Il conflitto fra Oriente e Occidente e quello fra Asia ed
Europa tornano spesso nella problematica, che attraversa tutto il mondo
antico, della successione degli imperi e della loro fine. Essa è collegata
col motivo dell'impero universale che nasce in Oriente dove si sviluppa,
appunto, per la prima volta il tema della successione degli imperi. Il
problema, anticipato in qualche modo da Erodoto, che parlava della successione
dei Persiani ai Medi e prometteva una trattazione sugli Assiri, ha la sua
manifestazione più nota nel famoso sogno di Nabuccodonosor in Daniele: la
statua dalla testa d'oro, dal petto e dalle braccia d'argento, dal ventre e
dalle cosce di bronzo, dalle gambe di ferro, dai piedi di ferro e argilla,
rappresenta la successione dei Persiani ai Babilonesi, di Alessandro ai
Persiani, dei regni dei successori di Alessandro a quello del conquistatore
macedone.
La stessa idea ritorna, applicata a Roma, in un frammento di Emilio Sura,
citato dallo storico tiberiano Velleio Patercolo: ciò che colpisce, nel
frammento di Sura, è la menzione della vittoria su Cartagine, passaggio
fondamentale per la sottomissione a Roma della Macedonia e della Siria e per
l'inserimento di Roma nella serie degli imperi. Per Emilio Sura, come, più
tardi, per il cristiano Paolo Orosio, l'impero dei Romani è l'ultimo.
Posteriore di circa 2000 anni al più antico degli imperi universali, quello
Assiro (per Sura); succeduto come un figlio bambino al vecchio padre, l'impero
Babilonese (per Orosio); l'impero Macedone e quello Cartaginese rappresentanti
del Settentrione e del Mezzogiorno, fungono solo da intermediari (tutores e
curatores) rispetto ai soli due imperi veramente universali, quello
dell'Oriente e quello dell'Occidente.
Il tema della successione degli imperi si collega così, spontaneamente, con
quello della decadenza e della fine: esso era già presente nella profezia di
Daniele sui quattro imperi e, già al tempo della repubblica e delle conquiste
romane in Oriente, suonava come un grave monito contro Roma, che la propaganda
antiromana identificava con il quarto impero, diviso fra ferro e creta,
successo al primo (d'oro) dei Babilonesi, al secondo (d'argento) dei Persiani,
al terzo (di bronzo) dei Macedoni, e destinato anch'esso ad essere travolto
dal regno mandato da Dio.
Nell'adattamento di Emilio Sura l'impero dei romani era il quinto, dopo quello
degli Assiri, dei Medi, dei Persiani e dei Macedoni, ed era sentito come il
regno imperituro della pace voluta dalla divinità.
Per i cristiani dei primi secoli, che identificavano «l'impedimento al
mistero dell'iniquità» (di cui parla san Paolo nella II lettera ai
Tessalonicesi) con l'impero romano, la fine dell'impero coincideva con la fine
del mondo. Per questo Tertulliano, nell'Apologetico, dice che i Cristiani
hanno maggiore necessità degli altri di pregare per gli imperatori, perché
sanno che la suprema violenza contro l'intero mondo e la fine stessa del tempo
sono ritardate dall'impero romano.
Il mito della aeternitas di Roma sopravvive, anche nel cristiano Orosio, alla
terribile delusione del 410, quando Roma fu devastata da Alarico. Egli, come
il suo contemporaneo pagano Rutilio Namaziano, ne sogna la rinascita, proprio
per la missione di pace e di unità fra i popoli nel diritto, che ne segna la
vocazione. Questa visione ottimistica della storia di Roma, comune a Cristiani
e pagani, coesiste però con un senso drammatico della decadenza e della fine,
legata sempre, anche prima dell'avvento del cristianesimo, a motivi morali e
religiosi, così da assumere colori apocalittici. L'epoca augustea è
caratterizzata proprio dal superamento di una di queste crisi, quella delle
guerre civili. Essa raggiunse il suo culmine intorno al 40 d.C., al tempo
della guerra di Perugia. Negli Epodi VII e XVI Orazio coglie all'origine della
catastrofe imminente l'empietà delle guerre civili, simboleggiate dal
fratricidio di Romolo. Il Barbaro, che per Orazio è il Parto, calpesterà con
i suoi cavalli il suolo di Roma e disperderà le ossa di Quirino. L'immagine
di un re proveniente dall'Oriente e portatore di rovina era già presente nel
III libro degli Oracoli sibillini, che risalgono al tempo di Mitridate o di
Cleopatra, ma che contengono profezie più antiche, nate all'epoca delle
guerre persiane in funzione antigreca.
A Roma l'angoscia di una fine imminente si ripresentò nel III secolo d.C. con
la sconfitta e la cattura dell'imperatore Valeriano ad opera dei Persiani, che
avevano ripreso in Oriente il posto dei Parti. In questo clima le antiche
profezie riacquistarono nuovo vigore presso i pagani. Per il cristiano
Commodiano i vecchi oracoli antiromani si integrano con l'Apocalisse.
L'anticristo è un persiano (de Persida homo) che viene con i Persiani, i
Caldei, i Medi e i Babilonesi per portare la fine a Roma e al mondo.
Ed un altro cristiano, Lattanzio, nel IV secolo, ricorda un altro oracolo,
quello di Istaspe, secondo cui l'impero tornerà in Asia e, di nuovo,
l'Oriente dominerà e l'Occidente servirà. Questa possibilità, che Lattanzio
giudica con orrore, appare a lui il preannuncio sicuro della fine.