Udine, 9-10 settembre 1994

 

Gli studi giainici di L. P. Tessitori e il problema dei gimnosofisti

 

di Giorgio Giacometti

 

Intervento al Convegno su L. P. Tessitori

 

Gli studi di Tessitori

Sugli studi giainici di L. P. Tessitori già esiste un saggio di Carlo Della Casa, l'eminente studioso di giainismo[1], pubblicato negli Atti del Convegno Internazionale di Udine su Tessitori del 12-14 novembre 1987.

L'interesse di Tessitori per la religione e la civiltà jaina si è estrinsecato, dal punto di vista della produzione culturale ed erudita, nello studio e nella cura di edizioni critiche di testi giainici, per lo più manoscritti, conservati nella Regia Biblioteca Nazionale di Firenze e catalogati da Pavolini, maestro di Tessitori. Se Tessitori non si è «occupato di testi fondamentali per pensiero, inventiva, efficacia poetica»[2], cionondimeno la scelta che Tessitori ha operato di testi giainici non sembra affatto casuale. Anche se non si tratta, quindi, come non accade quasi mai in Tessitori, di scelte motivate da interessi prevalentemente estetici o letterari, ciò non diminuisce affatto il valore della sua accorta selezione che sembra preparata dall'intuizione di ciò che in un testo antico, in questo caso jaina, veramente importa sotto il profilo della lingua e della cultura. Le edizioni di Tessitori, infatti, al di là dell'interesse letterario che i singoli testi possono pure rivestire, si rivelano sempre più contributi indispensabili alla ricostruzione storica delle trasformazioni del mondo culturale indiano, in quanto riguardano spesso motivi della filosofia e del costume jaina molto importanti per l'intelligenza degli scambi culturali interni al mondo indiano e, ciò che interessa l'autore di queste righe, anche per quanto riguarda la ricostruzione ipotetica degli scambi più antichi tra mondo indiano e mondo greco[3].

E' già di per sé rilevante che l'interesse di Tessitori, per quanto riguarda gli studi giainici, si sia orientato alla letteratura gnomica. Si tratta del genere letterario che, proprio per la concisione con cui i suoi temi sono presentati, per quanto essa possa dispiacere al gusto del letterato moderno, forse meglio di altri si presta al confronto con i motivi e i topoi letterari di altre culture, al fine di ricostruire i possibili scambi storici reciproci.

Per mostrare in concreto la possibilità di tale tentativo di confronto e di ricostruzione per ciò che si riferisce alla cultura greca antica, benché esso sia reso difficile dalla complessiva scarsità di documenti soprattutto per il mondo greco, propongo di verificare il possibile valore delle edizioni tessitoriane di testi jaina come contributo indiretto alla chiarificazione della questione dell'identità dei gimnosofisti, cioè di quei sapienti indiani che Alessandro e i filosofi greci al suo seguito (in particolare Onesicrito, Callistene, Anassarco e Pirrone di Elide) incontrarono a Taksasila, presso l'Indo, tra la fine del marzo e il principio dell'aprile del 326 a. C..

Si tratta di una questione capitale che si devono porre quanti, tra gli studiosi di storia della filosofia occidentale, vogliano cominciare a comprendere quale possa essere stata l'influenza del mondo indiano sulla filosofia occidentale a partire dalla spedizione di Alessandro Magno, dunque, in definitiva, il genere di influenza esercitata dall'antica cultura indiana, mediata dall'ellenismo e da Roma, sulla storia della nostra civiltà.

Nel cercare di immaginare tale influenza occorrerà, peraltro, guardarsi da due opposti rischi: quello di limitarsi a derivare meccanicamente, sulla base dell'analogia, elementi culturali dall'una all'altra tradizione venute storicamente in contatto e quello di attribuire programmaticamente tutte le similitudini tra le due culture a confronto non a effettivi contatti, ma alla casuale emersione simbolica parallela di archetipi propri dell'universale natura umana. Possiamo piuttosto intendere, sotto il profilo filosofico, il concetto di influenza come la capacità che un contatto diretto o indiretto con una cultura diversa dalla propria ha o ha avuto di risvegliare per similitudine nella propria cultura virtualità inerenti a strutture archetipiche, bensì già presenti in essa, ma fino a quel momento solo in forma potenziale (insomma: la capacità che una cultura ha di fecondare i semi già insiti nell'altra).

