Pagine di storia antica

La «guerra fredda» dell'antichità

Marta Sordi

Il conflitto fra Oriente e Occidente e quello fra Asia ed Europa tornano spesso nella problematica, che attraversa tutto il mondo antico, della successione degli imperi e della loro fine. Essa è collegata col motivo dell'impero universale che nasce in Oriente dove si sviluppa, appunto, per la prima volta il tema della successione degli imperi. Il problema, anticipato in qualche modo da Erodoto, che parlava della successione dei Persiani ai Medi e prometteva una trattazione sugli Assiri, ha la sua manifestazione più nota nel famoso sogno di Nabuccodonosor in Daniele: la statua dalla testa d'oro, dal petto e dalle braccia d'argento, dal ventre e dalle cosce di bronzo, dalle gambe di ferro, dai piedi di ferro e argilla, rappresenta la successione dei Persiani ai Babilonesi, di Alessandro ai Persiani, dei regni dei successori di Alessandro a quello del conquistatore macedone.
La stessa idea ritorna, applicata a Roma, in un frammento di Emilio Sura, citato dallo storico tiberiano Velleio Patercolo: ciò che colpisce, nel frammento di Sura, è la menzione della vittoria su Cartagine, passaggio fondamentale per la sottomissione a Roma della Macedonia e della Siria e per l'inserimento di Roma nella serie degli imperi. Per Emilio Sura, come, più tardi, per il cristiano Paolo Orosio, l'impero dei Romani è l'ultimo.
Posteriore di circa 2000 anni al più antico degli imperi universali, quello Assiro (per Sura); succeduto come un figlio bambino al vecchio padre, l'impero Babilonese (per Orosio); l'impero Macedone e quello Cartaginese rappresentanti del Settentrione e del Mezzogiorno, fungono solo da intermediari (tutores e curatores) rispetto ai soli due imperi veramente universali, quello dell'Oriente e quello dell'Occidente.
Il tema della successione degli imperi si collega così, spontaneamente, con quello della decadenza e della fine: esso era già presente nella profezia di Daniele sui quattro imperi e, già al tempo della repubblica e delle conquiste romane in Oriente, suonava come un grave monito contro Roma, che la propaganda antiromana identificava con il quarto impero, diviso fra ferro e creta, successo al primo (d'oro) dei Babilonesi, al secondo (d'argento) dei Persiani, al terzo (di bronzo) dei Macedoni, e destinato anch'esso ad essere travolto dal regno mandato da Dio.
Nell'adattamento di Emilio Sura l'impero dei romani era il quinto, dopo quello degli Assiri, dei Medi, dei Persiani e dei Macedoni, ed era sentito come il regno imperituro della pace voluta dalla divinità.
Per i cristiani dei primi secoli, che identificavano «l'impedimento al mistero dell'iniquità» (di cui parla san Paolo nella II lettera ai Tessalonicesi) con l'impero romano, la fine dell'impero coincideva con la fine del mondo. Per questo Tertulliano, nell'Apologetico, dice che i Cristiani hanno maggiore necessità degli altri di pregare per gli imperatori, perché sanno che la suprema violenza contro l'intero mondo e la fine stessa del tempo sono ritardate dall'impero romano.
Il mito della aeternitas di Roma sopravvive, anche nel cristiano Orosio, alla terribile delusione del 410, quando Roma fu devastata da Alarico. Egli, come il suo contemporaneo pagano Rutilio Namaziano, ne sogna la rinascita, proprio per la missione di pace e di unità fra i popoli nel diritto, che ne segna la vocazione. Questa visione ottimistica della storia di Roma, comune a Cristiani e pagani, coesiste però con un senso drammatico della decadenza e della fine, legata sempre, anche prima dell'avvento del cristianesimo, a motivi morali e religiosi, così da assumere colori apocalittici. L'epoca augustea è caratterizzata proprio dal superamento di una di queste crisi, quella delle guerre civili. Essa raggiunse il suo culmine intorno al 40 d.C., al tempo della guerra di Perugia. Negli Epodi VII e XVI Orazio coglie all'origine della catastrofe imminente l'empietà delle guerre civili, simboleggiate dal fratricidio di Romolo. Il Barbaro, che per Orazio è il Parto, calpesterà con i suoi cavalli il suolo di Roma e disperderà le ossa di Quirino. L'immagine di un re proveniente dall'Oriente e portatore di rovina era già presente nel III libro degli Oracoli sibillini, che risalgono al tempo di Mitridate o di Cleopatra, ma che contengono profezie più antiche, nate all'epoca delle guerre persiane in funzione antigreca.
A Roma l'angoscia di una fine imminente si ripresentò nel III secolo d.C. con la sconfitta e la cattura dell'imperatore Valeriano ad opera dei Persiani, che avevano ripreso in Oriente il posto dei Parti. In questo clima le antiche profezie riacquistarono nuovo vigore presso i pagani. Per il cristiano Commodiano i vecchi oracoli antiromani si integrano con l'Apocalisse. L'anticristo è un persiano (de Persida homo) che viene con i Persiani, i Caldei, i Medi e i Babilonesi per portare la fine a Roma e al mondo.
Ed un altro cristiano, Lattanzio, nel IV secolo, ricorda un altro oracolo, quello di Istaspe, secondo cui l'impero tornerà in Asia e, di nuovo, l'Oriente dominerà e l'Occidente servirà. Questa possibilità, che Lattanzio giudica con orrore, appare a lui il preannuncio sicuro della fine.


(Avvenire 12 novembre 2000)

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