Pagine di storia antica

I peccati degli imperatori

Marta Sordi
L'episodio più famoso della vita di Ambrogio, immortalato a più riprese e in epoche diverse in numerosi dipinti, è certamente la penitenza da lui inflitta all'imperatore Teodosio per la strage di Tessalonica. Nel 390, dopo che si erano verificati dei disordini nell'Illirico, scoppiò un tumulto nel circo di Tessalonica nel corso del quale un alto ufficiale di Teodosio, Buterico, fu linciato dalla folla. Teodosio, per punire i tessalonicesi, scatenò una rappresaglia sulla città provocando un eccidio di colpevoli e innocenti. Della penitenza che Ambrogio chiese all'imperatore per questa terribile rappresaglia siamo informati, oltre che da Ambrogio stesso nella lettera da lui inviata all'imperatore in quella occasione, anche da un passo del De obitu Theodosii, il discorso funebre pronunziato da Ambrogio al momento della morte dell'imperatore nel 395, e da altre fonti cristiane di poco posteriori ai fatti.
La mancanza di fonti alternative sull'episodio ha indotto studiosi recenti a dire che Ambrogio trasformò un avvenimento politico in una lezione di morale a beneficio delle pubbliche relazioni dell'imperatore, che nel discorso funebre dello stesso Ambrogio, come nel De civitate Dei di Agostino, viene celebrato per l'umiltà con cui accettò la penitenza. Questa osservazione potrebbe essere vera se avessimo a nostra disposizione solo i passi di Agostino e dell'ambrosiano De obitu Theodosii in cui il ricordo stesso della strage e della penitenza che ne seguì diventa occasione di lode per un imperatore che, al pari di David, aveva saputo riconoscere il proprio peccato e sottomettersi a Dio, attuando così, con la sincerità del proprio pentimento, quel modello del potere incoronato e frenato, che nel De obitu scaturisce dal racconto dell'inventio crucis e dall'utilizzazione dei chiodi della croce di Cristo per la corona e per il freno, simboli dell'impero romano cristiano e della sua differenza per l'impero pagano.
Ben diversa da quella del 395 era però la situazione del 390, quando la lettera a Teodosio fu scritta e quando Ambrogio (informato dell'eccidio in un periodo in cui Teodosio, ancora irritato dal suo intervento per la sinagoga di Callinico, lo teneva lontano dalle sue decisioni) sentì solo come un duro dovere quello di usare con l'imperatore la libertas dicendi, che egli aveva sempre rivendicato come diritto-dovere del vescovo. Nella lettera del 390 questa libertà di parola perde ogni tono rivendicativo e diventa l'adempimento, umile ma fermo, di un impegno rischioso, ma al quale non è lecito sottrarsi, perchè compiendolo si sceglie di ubbidire a Dio (Deum praefero).
Ambrogio è ben consapevole del pericolo che corre e scrive con discrezione e con timore, ricordando la vecchia amicizia e facendo presente che scrive di suo pugno parole che l'imperatore potrà leggere da solo. Non c'è nessuna teatralità né preoccupazione per le pubbliche relazioni di Teodosio nel suo gesto. La colpa di Teodosio era, come tutte le colpe, personale, ma era la colpa di un imperatore, compiuta nella gestione del potere imperiale.
Vale la pena di ricordare un precedente spesso dimenticato e a torto contestato: quello di Filippo l'Arabo, il primo imperatore cristiano, che raggiunse il potere dopo avere organizzato la rivolta in cui era stato ucciso nel 244 Gordiano III e che, volendo entrare in una chiesa per partecipare alla Pasqua, fu respinto dal vescovo locale (secondo Eusebio), da san Babila (secondo il Crisostomo) finché non si mise tra i penitenti riconoscendo il suo peccato.
Il peccato di Filippo, come quello di Teodosio, non riguardava solo la morale cristiana, ma era riconosciuto tale anche dai pagani, che a proposito di Costantino e dell'uccisione di Crispo e di Fausta accusavano il Cristianesimo di concedere un facile perdono a colpe inespiabili. Nel caso di Teodosio la colpa non riguardava infatti il ristabilimento dell'ordine pubblico per il quale i cristiani come i pagani riconoscevano il diritto allo stato all'uso della forza (come afferma Tertulliano quando ricorda che contro gli hostes publici ogni uomo diventa soldato), ma l'uccisione di innocenti.
Ambrogio, che nella lettera a Paterno mostra di voler chiamare le cose col loro nome (hostem ferire victoria est, reum equitas, innocentem homicidium), non contesta neppure qui l'autorità imperiale, ma la pretesa di coloro secondo cui imperatori licere omnia e, fissando i limiti che ad essa impone la legge divina e naturale, rivela come la libertas dicendi del vescovo, che è il filo conduttore di tutti i suoi interventi presso gli imperatori, possa divenire anche il presidio ultimo della libertà e, per chi governa, il banco di prova di un potere non tirannico.

(Avvenire - 19 Novembre 2000)

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