L'ipotesi jaina

Potrebbe sembrare che la questione storico-filosofica dell'identità e dell'influenza dei gimnosofisti e quella dell'importanza dei testi jaina curati dal Tessitori, tutti molto posteriori, quanto alla loro redazione, all'epoca a cui si fa riferimento per la spedizione di Alessandro, non abbiano molto a che vedere l'una con l'altra. Ma si deve ricordare da un lato che quando nelle culture antiche incontriamo testi di carattere gnomico, mitologico e spesso anche filosofico si tratta sovente della messa per iscritto, sollecitata magari da pericoli di corruzione od oblio, a fenomeni di decadenza, di elementi culturali che, nel costume o nella religione, sono talora di molto anteriori a tale messa per iscritto; dall'altro lato che tra le ipotesi più importanti relativamente all'identità dei gimnosofisti vi è quella, se vogliamo la più immediata, che vuole che essi siano stati proprio jaina digambara, ossia seguaci del Mahavira vestiti di cielo, appunto sapienti nudi, gumnosofistai[4].

Vediamo su quali elementi concreti si può fondare tale ipotesi.

Le fonti a cui attingere per indagare l'identità dei gimnosofisti sono naturalmente: per quanto riguarda i Greci, principalmente Strabone, Plutarco, Arriano, Ippolito (ma non si devono trascurare le informazioni che possiamo evincere dal latino Plinio); per quanto riguarda gli Indiani, esse devono essere cercate nella letteratura vedica e upanisadica, nell'ardhamagadhi jaina, nel canone pali buddistico, infine, indirettamente, per le informazioni che ne possiamo trarre anche per i periodi più antichi, la letteratura medio-indiana in pracrito, quella, appunto, di cui si è prevalentemente occupato Tessitori.

L'incontro di Alessandro con i gimnosofisti è successivo alla sconfitta del re indiano Poro (Paurava) sul fiume Idaspe (Vitasta) (nell'attuale Pakistan). Secondo le fonti greche Alessandro, fino ad allora, non aveva esitato ad uccidere i «filosofi» indiani che, a differenza dei rispettivi sovrani, organizzavano la resistenza contro di lui[5]. Ma nella primavera del 326 l'incontro con i gimnosofisti fu pacifico. Esso avvenne nei pressi di Taxila (in greco) o Taksasila (in sanscrito), nel Gandhara, vicino all'attuale Rawalpindi, città in cui Alessandro poteva contare sull'amicizia del re locale. Dopo un primo scambio di battute tra Alessandro e due brahmana (bracmaneV), di cui uno lasciò le sue pratiche ascetiche per seguire il re macedone[6], il contatto che più ci interessa si svolse tra il filosofo cinico Onesicrito, che seguiva Alessandro e che ne lasciò testimonianza - raccolta poi da Plutarco e Strabone -, e un gruppo di asceti indiani nudi, in particolare un certo Calano e un certo Mandanis (o Dandamis)..

E' vero che la nudità, così come la fermezza nell'ascetismo che tanto colpiva il Macedone[7], nell'epoca a cui facciamo riferimento, è tratto che si ritrovava non solo presso i jaina, ma anche presso altre sette non bramaniche e gruppi interni all'ortodossia vedica[8], ma, ciò che - mi pare - non è stato sottolineato a sufficienza, essa sembra legarsi strettamente presso i gimnosofisti alla preferenza accordata alla fusiV, alla natura, rispetto al nomoV, alla legge. E' per tale ragione che Mandanis, il più autorevole degli asceti, poteva riconoscere la somiglianza della propria sapienza con quella di Socrate, Diogene e Pitagora, ossia con quella espressa dalla tradizione naturalistica dei socratici, dei cinici e dei pitagorici. Ciò non impediva al saggio indiano di rimproverare loro, appunto, l'eccessivo ossequio al nomoV, difetto che egli riconosceva nella mancata adozione da parte del cinico Onesicrito della regola della nudità[9].

