sono circa un migliaio, per la maggior parte di proprietà
del Club Alpino Italiano. Il record d’altitudine spetta con 4554 metri alla
contestatissima “Capanna Margherita”, sulla Punta Gnifetti del Monte Rosa, e il
minimo è raggiunto dallo “Stromboli”, un rifugio che si trova a livello del
mare. Ma al di là dell’altezza a cui sono stati costruiti, i rifugi hanno tutti
per lo meno due cose in comune.
La prima è che si trovano quasi sempre in località splendide, in mezzo a
pascoli o a foreste, ai margini di ghiacciai o di laghi, aggrappati alla roccia
e davanti a panorami mozzafiato. Altro elemento in comune a quasi tutti i
rifugi è il fatto di avere un custode-gestore. Sulle Alpi, la maggior parte dei
custodi sono guide alpine che sono pertanto in grado, oltre che di
accompagnare, anche di consigliare itinerari e di illustrare nel modo migliore
tutte le caratteristiche più importanti e le peculiarità del luogo.
Fare trekking con la tenda significa sicuramente avere un notevole peso
in più nello zaino, ma al tempo stesso garantisce un modo di viaggiare
completamente diverso da quello che prevede le soste in rifugi e bivacchi: più
libero e spontaneo, a contatto diretto con l’ambiente naturale.
La tenda che noi riteniamo
più adatta per chi fa trekking, è quella chiamata “3 stagioni”, un concetto
introdotto dal mercato americano che definisce con chiarezza che la resa ottimale
della tenda è nelle condizioni climatiche più clementi delle tre stagioni: primavera,
estate, autunno.
Una tenda “3 stagioni” deve essere funzionale, robusta, resistente alle azioni
atmosferiche non estreme ma comunque impegnative e con un giusto rapporto di
leggerezza. Inoltre, deve avere sufficiente ventilazione per evitare il
problema della condensa interna. Per quanto riguarda la struttura, essenziale è
la distinzione tra tende autoportanti e non autoportanti. Attualmente le tende
autoportanti, cosiddette a “igloo”, risultano come le più apprezzate in quanto
più confortevoli e più facili da montare, non necessitano in caso di normale
utilizzo dell’uso dei picchetti.
Le tende non autoportanti sono ormai limitate alle condizioni estreme dove la
paleria incrociata non può essere utilizzata per problemi di superficie, peso,
ecc. La struttura non autoportante maggiormente in uso è quella a botte che presenta
un profilo allungato resistente all’azione del vento e contemporaneamente una
superficie di appoggio limitata. Le tende di tipo “canadese” (cioè a casetta),
pur essendo sempre valide, si dimostrano ormai poco attuali alle esigenze del
trekker.
Nella categoria delle tende autoportanti meritano particolare attenzione quelle
di concezione “geodetica” ad archi incrociati. Questa struttura ha il grande
vantaggio di essere particolarmente resistente e spaziosa. Resistente, in
quanto il disegno prevede un fitto intreccio di archi di paleria evitando
quindi il crearsi dell’effetto vela, tipico delle tende ad igloo dove ampie
zone della tenda soggette all’azione del vento non possono godere del supporto
della paleria.
Spaziosa, in quanto il concetto degli archi incrociati prevede una vasta
superficie di appoggio. Gli svantaggi di una tenda a concezione geodetica
stanno solo nella iniziale difficoltà di montaggio e nel più elevato peso
rispetto ad una tenda tradizionale. Il corpo tenda deve avere le caratteristiche
di leggerezza, robustezza e traspirabilità. Una tenda tecnica affidabile, come
requisiti fondamentali deve avere una giusta distribuzione delle tensioni su
tutto il corpo tenda. e dei rinforzi nei punti più delicati e soggetti ad usura.
I materiali devono sempre essere differenziati a seconda delle caratteristiche
d’impiego delle varie parti che costituiscono la tenda.
Uno dei fattori negativi in una tenda è la creazione della condensa dovuta agli
sbalzi termici e allo spazio ristretto di azione. Questo inconveniente può
essere eliminato con una buona areazione della tenda mediante dei pannelli di
rete fine che permettono una notevole ventilazione o utilizzando tessuti senza
alcuna spalmatura. Sono ovviamente di notevole importanza i pannelli zanzariera
e le bocche di sfiato.
Alcuni consigli:
·
alla
mattina (se possibile) conviene aspettare che i teli si asciughino prima di
piegarli e riporli nello zaino. Si evita così la formazione di muffe, preoccupanti
insidie alla durata e alle prestazioni di qualsiasi tenda;
·
dopo
l’uso è buona cosa lasciare i teli della tenda il più possibile arieggiati;
·
controllare
spesso le cuciture e i punti di maggior stress (inserimento negli occhielli e
nelle maniche). Il silicone può servire a tamponare i problemi di non impermeabilità;
·
la
paleria deve essere sempre pulita e lubrificata. Nel montaggio i singoli
segmenti non vanno forzati nella ricerca di una eccessiva curvatura.
Il sacco a pelo diventa “il letto” del trekker che pernotta in tenda o
in un bivacco. Il sacco a pelo deve essere a mummia, leggero e caldo, deve
evitare la perdita del calore corporeo, essere di minimo volume e resistente.
