Una guerra non dichiarata contro il popolo iracheno
(Le Monde Diplomatique, 1/99)
Sanzioni che uccidono
Più di otto anni dopo la loro adozione, e mentre il potere del presidente Saddam Hussein
si rafforza, le sanzioni continuano lentamente a distruggere la società irachena. Ma il
ruolo delle Nazioni unite è forse quello di torturare un intero popolo?
di Denis Halliday
L'imposizione delle sanzioni all'Iraq, decisa dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni
unite, è paragonabile a una guerra non dichiarata. Per la popolazione i risultati sono
gli stessi: stessa distruzione del suo benessere, stessa ipoteca sul suo futuro. Non sono
un esperto dell'Iraq, ma per mia fortuna, o sfortuna, ho avuto modo di vedere con i miei
occhi le conseguenze delle sanzioni durante i tredici mesi del mio soggiorno laggiù, come
coordinatore umanitario delle Nazioni unite, che si sono conclusi il 1&oord ottobre
1998.
Lavoravo in stretta cooperazione con le agenzie delle Nazioni unite presenti in Iraq che
erano, con la mia équipe, responsabili del programma "petrolio in cambio di
cibo" (1). Nel centro e al sud del paese operavamo con gli organismi iracheni
ufficiali, mentre al nord, nel Kurdistan, eravamo direttamente incaricati della
distribuzione del cibo. Eravamo quindi in grado di fornire ogni informazione appropriata
al segretario generale dell'Onu.
Da quando sono rientrato, ho potuto constatare che la maggior parte dei miei interlocutori
giornalisti, universitari, responsabili di organizzazioni non governative, etc... non
misurano l'entità dei danni inflitti all'infrastruttura civile irachena con i
bombardamenti dell'inizio del 1991. Stentano a capire che, da allora, molti degli edifici
distrutti non sono stati riparati per mancanza di entrate petrolifere sufficienti e a
causa delle sanzioni e dell'isolamento in cui è mantenuto l'Iraq. A Baghdad, ciò che
colpisce in primo luogo è lo stato di fatiscenza della città, le sue strade sporche e
non mantenute, i rifiuti a cielo aperto, le fogne straripanti, gli spazi verdi di una
volta ormai grigi, le case crollate, le zone urbane lasciate all'abbandono, in breve:
tutti i segni del declino e della trascuratezza. La municipalità non è più in grado di
pagare un numero sufficiente di spazzini e non è in grado di sostituire le attrezzature
danneggiate. L'intero sistema dei trasporti è fuori uso. Le linee aree interne, una volta
fiorenti, non funzionano più. I treni verso Bassora o Mossul, con i finestrini rotti,
viaggiano irregolarmente e le corriere sono un vero incubo per la ressa e il sudore. I
servizi postali e bancari non funzionano, l'acqua potabile non esce più dai rubinetti. La
disoccupazione, catastrofica, colpisce gran parte della popolazione perché le fabbriche
sono state bombardate e non si possono più importare materie prime. Si valuta dai cinque
ai sei milioni, solo per l'agglomerato di Baghdad, il numero di quanti non dispongono del
minimo vitale.
Quello che più sorprende sono gli sforzi della popolazione per sopravvivere. Si possono
vedere pochi bambini particolarmente fortunati che vanno a scuola e alcuni asili infantili
con i loro Topolini un po' sfioriti. Bancarelle variopinte sorgono in un equilibrio
precario su casse o vecchi scatoloni, ma il loro contenuto è inaccessibile per quanti
hanno stipendi fissi o per l'innumerevole massa dei poveri. Si trova di tutto, sigarette
che potete comperare anche una alla volta se avete mezzi limitati o scarpe di plastica, a
volte di falso cuoio. Dietro i camion, i clienti aspettano pazientemente nella calura del
crepuscolo per acquistare yogurt, formaggi, latte. Nella vecchia Baghdad, vicino al suk,
si incontrano i venditori d'acqua con le loro tazze collettive, si trovano panini
accatastati su grandi vassoi in metallo, o libri, migliaia di libri che privati cittadini
vendono sotto costo per comperare cibo, medicinali o altri beni di prima necessità.
S'incontrano anche bambini che i genitori mandano a mendicare, o vecchi che si vergognano
di chiedere l'elemosina. In questa società orgogliosa, l'accattonaggio non è ben
accetto. Quando mi capitava di dare alcuni dinari, certi iracheni me lo rimproveravano,
imbarazzati che fosse uno straniero a essere interpellato da un mendicante. All'angolo
delle strade, accanto ai semafori spesso rotti, si possono vedere bambini di
quattro-cinque anni mettere a repentaglio le dita dei piedi e a volte la vita per chiedere
un po' di denaro ai finestrini delle automobili. Ma i bambini di Baghdad non hanno bisogno
soltanto di cibo.