Ora, certamente, se intendiamo qui per ossequio alla legge (nomoV) l'osservanza del dharma[10], chi faceva di tale ossequio un colpa non poteva che essere molto lontano da un'ottica jaina, così come da un punto di vista buddhista o vedico bramanico[11]. Proprio i testi pubblicati da Tessitori[12] ci ricordano l'importanza che il motivo del dharma rivestiva come riveste tuttora presso i jaina. Ma per nomoV, che significa prima di tutto costume, usanza[13], potremmo meglio intendere, alla luce del significato dell'opposizione semantica nomoV/fusiV nel mondo greco a partire dell'età dei sofisti, ciò che appunto non è kata fusin, ma solo kata sunqhkhn, ossia per convenzione. (o posizione, qesiV, in una parola: opera umana, artificio). Possiamo tentare, così, pur con qualche residua difficoltà, di riconoscere nella dottrina dei gimnosofisti un punto di vista non bramanico (come quello, appunto, jaina), ossia critico nei confronti della tradizione vedica, tale cioè da intendere come esteriore e convenzionale quel mondo di prescrizioni e divieti che caratterizzava l'osservanza tradizionale, il costume (nomoV), senza escludere perciò stesso che nell'ambito della propria comunità potesse operare il riferimento ad una ben codificata regula interna (il dharma del sangha).

Un indizio a conferma dell'ipotesi che i gimnosofisti incontrati da Onesicrito non fossero comunque brahmana in senso stretto, a differenza dei primi due personaggi incontrati a Taksasila da Alessandro, indicati esplcitamente come bracmaneV, potrebbe venire da un brano di Strabone, assai signfiicativo:

NearcoV peri twn sofistwn outw legei: touV men BracmanaV politeuesqai kai parakolouqein toiV basileusi sumboulouV, touV d allouV skopein ta peri thn fusin: toutwn d einai kai Kalanon: sumfilosofein d autoiV kai gunaikaV, taV de diaitaV apantwn sklhraV[14].

Se traduciamo intendendo quel BracmanaV come predicativo di touV men, abbiamo: «Nearco, a proposito dei sapienti <indiani> dice così: gli uni (touV men) governano (o fanno politica) in quanto brahmana e si accompagnano ai re come consiglieri, gli altri (touV d), diversi dai primi (allouV), osservano (skopein)[15] le cose della natura: uno di costoro fu anche Calano; facevano filosofia con loro anche le donne[16], e di tutti era propria una vita austera». Coloro che, uomini e donne insieme (in una sorta di cenobio), osservavano la natura e, verosimilmente, ne seguivano l'esempio, piuttosto che seguire la via della legge, del costume e della politica, erano dunque - possiamo intendere - altri dai brahmana.

Chi traduce «alcuni bramini... altri...»[17] mette involontariamente in crisi l'ipotesi jaina, perché costringe ad ammettere che Calano e, quindi, gli altri gimnosofisti come Mandanis, almeno secondo Nearco e, quindi, Strabone, siano stati brahmana. Quest'ultima traduzione sembrerebbe suggerita, per la verità, da un passo successivo di Strabone[18], nel quale lo storico e geografo greco oppone ai brahmana certi PramneV (= sramana?) che, da eristi ed elenctici quali erano, irridevano ai brahmana che studiavano fusiologia e astronomia. Di alcuni di questi PramneV, detti gumnhtai, si dice che usassero andare appunto nudi, gumnoi. Si potrebbe cercare di riconoscere in questi ultimi (e solo in essi) dei jaina digambara, riconoscendo viceversa nei gimnosofisti appunto dei «brahmana fusiologoi». Ma è pure possibile che il termine bracmaneV, qui, come eventualmente anche nella citazione di Nearco, sia stato adoperato da Strabone in senso lato, che non si riferisse cioè soltanto a quella che noi oggi sappiamo essere stata l'ortodossia bramanica in senso stretto.

Un'altra difficoltà contro l'ipotesi jaina viene da Ippolito che nella sua Refutatio omnium haeresium o Philosophumena, in età cristiana, riferisce di Dandamis (= Mandanis),  appunto come di un esponente dell'eresia (dal punto di vista cristiano) dei bracmaneV[19]. Tuttavia Ippolito, che sembra derivare le sue informazioni molto dettagliate sulla dottrina dei brahmana direttamente da fonti upanisadiche, perché fornisce informazioni assai puntuali sulla loro teologia, si rifà invece con tutta probabilità a un resoconto di seconda mano, ricavato da Megastene[20], per quanto riguarda l'asserito «bramanesimo» del gimnosofista Dandamis[21], sicché non è impossibile che egli abbia potuto erroneamente attribuire a lui quanto aveva scoperto della dottrina upanisadica.