L’imbottitura è di piumino d’oca o di anatra, leggera e isolante, oppure di
materiale sintetico (poliestere hollofil, poliammide, ecc.).
I sacchi a pelo in sintetico, a parità di prestazioni, sono più voluminosi di
quelli in piumino, ma resistono meglio all’umidità e sono più a buon mercato.
I rivestimenti possono essere in cotone dentro e fuori, pesanti ma
confortevoli, in cotone dentro e nylon fuori, per chi intende fare a meno delle
tenda e vuole dormire sotto le stelle. In tal caso, il contenuto del sacco deve
essere sostanzioso, o magari a strati differenziati. Per questo uso c’è anche
il coprisacco, che protegge dall’umidità e dalla pioggia.
Portare il sacco a pelo anche quando si va a pernottare in rifugio vuol dire
garantirsi calore e igiene.
Quando si dorme con il sacco a pelo, in tenda o in un bivacco, diventa
assai utile avere un materassino. Questo può essere una semplice stuoia in
materiale pressurizzato a cellule chiuse (peso intorno ai 250 grammi) per
assicurarsi un totale isolamento dall’umidità del terreno e una parziale attenuazione
delle asperità (dormiben).
Per aumentare il comfort si possono utilizzare anche materassini gonfiabili o
autogonfiabili; è consigliabile non gonfiarli mai al massimo, per permettere
all’aria dei cilindri o degli scomparti di adattarsi al peso del corpo.
Se vorremo renderci indipendenti durante il trek e gustarci una buona
pastasciutta dovremo portare con noi un fornellino da campeggio.
E’ molto importante scegliere il fornello giusto, che deve essere leggero,
facile da trasportare, pratico da usare. Ci sono in commercio fornelli
scomponibili leggeri e molto pratici, che possono essere montati e smontati
facilmente. Questo è molto importante perché elimina problemi di ingombro, dal
momento che è più facile sistemare nello zaino tanti oggetti piccoli piuttosto
che uno solo grosso.
La qualità primaria richiesta ad un fornello è l’affidabilità in ogni
condizione d’uso: un fornello deve funzionare in piena efficienza sia con basse
temperature che con un alto tasso di umidità.
Altra qualità basilare è la facilità di funzionamento, ed altre importanti
caratteristiche del fornello sono: la robustezza, l’economia di esercizio, la
possibilità della regolazione della fiamma.
Ogni fornello è studiato per funzionare con appositi carburanti: fornelli a
gas, fornelli a benzina, fornelli a meta. Esistono fornelli (MSR) in grado di
bruciare qualsiasi tipo di carburante.
Esistono in commercio dei set completi di pentole, fornelli, piatti,
pinze per le pentole quando scottano; tutti i componenti possono essere montati
a incastro uno sull’altro, in modo da occupare, alla fine, uno spazio
contenuto.
I piatti possono essere in plastica. Per quanto riguarda le posate vanno bene
anche quelle usate normalmente in casa. In commercio esistono comunque set di posate
pieghevoli in alluminio che comprendono cucchiaio, coltello, apribottiglie e
apriscatole.
Come si fa a lavarsi quando si cammina per più giorni senza incontrare
rifugi o alberghi?
E’ un problema che si pongono tutti coloro che purtroppo non hanno mai avuto la
possibilità di vivere all’aria aperta, distanti dai rubinetti dell’acqua calda.
Camminando nella natura succede di trovarsi a montare la tenda e pernottare in
luoghi privi d’acqua. Questo, però, non significa che all’aperto non ci si
possa lavare. Anzi, fra i ricordi più belli di un trek in montagna, ci saranno
senz’altro i gelidi bagni tonificanti nei torrenti d’alta quota, ideali per la
circolazione sanguigna della cute e del tessuto sottocutaneo.
Bagni a base di acqua e sapone. Nessuno shampoo particolare, nessuna procedura
alchimistica: un torrente e un pezzo di sapone possono risolvere da soli i problemi
di igiene di un trekker.
Un particolare riguardo bisogna averlo per i piedi, certamente parte del corpo
più sacrificata e sofferente nelle camminate. E’ quasi indispensabile lavarli
quotidianamente per tonificarli e prevenire arrossamenti e vesciche.
E neppure bisogna dimenticare la regolare e importante pulizia dei denti,
soprattutto considerando che camminando si può fare largo uso di zuccheri e che
un mal di denti rovinerebbe completamente il trek.
E poi, quando capita di avere le comodità, si apprezza ancora di più una lunga
e tiepida doccia.
Per concludere, due parole anche sulle esigenze fisiologiche. Ricordiamoci
sempre di coniugare il verbo “occultare”, nel giusto rispetto altrui,
quantunque si tratti di... naturale concimazione.
Sia che si effettui un trek di pochi giorni, sia che ci si prepari per
un’impegnativo viaggio in luoghi poco frequentati o con scarsa assistenza
sanitaria, è indispensabile portare con sè un piccolo pronto soccorso.
La difficoltà è sempre quella di sapere quali e quanti farmaci portare, per
evitare di lasciare a casa quelli veramente necessari.
