Il Rossi col mastrogiurato Pazienza e i suoi tre colleghi sindaci, aveva firmato una allegazione a stampa in cui Paolo ed Antonio Di Sangro vengono accusati di non aver pagato la bonatenenza sui beni burgensatici, di aver introdotto una panetteria ed una taverna in concorrenza con quelle cittadine, di aver scoraggiato l'esercizio del mestiere di fornai e vasai, di aver sacrificato gli oliveti dei particolari ai propri allevamenti di porci e soprattutto alle proprie cacce indiscimninate, ma soprattutto di aver venduto o scambiato con le Benedettine circa 130 versure di territorio demaniale di valore variabile tra i 17 e 30 ducati per versura, e di aver incettato erbaggi per un danno al regio fisco non inferiore ai 3.000 ducati annui.

Il principe e il duca, quindi, si sono comportati secondo una logica privatistica più intransigente, che viene presentata nella luce efferata dell'abuso feudale, ma che in realtà non riflette se non l'impotenza di una borghesia proprietaria e di un ceto di massari che si stanno appena facendo le ossa al Soccorso, al Rosario, alle Grazie, al monte frumentario, dinnanzi ad una offensiva spregiudicata e sopraffattrice che rischiava di mandare all'aria, con opportuni privilegiamenti (cfr. accenno polemico alle Benedettine interlocutrici preferenziali del prepotere baronale) una struttura sociale e comunitaria in faticosa gestazione.

In quest'ottica l'episodio del 2 marzo del 1723 può essere inteso come la versione laica e borghese della battaglia per la libertas municipale che il clero ricettizio combatteva contro l'autorità vescovile.