Ancora un'altra difficoltà può essere fatta valere contro la nostra ipotesi: essa riguarda la considerazione che i saggi indiani incontrati da Onesicrito sembrano avere avuto del potere politico. Sembra, infatti, di poter leggere nei resoconti di Plutarco e di Strabone un accenno alla funzione politica del saggio, che potrebbe essere riferita meglio ai brahmana piuttosto che ai jaina. Una tale funzione sembra fatta propria sia da Calano[22], sia da Mandanis[23]. Ma l­o stesso Piantelli, che pure nel suo articolo su Pirrone di Elide ancora propendeva per l'identificazione dei gimnosofisti con saggi appartenenti all'ortodossia vedica[24], riconosce in questa stessa sede che, in ogni caso, tale funzione di consiglio politico poteva benissimo essere assolta anche da jaina e buddisti, là dove questi prevalevano culturalmente, nella misura in cui ne fossero stati richiesti dai sovrani (si pensi al caso esemplare, di lì a poco, dell'imperatore Asoka e della sua corte buddista). D'altra parte, sembra in generale propria di questi asceti la concezione dell'incompatibilità tra il frequentare i re e l'essere maestri di virtù[25].

E' pur vero che nel caso di Calano il disprezzo per il fatto che egli avesse lasciato la pratica ascetica per entrare al servizio di un padrone politico umano assume l'aspetto di una vera e propria accusa di empietà per aver abbandonato il servizio degli dei[26], come se appunto del servizio degli dei Calano si fosse occupato prima di seguire Alessandro e fosse stato, dunque, un brahmana. Ma, nel suo caso, possiamo chiederci, chi mosse tale accusa? Forse proprio persone legate alla cerchie bramaniche[27]. D'altra parte presso altre fonti la figura di Calano è vista con rispetto[28]. Tutto ciò potrebbe proprio suggerire che egli avesse potuto fare la scelta, del tutto anticonvenzionale, di seguire un re straniero, solo in quanto seguiva appunto una via non bramanica.

Per quanto riguarda la «teologia» dei gimnosofisti si deve osservare che le fonti non li presentano mai comne veri e propri sacerdoti, ma sempre solo come filosofi[29], carattere che si addice molto più ai membri di un ordine monastico, quali erano jaina e buddisti, che ai brahmana. Sembra, inoltre, che essi, se ci riferiamo non solo ai compagni di Calano, ma anche ai filosofi sospettati di aver istigato la rivolta di Sabba di cui ci riferisce Plutarco, non ammettessero che un uomo, fosse anche un re, potesse diventare dio. Alla domanda di Alessandro, come un uomo potesse diventare dio, costoro, infatti, risposero: «Se fa quanto non è possibile che un uomo faccia»[30]. Essi non sembrano, dunque, identificabili con quanti, tra i brahmana o altri gruppi, si riconoscevano nella dottrina upanisadica, allora verosimilmente già diffusa[31], dell'identità dell'atman individuale con il brahman universale.

D'altra parte, in Arriano, i gimnosofisti si oppongono alla pretesa di Alessandro di essere considerato figlio di Zeus[32] sostenendo, in modo apparentemente contraddittorio, che in verità tutti gli uomini sono figli di Zeus[33]. Possiamo forse leggere dietro questa concezione la caratteristica universalizzazione non bramanica della qualificazione alla liberazione dalla catena delle rinascite, che l'ortodossia castale tendeva a riservare soltanto ai dvija, ai due voltre nati.

L'accenno alle affinità tra i saggi indiani e Pitagora è particolarmente importante se assumiamo l'ipotesi che vede in essi dei jaina. Infatti la concordanza con Pitagora si riferisce tanto all'osservanza, condivisa sia dai gimnosofisti, sia dai pitagorici, di una rigorosa dieta vegetariana, quanto, verosimilmente, alla dottrina della trasmigrazione della anime[34]. Ora, la pratica vegetariana e la dottrina della metempsicosi, come è noto, sono strettamente connesse, nel giainismo, a una nozione ateistica o, almeno, teologicamente agnostica dell'essenza dell'anima (del jiva) che non si discosta di molto da quella orfico-pitagorica. Si pensi ai frammenti nei quali Empedocle di Agrigento, di cui si tramanda che fosse stato iniziato alla filosofia pitagorica, mostra di aborrire lo spargimento di sangue animale caratteristico dei sacrifici religiosi[35].