Innanzitutto dipende dalla durata dell’escursione e dai luoghi in cui ci
rechiamo. Dovendo portare tutto nello zaino, sarà bene che il set di pronto
soccorso sia poco ingombrante e leggero, contenuto in una confezione robusta,
impermeabile e poco ingombrante, in modo da non rovinare farmaci e garze e da
non appesantirci; il peso totale non dovrebbe superare infatti i 300-400
grammi.
Non possiamo pretendere in tal modo di usare le confezioni in commercio:
occorreranno piccoli flaconcini per i disinfettanti, due o tre rotoli di garza,
riposti in contenitori di plastica, cotone idrofilo, cerotti già pronti,
confezioni di punti adesivi sterili, forbici e pinzette piccole.
I medicinali devono essere ridotti al minimo indispensabile, 4-5 compresse per
tipo: analgesici per dolori da traumi, cefalee, ecc., antispastici per dolori
addominali, antiacidi, antinausea, antidiarroici, analettici, colliri,
antipiretici. Statisticamente, la più alta incidenza di traumi in
montagna è dovuta allo scivolamento.
Distorsioni, ferite, abrasioni possono essere controllate se si ha una
conoscenza minima delle tecniche di pronto soccorso.
Elenchiamo i problemi fisici più comuni che si affrontano nella pratica del
trekking, con brevi consigli su come fronteggiarli ed alcune tecniche di primo
soccorso.
·
Per
quanto riguarda le ferite, si possono aver emorragie più o meno abbondanti.
Dopo aver opportunamente disinfettato, si tampona la fuoriuscita di sangue in
sede o apponendo un laccio emostatico a monte della ferita, e quindi si fascia
il tutto con garza o un fazzoletto.
·
Nel
caso di trauma distorsivo, cioè dove non è avvenuta una fuoriuscita permanente
dei capi articolari, è consigliabile l’applicazione sulla zona interessata di
ghiaccio o acqua fresca, posizionando l’arto in riposo.
·
Le
punture di insetti sono altrettanto fastidiose. Oltre a una reazione locale, in
rari casi possono procurare dei veri e propri shock. L’urgenza viene risolta
con un impacco di Amuchina sulla zona interessata, mantenendo inumidita la
garza costantemente. Riguardo alle vesciche e piaghe che facilmente si possono
formare nei piedi durante il cammino: per le prime, vanno prevenute con calze e
scarpe adeguate; se tendono a formarsi, è utile usare i cerotti (ottimi sono i
Compeed), ma appena avvertito l’arrossamento, prima cioè che questo si tramuti
in vescica.
Un discorso a parte va fatto per i problemi che insorgono quando si
cammina ad alta quota.
Per una persona sana, di corporatura normale e ben allenata, anche i 4810 metri
della cima del Monte Bianco possono non creare problemi, purchè li si affronti
con gradualità sia in salita sia in discesa, acclimatandosi mano a mano.
Cosa ben diversa e assai negativa è invece i portarsi in quota o scendere nel
giro di pochi minuti come si fa quando si usano funivie, seggiovie, ovovie e
altri impianti del genere.
Con il diminuire della pressione atmosferica, l’altitudine provoca
nell’organismo un aumento della pressione arteriosa, un fenomeno questo che può
preoccupare esclusivamente gli individui anziani o sofferenti di cuore.
Un sintomo dovuto alla rarefazione dell’ossigeno è il “mal di montagna”:
si verifica a quote variabili da soggetto a soggetto e si manifesta con un
senso di malessere, di vertigine e di debolezza.
Senza dubbio, il rimedio migliore è scendere al più presto a quote
basse. Tutto ciò per quanto riguarda la reazione del fisico in alta
quota, diciamo al di sopra dei 3000 metri, oltre i quali ben si può avvertire
la rarefazione dell’ossigeno. Ma a questi aspetti bisogna aggiungere quelli
relativi alla preparazione e alle conoscenze specifiche che vanno da un adeguato
equipaggiamento alle previsioni del tempo e all’uso dell’altimetro:
quest’ultimo, con la sua doppia funzione altimetrica e barometrica, è uno
strumento assai importante per chi si avventura nel mondo delle alte vette e
dei ghiacci.
L'ipotermia è definita da una temperatura centrale (rettale) del corpo
inferiore ai -35 °C. In montagna le perdite di calore sono praticamente tutte
legate ad esposizioni prolungate al freddo, nella maggior parte dei casi in
seguito ad incidenti (per es. caduta in crepaccio, vittima da valanga).
Si suddividono diversi stadi d'ipotermia.
·
Leggera
(da 35°C a 34°C) (eccitazione) Il soggetto è sveglio, agitato, disorientato e
presenta brividi. La pelle è bianca. Mani e piedi sono dolenti. Respirazione e
requenza cardiaca aumentano.
·
Media
(da 30°C a 33°C) (paralisi) Il soggetto è assente, sonnolento, risvegliabile.
Presenta volto rigido, rigidità muscolare, braccia flesse, nessun dolore. Il
polso è lento/ irregolare, il respiro irregolare, insufficiente.
