Pagine di storia antica


L'eredità di Atene e Roma


Marta Sordi

A chi mi domanda, in questo momento in cui l'eredità del mondo classico sembra dimenticata e lo stesso liceo classico in pericolo, quali siano le acquisizioni del mondo greco e romano irrinunciabili per la formazione dell'uomo moderno, io, che della storia greca e romana ho sempre privilegiato gli aspetti politici, rispondo, senza naturalmente voler oscurare le altre importantissime conquiste culturali, la scoperta della democrazia da parte del mondo greco e il consapevole superamento dei conflitti etnici da parte del mondo romano.
Il fattore caratterizzante della storia greca nell'età classica (V e IV secolo a.C.) è la polis, la città, che fa del greco un animale politico, un cittadino, diverso dal barbaro, e condiziona gli aspetti non solo politici, ma anche culturali, morali, religiosi della sua vita. Nata dalla riforma politica del VII secolo e dallo spirito di solidarietà che la anima, la polis è fondata sull'uguaglianza di diritti di tutti gli uguali (isonomia), sulla partecipazione di questi uguali al governo della comunità e sulla adesione a culti comuni. Punto di arrivo di questa concezione è la democrazia, che trova in Atene il suo nome (governo del popolo) e la sua attuazione più piena, come Pericle afferma nell'epitaffio tucidideo per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso (11,37,1): «Essa è chiamata democrazia perché è amministrata non già per il bene di poche persone, ma per una cerchia più vasta; di fronte alla legge tutti nelle controversie private godono di uguale trattamento; e, secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, viene onorato, non per la sua parte politica, ma per il suo valore; né la povertà, se uno ha qualcosa di buono da fare per la città, trova impedimenti a causa dell'oscurità della posizione sociale». Nella concezione di cui Pericle si fa portavoce, democrazia non è una classe, i poveri contrapposti ai ricchi, come nella visione classista degli oligarchici della fine del V secolo, ma la totalità dei cittadini (esclusi gli stranieri e gli schiavi) indipendentemente dalla nobiltà della stirpe e dal censo; forza di questa democrazia è nella pace sociale e nel vastissimo consenso popolare.
Istituita pacificamente, con le riforme alla fine del VI secolo dell'aristocratico Clistene, essa si conserva pacificamente e, anche quando è abbattuta col terrorismo o con le armi straniere, come nel 411 e nel 404, e restaurata da Trasibulo con una guerra «partigiana», si affretta a ristabilire, con la prima amnistia della storia, la pace sociale, proprio perché si identifica con la tradizione, non solo politica, ma anche religiosa del popolo ateniese ed è la vera patrios politeia, la costituzione dei padri. In Atene il concetto di rivoluzione (neoterismos) si associa sempre non con la democrazia, ma con l'oligarchia o con la tirannide.
Ma Atene, la città più democratica al suo interno è anche la città tyrannos e detentrice di impero nei riguardi degli alleati della prima e poi, più copertamente, della seconda lega ateniese: così nei rapporti fra Greci, l'esasperazione, caratteristica della polis, degli ideali di autonomia e di eleutheria (libertà all'interno e all'esterno), provoca le guerre egemoniche che dilaniano la Grecia nel V e nel IV secolo ed è alla radice della fine della libertà della Grecia delle poleis, soggiogata dalla monarchia macedone.
Roma nasce, come urbs e come civitas, all'epoca dei Tarquini: l'incontro in una città urbanisticamente nuova di stirpi diverse (Latini, Sabini, Etruschi) fissa il carattere di «popolo misto», di cui Sallustio esalta la concordia e a cui Giove, nell'Eneide virgiliana, promette l'impero: il mito troiano, trasposizione dell'incontro effettivamente avvenuto in Roma fra popolazioni italiche e gli Etruschi, diversi per lingua e per costumi e provenienti, secondo la tradizione, dall'Asia, diventa simbolo di una realtà nuova, che presuppone l'incontro dell'Europa con l'Asia e con l'Africa (Dardano discendeva da Atlante) ed è diversissima da quella della polis greca, che cerca nella purezza etnica la sua identità. Roma, al contrario, sa, fin dalle origini, propagare la sua civitas al di là dei confini dell'urbs e trova in questa sua capacità di espansione e di assimilazione di tutto ciò che è valido, la sua identità. L'integrazione nel corpo civico degli schiavi liberati, il superamento fra il V e il IV secolo a.C. del conflitto fra patrizi e plebei, l'avanzata, fra il II e il I secolo a.C. degli homines novi, l'integrazione degli Italici nella cittadinanza agli inizi del I secolo a.C., l'assimilazione progressiva dei provinciali attraverso l'esercito e la colonizzazione fino alla constitutio antoniniana del 212, sono le tappe di uno sviluppo che ha momenti di sosta e di involuzione, ma che nasce da premesse connaturate nella situazione delle origini e che ne ha piena consapevolezza, come rivela il discorso di Cesare nella Catilinaria di Sallustio, il II libro del De re publica di Cicerone, con la cosiddetta costituzione di Romolo, il discorso del tribuno Canuleio in Livio, il discorso dell'imperatore Claudio nel 48 d.C. per l'ammissione in Senato dei notabili galli.
Il progetto di un impero ecumenico si sviluppa esplicitamente nei Romani solo dopo la fine della II guerra punica, il più grande pericolo corso da Roma per la sua sopravvivenza, e diventa cosciente, con la tematica della successione degli imperi, dopo le vittorie sulle grandi monarchie ellenistiche, ma trova ancora, nel mito troiano, come incontro di continenti e riconciliazioni di antichi conflitti, la sua legittimazione. È ciò che percepisce Dante nel De Monarchia (II,3, 17), quando indica nella discendenza di Roma da Enea, sulla linea di Virgilio, il segno della scelta divina dei Romani all'impero universale.

(Avvenire 10 settembre 2000)

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