Pagine di storia antica

Schiavi per razza o per rapina

Marta Sordi

La schiavitù è un fenomeno presente in tutto il mondo antico, sotto la duplice forma della schiavitù etnica, nota in Oriente anche in età ellenistica, di interi popoli sottomessi e ridotti in condizioni simili a quella dei «servi della gleba» (questa era, in Grecia, in età classica, la situazione degli Iloti spartani e dei Penesti tessali) e della schiavitù mercantile, in cui lo schiavo, per lo più prigioniero di guerra, o vittima dei pirati o nato in casa, veniva comprato o venduto.
Che la prima fosse migliore della seconda è un'idea sostenuta a torto, in passato, dagli storici marxisti: la situazione degli Iloti spartani era certamente peggiore di quella degli schiavi «comprati» in Atene. É vero invece che fu proprio la liberazione della Messenia, i cui abitanti erano stati ridotti in condizione di Iloti, a rendere attuale, nel IV secolo in Grecia, il dibattito sulla natura della schiavitù, che era già iniziato alla fine del V secolo nella sofistica. Mentre Isocrate, nell'Archidamo, sostiene i diritti degli Spartani, Alcidamante, nel Messenico, di cui abbiamo solo un frammento conservato da Aristotele, sosteneva che «la natura non ha fatto schiavo nessuno... perché liberi tutti ci ha fatto Dio».
Ma i Messeni erano Greci, come gli Spartani. L'idea della schiavitù per natura è affermata invece, soprattutto per i barbari, da Platone e da Aristotele, secondo i quali, come è giusto sottomettere alla parte divina e spirituale che è nell'uomo la parte bestiale e corporea che è in lui, così è giusto che colui, che non riesce a comandare all'animale che è in lui, sia schiavo di colui in cui comanda la parte divina e spirituale. La schiavitù inoltre è utile e necessaria e potrebbe essere evitata solo se, come dice Omero delle ancelle d'oro costruite da Efesto, ci fosse l'automazione: per Aristotele in mancanza dell'automazione gli schiavi sono «strumenti animati».
L'idea dell'uguaglianza naturale di tutti gli uomini, già sostenuta dai sofisti, viene ripresa invece, nell'età ellenistica, dai cinici e dagli stoici, per i quali la virtù (areté) non è come per Platone e Aristotele, un fatto soprattutto intellettuale, la virtù della conoscenza, ma un fatto morale, il controllo delle passioni.
Lo stoicismo, che predicando il controllo delle passioni si adattava assai bene all'austero ideale di vita vetero-romano divenne presto la filosofia «ufficiale» della classe dirigente di Roma. L'uguaglianza naturale degli uomini, liberi e schiavi, si ritrova nel più illustre rappresentante dello stoicismo romano, Seneca, il cui pensiero sulla schiavitù, soprattutto nella epistola 47 a Lucilio, presenta molte analogie con quello di Paolo. Ma i Romani non avevano avuto bisogno dello stoicismo per sapere che gli schiavi erano della stessa natura dei loro padroni: servitus est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur: La schiavitù nasce dal diritto positivo, non è un fatto naturale. Anzi, è contro la natura stessa dell'uomo. Questa affermazione, come molte altre dello stesso tenore, si trova nel «Digesto», che è di età imperiale, ma è una convinzione che scaturisce dalla pratica (che i Romani conoscono fin dalle origini della loro storia e che li differenzia dai Greci) della concessione della cittadinanza allo schiavo liberato.
Il liberto romano diventa cittadino, un liberto ateniese (apeleutheros) diventa un meteco, uno straniero residente. Ma c'è di più: «figli di liberto hanno accesso alla magistratura» fa dire all'imperatore Claudio Tacito, parafrasando un famoso discorso del 48 d.C. giunto a noi nella Tabula di Lione, e «questo non è uso recente, ma molto antico». Noi sappiamo infatti che Cn. Flavio, liberto di Appio Claudio, fu edile alla fine del IV secolo a.C. e il macedone Filippo V, in guerra con Roma, attribuiva all'uso romano di integrare nella loro cittadinanza gli schiavi liberati la loro inesauribile disponibilità di uomini per la colonizzazione e per la guerra. Alla luce di questa disponibilità, originaria nei Romani, di integrare nella loro cittadinanza lo schiavo liberato, anche se straniero, si capisce l'uso certamente antico, attestato da Cicerone, (che utilizzando il termine «captivi» ci riporta all'origine della schiavitù dal diritto di guerra) liberare gli schiavi «onesti e diligenti» dopo il sesto anno (sexennio post, cioè nel settimo anno come nella legge mosaica).
La condizione posta della moralità dello schiavo si ritrova nelle limitazioni opposte da da Augusto al dilagare delle manumissioni con le leggi Iunia Canina e Aelia Sentia, secondo cui lo schiavo che avesse avuto precedenti condanne non poteva divenire, se liberato, cittadino romano.
Nonostante queste limitazioni la condizione degli schiavi sotto l'impero migliorò, soprattutto grazie agli interventi contro la crudeltà dei padroni da parte degli imperatori, decisi ad evitare torture e uccisioni arbitrarie.

(Avvenire 29 ottobre 2000)

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