·
Grave
(<30 °C) (incoscienza) Il soggetto non è risvegliabile, è incosciente. Non
c'è alcuna risposta a stimolazione. Sono presenti estrema bradicardia e pause respiratorie.
·
Profonda
(<27 °C) Morte (apparente). Assenza di riflessi pupillari, midriasi. Arresto
cardio-respiratorio.
Importante è riconoscere le cause dell'ipotermia accidentale per
portare immediatamente il primo, sovente determinante soccorso.
E’ importante, per chi
frequenta la montagna, conoscere la segnaletica di emergenza.
I segnali di richiesta possono essere acustici o luminosi. Le modalità di
chiamata sono le seguenti: un segnale ogni dieci secondi, ripetuto per sei
volte nello spazio di un minuto, con successiva pausa di un minuto e così via.
La risposta è un segnale ogni venti secondi ripetuto per tre volte nello spazio
di un minuto. con successiva pausa di un minuto.
Esistono anche segnali internazionali di soccorso terra-aria rivolti a
elicotteri e aerei.
Chi intercetta un segnale di soccorso è tenuto ad avvertire il Posto di
chiamata o la Stazione di Soccorso Alpino più vicina.
Camminare in mezzo alla Natura rappresenta una delle esperienze più
spontanee e al tempo stesso più straordinarie per un escursionista. Scoprire
alberi, fiori, arbusti di ogni genere diventa una ricerca affascinante che può
condurre a conoscere le diverse specie, a distinguere i frutti nelle diverse stagioni
dell’anno, ma soprattutto a provare un senso di sempre maggior emozione ed
entusiasmo di fronte alle meraviglie che la Natura opera.
Imparare a camminare ad occhi aperti, osservando l’Ambiente che ci circonda
significa accrescere la confidenza con la natura, imparare a conoscere questo
mondo ricchissimo, ad amarlo e soprattutto a rispettarlo e a vivere in esso con
equilibrio e armonia.
I boschi sono vere e proprie centrali energetiche biologiche. Le foglie degli
alberi intercettano la luce del sole e la utilizzano come fonte di energia per
vivere e crescere: in tal modo ogni anno vengono prodotti enormi quantità di
legno, foglie, fiori, frutta, semi, che costituiscono a loro volta il nutrimento
per milioni di animali. In un anno un ettaro di bosco (10.000 mq) può liberare
nell’aria 20 tonnellate di ossigeno e fissarne 10 di carbone dall’anidride carbonica
dell’atmosfera. Lo stesso bosco, sempre annualmente, può assorbire e neutralizzare
anidride solforosa, protossido di azoto, aldeide, benzopirene ed altri gas e
vapori tossici e filtrare polveri e pulviscoli velenosi. Una corrente d’aria
inquinata dalla presenza di un elevato tasso di anidride solforosa sarebbe
completamente depurata se potesse attraversare un solo ettaro di bosco.
Un albero secolare, in una giornata di sole, può liberare sotto forma di vapore
traspirato, circa 600 litri d’acqua, assorbita dal terreno; un albero, durante
un’estate, traspira circa 10.000 litri d’acqua, mentre un ettaro di bosco ne
cede all’aria 3.500.000, restituendo all’atmosfera il 60-70% dell’acqua
meteorica che, senza alberi, non verrebbe più ridata agli strati d’aria sovrastanti.
In 100 metri di foresta possono vivere in stato ottimale, senza creare
squilibri ambientali, 10 caprioli, 4 cervi, 2 cinghiali, milioni di piccoli
mammiferi, miliardi di microorganismi.
Fare
Trekking significa così anche imparare a “parlare” con la natura e a
comprenderne il linguaggio.
Riuscire a camminare soffermandosi nei pressi di un albero, ascoltando il vento
muoversi fra le foglie, guardando nella corteccia i buchi scavati dagli
animali, significa attraversare l’ambiente con consapevolezza e attenzione, ed
anche arricchire il proprio spirito, riposare la mente e sapersi armonizzare
con i ritmi della Natura. Il Trekking è camminare con intelligenza, è
un’esperienza culturalmente affascinante, che permette anche di comprendere
l’importanza del’equilibrio Uomo-Natura.
L’escursionista che voglia conoscere bene l’ambiente potrà munirsi di un
manualetto specifico che riporti le specie floristiche e arboree, e relative
alle specie animali.
Saranno inoltre fondamentali alcune norme comportamentali semplici ed
essenziali, quali: non gettare mai rifiuti in natura, non accendere fuochi d’estate in
luoghi aridi.
Il problema dei rifiuti in natura è “spinoso e tagliente come l’orlo
frastagliato di una scatoletta arrugginita” e risolverlo è difficile. Una busta
di plastica, il foglio di carta stagnola del pacchetto di sigarette, la
linguetta della lattina di bibita: sui pascoli alpini come sulle cime
appenniniche o sui litorali è purtroppo quasi “normale” trovare questi residui
del passaggio dell’uomo. Lungo i sentieri, attorno ai rifugi, su ghiaioni e
morene, nei ghiacciai di casa nostra come in quelli nepalesi, perfino in fondo
alle grotte ha fatto la sua apparizione “il rifiuto”.