Ancora nel Bhavavairagyaçatakam, testo jaina in pracrito, tradotto da Tessitori, posteriore di molti secoli all'incontro di Alessandro con i saggi indiani, ricorrono particolari motivi che ricordano analoghi pitagorici e, quindi, (neo)platonici: quali il motivo delle catene dell'anima (bandha), della legge (dharma), della trasmigrazione negli animali, della vita dell'anima paragonata a quella di un attore (un mimo)[36], del carro. Queste analogie non dicono forse molto sull'identità dei gimnosofisti, ma militano certamente a favore di una possibile reciproca influenza tra sviluppo della dottrina jaina e sviluppo della filosofia occidentale, almeno se seguiamo il filo d'Arianna di certi specifici motivi, ciò che si spiegherebbe assai bene se si formulasse l'ipotesi secondo la quale sarebbero avvenuti precisi contatti tra le due culture..

La concezione espressa da Mandanis, in Strabone, secondo cui la morte non è altro che liberazione dalla vecchia carne e passaggio a una vita migliore e più pura (eiV beltiiw kai kaqarwteron bion)[37] può essere ascritta a molte tradizioni, ma quest'allusione probabile al tema dei diversi gradi di sofferenza e di beatitudine già patiti o goduti o da patirsi o godersi in altre vite a seconda del proprio karma, a seconda cioè di come si è vissuti, è certamente enfatizzata nella soteriologia jaina - in un orizzonte teologicamente neutro - fin dai tempi più antichi[38], così come è cara alla veduta platonica.

Infine c'è da considerare che in Pirrone d'Elide, che fu verosimilmente influenzato dal contatto con gli asceti indiani, non v'è traccia di preoccupazioni di ordine religioso, nel senso dell'osservanza di un particolare culto divino, ma solo una forte spinta ascetica verso l'imperturbabilità (ataraxia) fondata principalmente su una gnoseologia scettica. Questa gnoseologia, se non può essere collegata senza anacronismo alla saptabhangi jaina e se presenta solo vaghe analogie con il tetralemma cosiddetto pirroniano di Sanjaya Belatthiputta[39], maestro non bramanico contemporaneo al Buddha, in ogni caso ha senza dubbio maggiori similitudini con le ricerche degli esponenti delle scuole non bramaniche, ivi compreso il buddhismo, di quanto non sembri averne con gli sviluppi gnoseologici della tradizione vedica dell'età immediatamente postupanisadica (non dimentichiamo l'importanza, per la tradizione bramanica, dello jnana-marga, cioè della via della conoscenza, intesa in senso positivo e per nulla scettico)[40]. Lo stesso ideale dell'ataraxia, nella sua formulazione astratta e, a quanto pare, teologicamente neutra, sembra assai più vicino alle concezioni giainiche della liberazione attraverso forme pure di ascesi e di rinuncia all'azione di quanto non sembri vicino alle forme di tapas e, in generale, di ascesi vediche, ancora molto strettamente intrecciate in quest'epoca, almeno essotericamente, con le forme del rito (puja), della preghiera (tapas), dell'azione guerresca (sia pure esercitata senza desiderio di phalam, di frutto, secondo quello che sarà l'insegnamento della Bhagavad Gita) etc.

L'ipotesi ajivika

Tuttavia vi è un'ipotesi se vogliamo ancora più seducente. Si potrebbe pensare che gli asceti incontrati da Onesicrito fossero ajivika, una setta fatalista non bramanica il cui fondatore era contemporaneo al Mahavira[41]. Se intendiamo la preferenza accordata alla fusiV sul nomoV come adesione a una concezione fatalistica nella quale non fosse accordato spazio neppure alla legge della responsabilità, del dovere, del dharma (intendendo, quindi, ora il nomoV rigettato dai gimnosofisti proprio come dharma), potremmo pensare che i gimnosofisti fossero ajivika, considerando che questa setta era famosa per praticare la nudità[42] e il più rigido ascetismo[43].