Quasi tutti mancano di vestiti puliti, non hanno una casa decente né acqua potabile. Non
possono nemmeno sognare una vita con cure sanitarie minime, con la sicurezza di un cibo
regolare ed equilibrato, con la possibilità di andare a scuola invece di lavorare o
chiedere la carità. Alcuni diventano delinquenti, un fenomeno piuttosto nuovo che ha
imposto, quando viene la sera, la chiusura della città vecchia, delle case da tè e delle
botteghe. Si valuta che il 30% dei bambini abbia lasciato la scuola quando il sistema
educativo pubblico di qualità, di cui il paese andava orgoglioso, negli anni 80 copriva
l'intero territorio. La stessa percentuale di bambini soffre di malnutrizione, con tutte
le conseguenze che si possono immaginare sulla loro salute fisica e mentale. Persino uno
straniero privilegiato non è al riparo dalle interruzioni di elettricità e dalla
mancanza di comfort in un'estate dove la temperatura raggiunge spesso i 50&oord C.
Fuori dagli uffici delle Nazioni unite si vedono guardie sottopagate nelle loro divise
consunte, che sperano di ottenere un po' di cibo alla mensa. Negli uffici ministeriali si
incontrano personaggi ufficiali che portano ogni giorno lo stesso vestito, la stessa
camicia, lo stesso paio di scarpe. Simbolo dei tempi difficili, i tappeti sono consumati e
pieni di buchi. Ovunque regna un clima di disperazione, di distruzione assieme fisica e
mentale che si tocca con mano ovunque si vada, persino negli ospedali. Qui, colpiscono
subito la sporcizia, le attrezzature fuori uso, i letti traballanti, la mancanza di
lenzuola. Anche se non si sono rassegnati, i medici sono sottoposti a terribili pressioni
quando devono prendere decisioni drammatiche: a chi prescrivere questo farmaco raro? A chi
dare questa cura vitale, fra decine di pazienti? chi deve morire e chi potrà, forse,
sopravvivere? La morte, che sarebbe facilmente evitabile, è diventata una realtà
quotidiana.
Inaugurato nel 1996, il programma "petrolio in cambio di cibo" ha consentito
cambiamenti positivi. Si sono potuti importare 8 milioni di metri cubi di cibo e di
medicinali. I ministeri e le agenzie irachene interessati lo gestiscono con molta
efficacia, in particolare attraverso cinquantamila agenti che assicurano la distribuzione
nel paese. Gli osservatori delle Nazioni unite, che sorvegliano questa distribuzione, non
hanno rilevato alcuna sottrazione di cibo o di farmaci: il fatto che non ci sia carestia
è una dimostrazione del successo dell'azione delle autorità. Oltre ai funzionari e ai
militari, il programma garantisce un aiuto ai più poveri, in particolare agli orfani,
alle famiglie con un solo genitore, etc.. Sebbene sia vitale per la popolazione, va
ricordato che questo programma non mette a disposizione denaro per la ricostruzione delle
infrastrutture del paese, della rete di acqua potabile o fognaria, ripristinare le reti
elettriche, ricostruire gli ospedali, etc.. Dopo otto anni di sanzioni accompagnate da
minacce di interventi militari americani e, di tanto in tanto, da qualche missile, regna
ovunque un grande fatalismo. L'assenza di speranza s'insinua ovunque. Ci sono giovani che
non riescono a trovare un lavoro corrispondente alla loro formazione, la cui ira e
frustrazione è tangibile. I nuovi diplomati raramente sono in grado di sostituire i molti
quadri fuggiti all'estero, con conseguenze disastrose, a lungo termine, per la
ricostruzione del paese. Le donne diplomate, che avevano acquisito prestigio durante la
guerra con l'Iran negli anni 1980-1988, perdono il lavoro qualificato in favore degli
uomini e il loro posto nella società regredisce. Molte di loro si esauriscono nelle
botteghe artigiane per guadagnare un po' di denaro, sicuramente più di quanto ne
otterrebbero con uno stipendio di dipendente pubblico, rosicchiato dall'inflazione e dalla
svalutazione del dinaro.