Alla base di questa situazione di degrado sta una grande maleducazione
dell’uomo.
Rispetto al passato infatti la nostra era produce un’enorme quantità di rifiuti
che rappresentano una violenta aggressione all’ambiente, che non riesce a
metabolizzarli sia perché sono troppi, e troppo concentrati, sia perché sempre
più spesso sono sostanze chimiche, sconosciute alla natura, non biodegradabili
e tossiche.
Basterebbe che ognuno rimettesse nello zaino questi contenitori (che,
soprattutto vuoti, pesano pochissimo), per preservare integro il
fascino e il significato di quegli ambienti nei quali si possono trascorrere
tante ore felici.
Evidentemente le abitudini irresponsabili, assimilate nel tempo da una cultura
sbagliata, finiscono col trasformarsi in condizionamenti automatici più forti
del più elementare ragionamento. Ed è così che si diventa una delle cause del
degrado dell’ambiente. La presenza massiccia di oggetti metallici e plastici,
infatti, all’interno di un ecosistema fragile come ad esempio quello montano,
può alterare la naturale traspirazione del suolo e può inquinare le falde
acquifere delle sorgenti vicine; inoltre sacchetti e lattine diventano
autentiche trappole dentro le quali vanno a morire, attratti dai residui delle
sostanze zuccherine, centinaia e centinaia di insetti, necessari
all’impollinazione della flora alpina e dell’equilibrio ecologico dei loro
microambienti.
Per tentare di arginare questi pericoli, molte associazioni ambientaliste hanno
organizzato meritorie campagne di pulizia, riportando a valle quantità
inimmaginabili di immondizie, e restituendo la primitiva bellezza a molti
ambienti naturali, pesantemente aggrediti dall’onda del turismo. Tuttavia
queste iniziative non sono mai risolutive, anche se servono come esempio e come
richiamo morale per tutti. Meglio sarebbe se venissero programmate come momenti
culminanti di campagne più articolate, in cui trovano spazio altre strategie (interventi
educativi, di incentivazione, legislativi, ecc.).
Quindi la prima regola è quella di riportare nello zaino tutti i
rifiuti, che verranno poi destinati ad una corretta raccolta differenziata.
Una delle emozioni più belle che si possono provare durante un trekking
è quella di camminare tra gli alberi o in un prato fiorito, o di imbattersi
nelle diverse specie, più o meno rare, di piante e fiori, riconoscendone le
caratteristiche e le peculiarità.
Camminare nella natura significa prima di tutto imparare ad osservare, a contemplare,
a stupirsi, ad ammirare. E questo si può fare di fronte alle centinaia e
centinaia di fiori (in Italia esistono circa 6.000 specie di piante spontanee
con fiori), dalle forme più svariate ed eleganti, dai colori più vivi ed
irriproducibili che adornano, con una nota delicata e gentile, la pianura, la
collina e la montagna. Allo stesso modo gli alberi sono i più antichi e saggi
abitanti delle foreste e dei boschi, sono i protagonisti di tanti ambienti
naturali, e caratterizzano in modo determinante il paesaggio.
Dagli alberi da frutto, agli abeti e ai pini, ai faggi e alle querce, gli
alberi trasmettono un senso di forza e di pace, e l’escursionista può scegliere
proprio la loro ombra per fermarsi, per riflettere, riposarsi e contemplare il
mondo circostante.
Pur camminando con passo regolare, non è possibile non fermarsi ad ammirare un
prato di pulsatille o primule, o l’improvvisa scoperta di una macchia di viole.
I gialli degli ieraci, i viola delle genziane, i bianchi dei gigli, i rosa dei
rododendri, i lilla delle soldanelle restituiscono all’uomo quella capacità di
guardare la natura con occhi attenti e incantati che il vivere quotidiano ha
fatto smarrire.
Tuttavia, se l’uomo vuole continuare a godere della presenza dei fiori deve
proteggerli, comprendendo la loro importanza e i loro delicati equilibri. L’inutile
ed egoistica raccolta indiscriminata di fiori deve ad ogni costo cessare,
soprattutto per le specie più rare.
E’ inutile perché, una volta strappati dalla loro terra, i fiori avvizziscono
nel giro di pochi minuti; ed egoistica perché si toglie ad altri il piacere di
ammirare queste meraviglie della natura. Inoltre esistono specie rigorosamente
protette, sulle quali è bene informarsi, che è assolutamente proibito cogliere.
Dunque, non tornate dall’escursione con il classico “mazzolin di fiori”;
immortalate piuttosto i fiori fotografandoli, che è senz’altro un’arte di
maggiore soddisfazione e più seria che il raccoglierli.
Considerate sempre la vita che si svolge nelle piante e non arrestatela mai. Un
esempio a cui pensare? Il fiore per eccellenza, la stella alpina, si ricopre di
una fitta peluria vellutata per difendersi dalle forti radiazioni della quota e
proteggere la pianta dalle perdite d’acqua. Non è forse una dimostrazione di
vita ed un piccolo capolavoro da rispettare?