Questa ipotesi è suggerita dall'attenzione particolare che gli ajivika, a quanto pare, portavano alla natura, sostanzialmente equiparata al fato e al caso. L'espressione «niyati-sangati-bhava-parinata», che si riferisce agli esseri viventi, significa probabilmente (se le prime tre parole sono intese come dvandva) che secondo gli ajivika i viventi erano «sviluppati (parinata) secondo destino (niyati), caso (samgati), natura (bhava[44]. La natura (bhava) in particolare era considerata, insieme con samgati, la manifestazione della niyati negli individui[45]. Occorre forse ricordare che la radice sanscrita bhu, di bhava, natura, è proprio la stessa (fu) del greco fusiV. Si potrebbe, quindi, intendere alla luce di questa dottrina ajivika l'enfasi che i gimnosofisti facevano cadere sul tema dell'ossequio della fusiV.

Indizi della possibile influenza ajivika sulla cultura ellenistica possono ritrovarsi, inoltre, sia nella filosofia stoica, sorta e diffusasi rapidamente proprio dopo la spedizione del Macedone, sia, molto più tardi, nella filosofia di Plotino.

Per quanto riguarda gli stoici la loro dottrina naturalistica del fato, inteso come eimarmenh, cioè come la parte che a ciascuno è stata destinata in sorte, è così nota che non vale troppo la pena di soffermarvisi. Da un lato si tratta di un'analogia molto forte con la concezione ajivika, dall'altro lato essa è assai generica.

Nel caso di Plotino, se seguiamo la tesi di Piantelli nel suo recente articolo in proposito[46], si potrebbe riconoscere una diretta influenza della concezione ajivika del jiva a forma globulare[47] in un passo di Plotino che parla sorprendentemente di anime caratterizzate da schmata sfairoeidh, da forme sferoidi[48]. Ciò che può sorprendere, ma mette conto di rilevare è la conclusione di Piantelli al riguardo, che non imputa tale influenza, come ci si aspetterebbe, al contatto diretto avuto da Plotino, e ben attestato, col mondo indiano[49], ma proprio ai gimnosofisti di Alessandro, nei quali, rovesciando il punto di vista che questo studioso aveva tenuto nel suo articolo già citato su Pirrone, propone di riconoscere appunto degli ajivika.

«Dal punto di vista della possibilità d'una diffusione extraindiana (degli ajivika) - scrive Piantelli - , anche se non abbiamo, a parte il caso qui in discussione, alcuna evidenza palmare d'una conoscenza dei contenuti della predicazione degli ajivika fuori del suolo indiano, la cosa non è da escludersi, trattandosi di una tendenza caratterizzata da un certo proselitismo. Esponenti della scuola risultano presenti in un'area abbastanza vasta, che va dal Kasmir all'India meridionale. D'altra parte la nudità integrale da loro abitualmente osservata rende perfettamente possibile che nei gimnosofisti incontrati da Onesicrito e, forse, da Megastene, siano ravvisabili degli ajivika»[50]

Infine, secondo Makkhali Gosala, il fondatore della setta, almeno stando a quanto fonti jaina testimoniano (forse con una punta di malevolenza), la conoscenza non sarebbe stata in alcun modo efficace per la possibilità di conseguire la moksa, la liberazione[51]. Sebbene questo «scetticismo» ante litteram degli ajivika circa la virtù della conoscenza non sia in effetti altrimenti attestato, esso, coerente col naturalismo fatalistico che caratterizzava la setta, potrebbe essere ben avere influenzato Pirrone (nella formulazione del binomio epoch - atarxia), qualora si ammetta che fra i gimnosofisti egli possa aver incontrato anche membri di tale setta.

Le difficoltà delle due precedenti ipotesi e il contributo di Tessitori alla ricostruzione della storia interna delle relazioni tra jaina e ajivika

Tuttavia, all'ipotesi ajivika si oppongono alcune considerazioni. La visione naturalistica del cosmo non impediva ai gimonosofisti di avvertire nella ubriV, nella tracotanza degli uomini e nella loro mancanza di autodominio (egkrateia) la causa dell'attuale corruzione del mondo[52]. Perciò i saggi, come difficilmente avrebbero potuto fare se fossero stati coerentemente fatalisti, davano per primi l'esempio di uno sforzo (ponoV) che ciascuno era chiamato a compiere per conquistare una vita migliore nell'al di là[53].

Ora, sembrerebbe, a questo punto, che tutte le interpretazioni circa l'identità dei gimnosofisti non soddisfino completamente perché la loro dottrina sembra discostarsi in un punto o nell'altro da ciò che sappiamo delle diverse dottrine indiane antiche, sia bramaniche, sia non bramaniche.

