La maggior parte degli scrittori afferma che i Carbonari erano favorevoli ai Borboni in funzione antifrancese; vi sono altri, però, che ritengono che la Carboneria sia nata intorno al 1809 per ispirazione del governo del Murat. Probabilmente esuli italiani portarono nel Regno di Napoli i riti e il nome della Carboneria dalla Francia e fondarono i primi nuclei che andarono man mano alimentandosi con i massoni dissidenti dalle logge troppo ligie alla Francia, con illuminati, con massoni anglofili, con vecchi giacobini, con quanti, ardenti repubblicani, mal tolleravano l'imperialismo napoleonico, e infine con elementi nei quali il sentimento antifrancese s'identificava con il sentimento antirivoluzionario. Questo indirizzo antifrancese della setta spiega il favore dato dalla Corte borbonica e spiegano anche come una società segreta che aveva per scopo l'indipendenza e la libertà della nazione, potesse guardare con simpatia al Borbone.

La potenza ben presto raggiunta dalla setta deve aver spinto il governo del Murat a tentare di ingraziarsi la Carboneria, ma con scarsi risultati se si pensa ai moti rivoluzionari del 1813 contro il governo murattiano.

La Carboneria era divisa in sezioni dette "vendite", composte almeno da 11 cugini. Persone di ogni condizione sociale facevano parte della Carboneria: nobili, ufficiali, magistrati, professionisti, impiegati, possidenti, commercianti, soldati, artigiani, sacerdoti. Numericamente la setta costituiva una vera potenza: nel solo Regno delle Due Sicilie essa contava 800.000 affiliati.

Quanto al programma politico i Carbonari miravano a liberare l'Italia da ogni servitù interna e esterna, ma riguardo alla forma di regime, non mostravano di aver preferenze: qualsiasi forma, escluso l'assolutismo, era buona, monarchica o repubblicana, a base unitaria o federale, purchè non mancasse un'illuminata e larga costituzione.

Fin dalla primavera del 1817 i capi della Carboneria cominciarono a capire che per fare la rivoluzione  era necessario prepararla accuratamente disciplinando, intensificando e indirizzando con medesimo fine tutte le attività delle vendite che fino allora avevano esplicata un'azione slegata e senza un unico indirizzo.

Nel dicembre del 1817 un'ardente rivoluzionario, Rodinò, sottintendente di Bovino, faceva in modo che da parecchi luoghi della Capitanata  giungessero al governo borbonico richieste affinché fosse concessa la Costituzione. Sperava  di impressionare con quelle richieste la Corte e, perché avessero maggiore efficacia, le fece seguire da manifestini manoscritti o stampati in clandestinità, inneggianti alla Costituzione, che vennero affissi in parecchi paesi della provincia di Avellino, Foggia e Lecce. L'azione di Rodinò produsse l'effetto opposto. A Foggia fu mandato Nicola Intonti che, chiamati coloro che avevano la fama di essere di liberali, affermò che non era possibile al governo concedere la Costituzione;  inoltre quella provincia fu riempita da un numero così grande di spie che la propaganda rivoluzionaria dovette subire un arresto.

Però dopo alcuni mesi di inattività, la propaganda carbonara cominciò nuovamente a svolgersi con grande attività nella Puglia, nella Basilicata, nelle province di Salerno e di Avellino e specialmente nella Terra di lavoro e nel circondario di Nola.

Gli anni che vanno dal 1818 al 1820 furono molto proficui  per la Carboneria: nelle sue fila erano entrati, per opera del generale Guglielmo Pepe, moltissimi soldati delle milizie provinciali. Aderivano ufficiali, magistrati, sacerdoti, impiegati, possidenti, commercianti, studiosi; le "vendite" erano in continuo contatto tra loro;  il collegamento tra le gerarchie supreme e le sezioni era perfetto;  la vasta associazione segreta poteva dirsi pronta ad agire; non mancava che l'ordine dei capi  per brandire le armi.

Erano a questo punto le cose quando, nei primi giorni di gennaio del 1820 giunse notizia nel Regno del pronunciamento di Cadice. Le notizie dalla Spagna non potevano che preoccupare il governo borbonico delle Due Sicilie.

Nella notte tra il 1 e il 2 luglio, un reggimento  di stanza a Nola guidato dai tenenti Morelli e Silvati si pose in marcia alla volta di Avellino, preceduto dai carbonari. Quando giunsero a Monteforte, anche la compagnia di militi provinciali fece causa comune con loro ed indusse una compagnia di soldati regolari ad imitarli;  inoltre giunse la notizia che le autorità di Avellino erano atterrite e che di là sarebbero giunti quella sera stessa alcuni reparti di fanteria che avevano abbracciato la causa della rivoluzione. Quando il 5 luglio, Guglielmo Pepe apprese che il due reggimenti della sua brigata avevano espresso il desiderio di andare a raggiungere gli insorti e che il movimento fosse diretto da lui, decise di mettersi a capo della rivoluzione. La mossa improvvisa di Guglielmo Pepe portò lo sbigottimento nella corte e segnò il trionfo della rivoluzione. Anche i generali del re capivano che la causa dell'assolutismo era ormai perduta. Alla mattina del 6 luglio apparve un editto firmato da Ferdinando in cui si prometteva una nuova costituzione.