Sia per quanto riguarda gli alberi, sia i fiori che le piante, esistono
moltissimi manuali a cui attingere per riconoscere le diverse specie. E’
consigliabile per tutti gli escursionisti, dunque, approfondire questo aspetto
della natura imparando a conoscere gli “abitanti” dell’ambiente che si
attraversa, distinguendone i nomi e le caratteristiche. Sarà un modo di camminare
intelligente e consapevole, volto a una contemplazione non soltanto estatica
delle bellezze della natura, ma arricchita da uno spirito di conoscenza e da
una sempre maggiore dimestichezza con il mondo della natura, per raggiungere un
rapporto veramente armonico ed un rispetto profondo e vero.
Una consapevolezza dell’ambiente attraversato significa infatti
conoscenza approfondita e vera delle forme della natura. Per questo è
importante aver presente le principali specie di piante, riuscendo riconoscerle
quando si incontrano, per tenere sempre più vivo e concreto il rapporto con la
Natura. I due principali gruppi di alberi sul nostro territorio sono le Latifoglie
e le Conifere.
I boschi di Latifoglie sono costituiti da alberi maestosi come querce,
faggi, aceri; sono così chiamate perché la maggior parte di esse possiede
foglie larghe e appiattite, completamente diverse dagli aghi e dalle squame
delle conifere. Tutte le latifoglie producono fiori i quali, dopo essere stati
impollinati e fecondati, danno origine ai semi, spesso racchiusi in dure noci o
in morbidi frutti. Molte latifoglie perdono il fogliame in autunno, per
sopravvivere alle stagioni fredde, e per questo vengono chiamate decidue, o
caducifoglie.
Le Querce sono le latifoglie tipiche: ne esistono, sparse per il mondo,
circa 200 specie; alcune sono decidue, altre sono sempreverdi. Vengono
impollinate dal vento e producono ghiande. Il loro legno è eccezionalmente duro
e resistente. In genere è alta 4-7 metri, ma talvolta raggiunge anche i 15.
Un’altra latifoglia molto diffusa è il Faggio, di cui, come esempio di
come riconoscere un albero, diamo alcuni semplici ma basilari elementi: ha un
fusto eretto, con foglie a margini seghettati-dentati, a lamina larga,
simmetriche; i faggi sono alti fino a 30-40 metri, hanno tronco regolare ben
diritto, ricco di rami. La corteccia è liscia, di colore grigio argenteo,
spesso ricoperta di licheni fogliosi e crostosi, fortemente aderenti alla
corteccia.
La chioma è ampia e fitta di rami e foglie. Le foglie di colore verde scuro si
trasformano in autunno, prima di cadere, nei bellissimi colori
giallo-rosso-bruno. Produce piccoli frutti a forma di “riccio”, con numerosi
aculei che protegge una o due noci, chiamate faggiole. Vive associato spesso
all’abete bianco e all’abete rosso, ma può formare anche faggete pure. Vive in
tutta la penisola e in Sicilia; sulle Alpi fino a 1400, 1700 metri, sugli
Appennini fino a 1900, 2400 metri. Le Conifere crescono un po’ ovunque
nel mondo, ma particolarmente nelle regioni fredde. Costituiscono un gruppo di
piante molto antico, e i fossili dimostrano che il loro areale era in passato
molto più vasto di oggi. Queste piante possiedono generalmente foglie strette e
rigide, chiamate aghi o squame, a seconda della loro forma. La grande
maggioranza è sempreverde. Le conifere non possiedono fiori veri e propri, ma
producono particolari strutture fioriere chiamate coni o pigne. Tra le conifere
si trovano tutte le specie di pino e di abete, le conifere più famose, poi il
larice, il cipresso, il tasso.
Esistono circa 100 specie di pini. La maggior parte è diffusa nei climi freddi,
anche se molti pini crescono nel bacino del Mediterraneo e in altre regioni
calde. I pini sono tipiche conifere: le loro foglie sono stretti aghi e i loro
semi si sviluppano all’interno di rigidi coni. Il legno è generalmente piuttosto
tenero e contiene una resina fortemente aromatica.
Nelle foreste di conifere naturali, che annoverano anche esemplari vecchi e
giganteschi, gli spazi tra gli alberi consentono anche ad altre piante di
crescere e di fornire nutrimento ad una varietà grande e piccola di animali. L’Abete
Bianco ha la struttura tipica della conifera; ha fusto eretto, foglie persistenti,
aghi singoli attaccati al rametto a spirale e disposti a doppio pettine (nell’Abete
Rosso, invece, gli aghi sono disposti intorno al ramo); è alto fino a 40-60
metri, con corteccia liscia, di colore grigio argenteo nei rami giovani. Il suo
frutto è una pigna eretta (al contrario della pigna dell’Abete Rosso, che è
pendula), di forma quasi cilindrica, lunga 10-18 centimetri, larga 3-5, di
colore verde da giovane, rosso-bruno in maturità. L’abete bianco si associa con
il faggio, l’abete rosso ed il castagno. Si trova in Italia tra gli 800 e i
1600 metri, in zone desolate degli Appennini tra gli 800 e i 1800 metri.