Per dare l'idea delle difficoltà che incontriamo a ricostruire l'ambiente religioso in cui la dottrina dei gimnosofisti potrebbe essere cresciuta possiamo ricordare, per esempio, che Strabone, non sappiamo se commettendo qualche confusione o per effetto di incontrollabili interpolazioni testuali, nel riferire dei costumi degli abitanti di Taksasila (e, dunque, verosimilmente anche di quelli dei saggi locali) cita perfino l'uso di chiara origine zoroastriana, (non dimentichiamo la vicinanza di Taksasila alla Persia) di lasciare che i cadaveri dei morti fossero divorati dagli avvoltoi[54].

Dobbiamo riconoscere, a questo punto, di non sapere realmente molto delle antiche sette, se non che esse dovevano essere molto più numerose e articolate[55] di ciò che ne sappiamo in base ai documenti che ci sono rimasti e alla sopravvivenza delle sette stesse nelle codificate forme attuali..

L'ipotesi conclusiva, alla luce di quanto si è visto, potrebbe essere, dunque, la seguente: i gimnosofisti potrebbero essere stati i membri di una delle molte sparse sette non bramaniche dell'epoca, poi sparite o rifusasi con i jaina, o con i buddisti, o con le stesse sette ortodosse vediche. Se così fosse, potremmo prendere sul serio l'insegnamento di Mandanis e Calano, nei nomi dei quali dobbiamo forse leggere quelli di un Mandana e di un Kalyana[56], maestri vissuti in un'epoca nella quale i motivi delle più disparate dottrine si intrecciavano fecondamente, soprattutto nel mondo dell'non bramanicia antibramanica (parallelamente a quanto avveniva in Grecia con le dottrine filosofiche dei fusiologoi, sviluppatesi a partire dall'epoca della crisi delle tradizioni omeriche[57]). Potremmo, cioè, esimerci dall'attribuire, forse troppo comodamente, ad errata comprensione soltanto, da parte dei Greci, quei tratti delle dottrine gimnosofistiche che non collimano con la nostra nozione delle sette e delle concezioni filosofiche indiane antiche e considerare, anzi, le relazioni di Onesicrito, Megastene etc., mediate da Strabone, Plutarco, Arriano, fonti importanti e sufficientemente attendibili per la ricostruzione del pensiero indiano del periodo[58].

In particolare ci seduce la possibilità di essere difronte a una setta per così dire originaria rispetto alla successiva netta contrapposizione tra jaina e ajivika, contrapposizione che potrebbe ben essere stata poi comprensibilmente retrodatata all'epoca dei coevi fondatori delle rispettive sette[59]. Lo suggerisce l'ipotesi di Jaini secondo la quale i jaina avrebbero aderito solo in un secondo tempo alla dottrina karmica classica che attribuisce alla responsabilità individuale la causa del destino dell'anima post mortem[60]. Originariamente i jaina avrebbero aderito a una concezione naturalistica di tipo evoluzionistico, analoga a quella degli ajivika con i quali avrebbero presentato molti punti i comune. Se così fosse i gimnosofisti potrebbero essere visti come un gruppo non dissimile ai jaina-ajivika originari, come attesta il loro acceso naturalismo, contemperato, tuttavia, dalla nozione della responsabilità del singolo (della sua ubriV o della sua egkrateia come attestano le fonti greche), piuttosto che di quella del cieco fato (la eimarmenh stoica), come causa del destino proprio e del mondo.

Ma l'ipotesi dell'esistenza di una setta del genere non è troppo ardita? Su quale base è condotta? In breve Jaini mostra due principali punti di contatto tra jaina e ajivika.

Il primo e più evidente è dato dal numero di mahakalpa (mahakappa in pali) o eoni che fatalmente, secondo gli ajivika, ciascuna anima avrebbe dovuto passare nel samsara prima di conseguire la moksa: 8.400.000[61]. Ora, per i jaina esistono nel mondo esattamente 8.400.000 yoni o matrici femminili, divise per tutte le specie di esseri. Questa coincidenza si spiegherebbe, secondo Jaini, assumendo che originariamente i jaina avessero assunto una prospettiva evoluzionistica secondo la quale ciascun'anima si sarebbe dovuta reincarnare in esseri via via superiori, attraversando, dunque, progressivamente, le 8.400.000 yoni, paragonabili, in quanto termini di tempo, agli eoni o mahakalpa degli ajivika[62].

