Dal 21 al 23 settembre si terrà a
Cividale del Friuli un convegno internazionale su «Integrazione, mescolanza,
rifiuto: incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall'antichità
all'umanesimo». Il convegno è il secondo organizzato dalla Fondazione
Canussio e le tematiche prese in considerazione si concentreranno nei primi
due giorni sul mondo antico, dalla Grecia al tardo Impero Romano, per toccare
anche Medioevo e Rinascimento umanistico cercando di cogliere incontri e
scontri di popoli e di culture, modelli di accoglienza o di rifiuto nelle
civiltà che costituiscono l'Europa.
In questa costruzione si delineano, con caratteri propri, un modello greco e
un modello romano, la cui differenziazione si spinge e si accentua nel
Medioevo cristiano. Nella concezione greca dell'età classica l'Europa si
contrappone all'Asia, non solo come entità geografica, ma come complesso di
valori, identità culturale e politica; tale contrapposizione tende a
identificarsi con la contrapposizione Greci-Persiani, che nel IV secolo, con
Isocrate e con Aristotele, finisce per assumere anche un significato etnico,
di physis, diventando «diversità di natura». Questa concezione porta a
svalutare, come segno di inferiorità, ogni mescolanza etnica: tale è in
Tucidide, la concezione espressa nel 415 da Alcibiade, che ritiene facile la
conquista ateniese della Sicilia, perché le sue città hanno abbondanza di
popolazione, ma di razza mista. La diffidenza verso lo straniero, più o meno
accentuata (Sparta era nota per le sue «cacciate degli stranieri», mentre
Atene, per ragioni culturali e commerciali era più accogliente) veniva spesso
colmata, a livello propagandistico, con la creazione di miti di syngheneia
(parentela).
Nelle Supplici di Eschilo la comune discendenza dalla mitica Io serve a
giustificare la decisione dell'Atene di Pericle di intervenire a favore del
libico Inaro, ribelle alla Persia; la parentela, spiegata come un ritorno alle
sedi primitive o con l'autoctonia, serve in altre occasioni a superare la
contrapposizione fra classi subalterne e classi dominanti, come, ancora
nell'Atene di Pericle, il mito dell'autoctonia pelasgica serve alla promozione
dei teti e all'affermazione della democrazia radicale; come il recupero del
mito degli Eacidi e del loro incontro con gli Eraclidi serve a cementare al
tempo di Aleva, alla fine del VI secolo a. C., l'unità dei Tessali. Identità
di sangue, di lingua, di costumi è ciò che, secondo Erodoto, costituisce,
nella risposta degli Ateniesi agli Spartani al tempo della II guerra persiana
la stirpe greca (tò hellenikon).
Una concezione diversa si avverte, sin dalle origini, nella Sicilia greca, in
cui i regimi tirannici tendono, già agli inizi del V secolo a.C., a
incrementare demograficamente la popolazione, con la concessione della
cittadinanza a stranieri soprattutto mercenari, anche non greci (di qui le
osservazioni di Alcibiade, da cui siamo partiti). Questa linea viene
approfondita, soprattutto per influenza di Filisto, consigliere, ammiraglio e
storico di Dionigi I e poi di Dionigi II nella Siracusa dionisiana e proprio
in collegamento con l'estensione ad Occidente del concetto di Europa politica.
La syngheneia viene estesa ai barbari dell'Occidente (Celti, Illiri, Liguri)
che, come già i Campani, i tiranni di Siracusa arruolavano come mercenari, e
mira a realizzare un'unità territoriale che, dalla Sicilia, si estende
all'Europa, di cui Dionigi I si proclama signore («dinasta d'Europa»).
Nel mondo romano il concetto di Europa resta per lo più limitato al suo
significato geografico e l'unico mito di syngheneia, quello troiano, serve a
giustificare, più che momentanee alleanze (come quella con gli Elimi di
Sicilia al tempo della I guerra punica), il diritto a un dominio universale,
in quanto Enea, discendente di Atlante e di Dardano, è l'erede dell'Europa,
dell'Asia e dell'Africa. Popolo «misto» per lingua, per sangue, per costumi
i Romani diventano una realtà politica fondata nella concordia, una civitas.
La contrapposizione che i Greci avevano letto come Europa-Asia o come
Grecia-Persia viene letta semmai dai Romani come contrapposizione fra
Occidente e Oriente, nella convinzione (o nella speranza) che il cammino della
storia e degli imperi da Oriente a Occidente sia irreversibile. È questa la
convinzione (o la speranza) che dura fino al tardo antico, quando, pressoché
negli stessi anni, agli inizi del V secolo d.C., il gallo Rutilio Namaziano e
lo spagnolo Orosio sperano che Roma rinasca, per quel foedus commune che Roma ha creato fra i popoli, superando le differenze etniche
e le lontananze geografiche.
Ed è proprio nella cultura latina dell'Europa occidentale che, nel corso dei
secoli successivi, il concetto di Europa recupererà, al di là del
significato di regione geografica e di continente, quella pregnanza simbolica
e affettiva che aveva Europa per i Greci e Occidente per i Romani, quella
unità umana cui la Chiesa romana assicurerà comunione e il Sacro Romano
Impero cercherà di dare significato politico.
(Avvenire 17 settembre 2000)