Il Larice è una conifera pioniera, colonizza assieme al Pino Cembro,
anche ad alte quote; ama il sole, il freddo e la neve, e resiste a temperature
invernali molto basse. Può formare boschi puri (lariceti) ma più spesso vive associato
con altre conifere, oppure compare su prati di media ed alta montagna. In
Italia vive sulle Alpi, tra i 1000 e 2000 metri, nella parte orientale e tra i
900 e 1500 metri in quella occidentale.
Gli aghi, lunghi da 1 a 4 centimetri, sono riuniti a fascetti di 30/40 aghi ,
sottili e morbidi, di colore verde chiaro, che cadono ad autunno assumendo dei
bellissimi colori giallo-rossi.
E infine potevamo non menzionare il “nostro” Pino Loricato? Il Pino
Loricato (Pinus leucodermis Ant.) è un albero a corteccia
fessurata (Lorica) in placche a scaglie lucenti; ha rami bianco grigiastri ed
aghi verdi e cupi, larghi fino a 2 mm e lunghi fino a 6 - 7 cm. É un relitto
dell'ultima glaciazione. Vegeta ormai nelle zone rocciose più impervie oltre i
1900 m. del Parco del Pollino, modellato dal vento, dal gelo, dai fulmini.
Ai regni vegetale e animale
sono legati i momenti più emozionanti e significativi durante un trekking.
Camminando in montagna o in collina, sulle rive di un torrente, si ha la
possibilità di incontrare e osservare gli animali, di studiarne i comportamenti
e di fotografarli: i camosci che si rincorrono all’impazzata sulla neve, le
carpe che risalgono a pelo d’acqua la corrente in cerca di cibo, gli scoiattoli
che saltano da un albero all’altro. E perché non sperare di vedere anche il
lupo appenninico, che porta l’ingiusta fama di eterno cattivo nonostante siano
decisamente più pericolosi, aggressivi e molto più numerosi i cani inselvatichiti?
Oppure si può avere la fortuna di assistere ad una lezione di caccia impartita
da mamma aquila a un piccolo, di udire il latrato selvaggio del capriolo, che è
la voce stessa delle foreste prealpine, o il fischio della curiosa marmotta che
fa vedetta. A parte i cani inselvatichiti, gli insetti fastidiosi come le
zanzare e i tafani, difficilmente in Italia gli animali possono creare
problemi, compresi quelli ritenuti “pericolosi”: quei pochi orsi, quei pochi
lupi, quelle poche aquile chiedono soltanto di poter sopravvivere.
E neppure la vipera va vista come un onnipresente pericolo mortale delle nostre
campagne e dei nostri monti: se è vero che bisogna avere delle precauzioni e
delle regole da seguire, è anche vero che ci sono da smitizzare tante leggende
e tante falsità inventate intorno a questo rettile.
Le vipere mordono l’uomo soltanto se calpestate o impaurite. Siano
piccoli o grandi, forti o deboli, attraenti o impressionanti, gli animali hanno
tutti il diritto inalienabile alla vita. Sono infatti gli abitanti di un
habitat che è indispensabile rispettare e proteggere.
Una delle attività più significative che un
escursionista può svolgere, è quella di individuare le tracce degli animali
lungo il cammino, di incontrarli e di fotografarli.
A questi tre momenti sono legati aspetti molto emozionanti di un trekking. Ogni
ambiente infatti è caratterizzato da presenze animali invisibili o quanto meno
nascoste ai nostri occhi. Il territorio sembra così disabitato, ed invece, se
si è capaci di osservare i segni sul terreno, si scoprono le tante presenze che
rendono vivi boschi, campi, radure. Frutti “forati” e in parte mangiati, mucchi
di foglie, battuffoli di lana impigliati sui fili delle recinzioni, le impronte
dei camosci e degli altri ungulati, le tracce ben evidenti dei cinghiali, i
rumori delle ghiande che gli scoiattoli lasciano cadere.
In questo modo il trekker prenderà coscienza di non essere solo, e sarà
un’esperienza entusiasmate sapere individuare gli animali selvatici che gli
stanno attorno analizzandone le tracce lasciate sul terreno, poi, magari,
attendere con pazienza l’uscita di uno di questi abitanti e immortalarlo con
una fotografia. Anche questa, naturalmente, è un’arte da imparare per gradi. Ci
sono manuali che insegnano ad individuare gli animali nel loro ambiente
naturale senza disturbarli e infastidirli, nel pieno rispetto delle loro
abitudini. Ogni ambiente ha i suoi abitatori selvatici, ed ogni selvatico le
sue caratteristiche. Per imparare a riconoscere le tracce occorrerà imparare,
per ogni animale, qual’è l’ambiente frequentato, quali sono le abitudini
comportamentali e alimentari, come sono le particolarità delle orme e delle
andature, dei resti dei pasti, degli escrementi. Le impronte degli animali
consentono di accertare la presenza e il passaggio delle diverse specie in una
determinata zona; la stessa importanza possono avere anche peli, piume, avanzi
di pasto, escrementi, nidi, tane, e così via. Lo studio delle impronte e delle
tracce consente ai naturalisti di raccogliere molti dati (abitudini alimentari,
dimensioni, peso), tracciando una sorta di “mappa” relativa agli abitanti di un
territorio. La successione delle impronte, la profondità e la loro disposizione
permettono inoltre di stabilire in che modo procedeva l’animale: di corsa, al
passo, al trotto, ecc.