E la democrazia? Nonostante le illusioni di certi stati membri delle Nazioni unite, sotto
il regime delle sanzioni non esiste un ambiente propizio alla democrazia. Chi avrebbe
potuto battersi per la democrazia è andato via o è troppo occupato a sopravvivere
moltiplicando i lavori per portare un po' di cibo a una famiglia più o meno estesa. Gli
intellettuali, in particolare quelli che possono studiare o semplicemente viaggiare
all'estero, vivono una terribile alienazione e l'impressione tremenda di essere respinti
da tutti, dagli Stati uniti, dall'Europa e persino da certi loro vicini arabi. La
direzione politica, che all'estero viene ritenuta "estremista", è ormai
percepita da molti in Iraq come troppo moderata. Le viene rimproverato di continuare a
cercare compromessi con le Nazioni unite, nonostante otto anni di sanzioni. Molti hanno
espresso delusione quando Saddam Hussein ha annullato le sue decisioni dell'agosto e
dell'ottobre 1998 sulla sospensione della sua cooperazione con l'Unscom, la commissione
speciale dell'Onu incaricata del disarmo dell'Iraq.
Come ha spiegato un ministro, anche senza attacchi militari, le sanzioni uccidono 8.000
persone al mese. L'orgoglio nazionale spinge alcuni, in particolare all'interno del
partito Baas al potere, a ritenere che l'Iraq dovrebbe rompere ogni cooperazione con le
Nazioni unite e appellarsi alla solidarietà del mondo arabo e islamico per il cibo, i
medicinali e gli altri prodotti di prima necessità. Alla vigilia della mia partenza da
Baghdad, un ministro mi spiegava che persino i suoi figli gli rimproverano di cercare un
compromesso con l'Onu. Le sanzioni alimentano il fanatismo e potrebbero sfociare nella
crescita dell'estremismo politico. Un pericolo sottovalutato all'estero, nonostante la
vittoria dei taliban in Afganistan o gli insegnamenti della storia attestati dai progressi
del nazionalsocialismo tedesco all'indomani del trattato di Versailles.
Cosa bisogna fare, quando le relazioni fra le Nazioni unite, l'Unscom e l'Iraq continuano
a degradarsi? Chi si oppone a eliminare le sanzioni afferma che il presidente Saddam
Hussein è l'unico responsabile della situazione. Lui solo può ottenere la rimozione
delle sanzioni, acconsentendo alla richieste dell'Unscom. Non è forse lui a sprecare
denaro nella costruzione di palazzi? Una spiegazione, questa, un po' semplicistica. Dopo
otto anni di false speranze, di mancanza di sincerità a Baghdad e a New Yok, il popolo
iracheno è disperato. Demonizzare Saddam Hussein è servito solo a rafforzare il suo
potere in Iraq e la sua influenza nel mondo arabo e islamico.
Le minacce militari, le sanzioni, l'isolamento non hanno portato alcun cambiamento
positivo. Le sanzioni si sono rivelate un dispositivo brutale e disumano. Si può,
giustamente, odiare Saddam Hussein ma, allo stesso tempo, nella carta delle Nazioni unite
non c'è alcun articolo che giustifichi il suo assassinio né la tortura inflitta al suo
popolo. E' giunto il tempo di rinunciare ai piani volti a brutalizzare ancora di più
questo paese, assassinare i suoi dirigenti e darsi obiettivi diversi da quelli previsti
dalle risoluzioni delle Nazioni unite. E' tempo di aprire un vero dialogo, che consenta ai
paesi del Golfo di immaginare un futuro più pacifico.
note:
* Responsabile del programma umanitario dell'Onu per l'Iraq, si è dimesso per protesta
contro le sanzioni
torna al testo (1) La risoluzione 986 detta "petrolio in cambio di cibo" è
stata votata nel 1995 e attuata nel 1996. Prevede la possibilità per l'Iraq di esportare
petrolio per una determinata somma per comperare cibo e medicinali. Il denaro viene
gestito dalle Nazioni unite. Il 30% circa delle somme versate sono utilizzate per
finanziare il funzionamento dell'Unscom (la commissione speciale dell'Onu incaricata del
disarmo dell'Iraq) e per l'indennizzo delle vittime dell'invasione iracheno del Kuwait.
All'inizio, l'Iraq poteva esportare ogni semestre petrolio per due miliardi di dollari. La
risoluzione 1153 adottata nel febbraio 1998 ha portato questa somma a 5,2 miliardi. Ma,
allo stesso tempo, tenuto conto del crollo dei prezzi del petrolio e dello stato
dell'industria petrolifera irachena vittima delle sanzioni Baghdad non è in grado di
esportare l'equivalente di queste somme. (Traduzione di M.G.G.)
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