Le impronte più nitide si trovano naturalmente sulla neve, nel fango, nei
pressi delle zone umide e, talvolta, anche nell’erba fresca. Le più comuni sono
quelle lasciate dalla lepre, dalla volpe, dalla donnola, dal cinghiale, dal
capriolo, animali diffusi sulle nostre montagne, sia Alpi che Appennini.
Anche per imparare a fotografare correttamente la natura e gli animali
vi sono testi specifici molto interessanti.
La prima cosa da comprendere è che l’”avventura” del trekker fotografo comincia
ben prima del momento in cui si scattano fotografie tecnicamente valide:
comincia quando si va alla ricerca dei momenti più tranquilli e ideali per
scorgere la vita degli animali; comincia dall’entusiasmo di restare immobili ad
aspettare di vedere il muso di una marmotta o il balzo di un camoscio.
La differenza tra la fotografia naturalistica e gli altri generi di fotografia
sta proprio in questo, nel modo in cui il fotografo si accosta alla natura:
rispettandola ed entrando in questo mondo in punta di piedi.
Nel difficile rapporto uomo-natura, la macchina fotografica può porsi come uno
strumento in grado di cogliere in modo oggettivo tutti quei bellissimi
particolari che sfuggono alla vita quotidiana e allo sguardo distratto,
rivelando invece un mondo pieno di meraviglie.
Quando mettete a fuoco la vostra macchina fotografica, provate a mettere
contemporaneamente a fuoco la vostra mente: tutto l’ambiente circostante
rappresenterà allora una sorprendente scoperta. La fotografia, insomma,
spalanca gli occhi sul’ambiente, affinando gli stimoli dell’osservazione. La
natura dunque, attraverso la fotografia, non deve essere “catturata”, ma
conosciuta e amata, con tanto rispetto per gli animali.
Prima di fotografare, occorre restare fermi in ascolto, lasciarsi avvolgere dai
mille profumi di un pascolo estivo, di un bosco delle rive di un lago, scrutare
fra l’erba alla ricerca delle piccole forme di vita che ci sono accanto. Sono
attività che impongono a chi le pratica una profonda disciplina interiore,
instaurando così con la natura un rapporto nuovo e più vero.
Relativamente alla parte tecnica del fototrekking, vi sono testi che trattano
ampiamente questo aspetto, così importante per chi vuole riportare immagini
belle e suggestive, tecnicamente valide.
Per il trekker-fotografo, che cammina con l’attrezzatura a tracolla, si pone il
problema del peso. Fino a qualche anno fa era necessario caricarsi addosso
pesanti macchine reflex. Oggi si possono ottenere ottimi risultati anche con le
diffusissime macchinette digitali compatte, leggere ed economiche. Il consiglio
migliore per i fotografi alle prime armi è di fare tante fotografie, segnando i
dati tecnici di ogni scatto.
Per quanto riguarda il birdwatching, l’osservazione degli uccelli,
esistono manuali specifici che affrontano tutti gli aspetti per raggiungere una
reale conoscenza delle varie specie.
Anche in questo caso, naturalmente, la prima regola fondamentale consiste in un
giusto approccio con l’ambiente, seguendo un codice di comportamento per non disturbare
gli uccelli, usando ancora maggiore cautela vicino ai nidi, oppure evitando
assolutamente di farli levare in volo in periodi freddi, usando insomma tutti
gli accorgimenti possibili perché la nostra presenza non sia un’”invasione”
nella vita degli uccelli. Ai fini di una corretta osservazione è fondamentale
munirsi di un binocolo: poichè in genere non si riesce ad avvicinare un uccello
tanto da poterne determinare la specie con sicurezza, il binocolo è di grande
aiuto permettendo di osservare l’animale ad una distanza dalla quale non si
sente disturbato.
L’escursionista che pratica il birdwatching deve avere un libro sugli uccelli
che lo aiuti a conoscere le varie specie, conoscendone la grandezza, le forme,
il modo di muoversi, le posizioni, i colori e i disegni del piumaggio e, cosa
molto difficile ma importantissima, i loro canti. E’ fondamentale anche
conoscere i diversi habitat degli uccelli, il calendario delle migrazioni, e il
loro equilibrio ecologico.
·
ZAINO
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SCARPONCINI
DA TREKKING
·
PILE
WINDSTOPPER E GIACCA IMPERMEABILE
·
CAPPELLO
·
CIBO
E ACQUA A SUFFICIENZA
·
OCCHIALI
DA SOLE
·
COLTELLO
MILLEUSI
·
FRONTALINO
CON BATTERIE DI RICAMBIO
·
CARTA
TOPOGRAFICA, BUSSOLA E ALTIMETRO
·
FIAMMIFERI,
ACCENDINO E CANDELA
·
KIT
DI PRONTO SOCCORSO
Libero
adattamento di un articolo tratto da:
http://digilander.libero.it/trekazimut/cor_w_trek1.htm