Il secondo punto di contatto, nell'esposizione che ne fa Jaini, sembra meno evidente e meno diretto. I jaina conoscono una forma di esistenza, il nitya-nigoda, che si riferisce ad esseri che non hanno neppure più un corpo individuale, ma collettivo, quali alghe, muffe etc. Ora, in una prospettiva karmica basata sul merito individuale non si comprenderebbe come questi nigodanitya-nigoda», che signfica «sempre-nigoda», ma in realtà nel senso lato di «nigoda fino al momento della loro inspiegabile trasmigrazione in esseri superiori»), che sono ekendriya, ossia esseri dotati solo di senso tattile, e per di più privi di un corpo proprio, possano meritare l'elevazione alla condizione degli animali superiori, resa peraltro periodicamente necessaria per compensare numericamente l'elevazione dei migliori tra gli uomini alla condizione di siddha, ossia di liberati[63]. Jaini propone appunto l'ipotesi che originariamente i jaina avessero una concezione naturalistica, fatalistica ed evoluzionistica paragonabile a quella degli ajivika.

Vi è, inoltre, un particolare - sfuggito forse a Jaini - che potrebbe confermare l'ipotesi di una derivazione diretta della dottrina dei nigoda dagli ajivika[64]. La punizione di Gosala, il fondatore degli ajivika che, come abbiamo visto, aveva negato alla conoscenza virtù salvifiche sarebbe stata, secondo i jaina, proprio quella di rinascere come nigoda, anzi come itara-nigoda, ossia come forma infima di esistenza che non avrebbe neppure più potuto aspirare alla liberazione[65]. Ora, è assai frequente nel mondo antico, nel caso delle eresie filosofiche, l'attribuzione mitica di pene conformi alle colpe, pene, cioè, tratte spesso, per una sorta di simbolico contrappasso, dalla concezioni stesse che si condannavano[66]. Ancora nel secolo scorso, per esempio, anche se in modo faceto, era comune attribuire, da parte dei creazionisti, parentele scimmiesche a Darwin, per ciò che egli aveva osato sostenere circa l'origine dell'uomo. Così Plotino attribuisce agli stoici, che attribuivano intelligenza divina alla materia, una opaca ottusità[67]. E' quindi possibile che anche il destino esemplare di Gosala, imputatogli dai jaina, fosse paradossalmente coerente con la sua propria concezione della moksa. La punizione di Gosala potrebbe essere stata quindi tramandata presso i jaina ormai separatisi dagli ajiviika per suggerire che chi, come Gosala, credeva di poter conseguire la liberazione senza ricorrere alla giusta conoscenza era paragonabile a un nigoda, a un essere, cioè, così cieco da disporre di un solo senso, il tattile; ma tale allusione ai nigoda poteva servire forse anche per sviluppare uno spunto polemico contro una dottrina fatalistica ed evoluzionistica, quale era appunto quella propria di Gosala e degli ajivika, degna di essere vera solo per i propri rappresentanti, dottrina che un tempo forse, se l'ipotesi di Jaini è giusta, le due sette condividevano.

Si potrebbe, a questo punto, dubitare dell'importanza presso i jaina delle dottrine qui chiamate in causa, ossia quella dei nigoda e quella delle 8.400.000 yoni, che, a ragione o a torto, nell'ipotesi di Jaini attestano l'antico legame dei jaina con gli ajivika. Se, sottovalutando l'importanza di queste dottrine, si mette in discussione tale legame cade anche la nostra ipotesi conclusiva circa la connessione degli antichi jaina con concezioni comunque più varie di quelle codificatesi nella tradizione successiva della setta di Mahavira, concezioni proprie di diverse sette non bramaniche, tra le quali forse anche quella dei «gimnosofisti».

Ora, è proprio la Bhavavairagyaçatakam curata da Tessitori a confermare, invece, l'importanza proprio di queste due dottrine presso i jaina. Leggiamo infatti, nella traduzione del Nostro, le strofe 18 e, di seguito, 49-51:

Nel mondo invero le yoni sono 8.400.000; e in ognuna (di esse) l'anima infinite volte nasce.

Quei dolori terribili e infiniti che nell'inferno i dannati conseguono, di essi infinitamente multiplo è il dolore (che si consegue) nel nigoda (o meglio: tra i nigoda[68]).

Nel mezzo del (o meglio: dei) nigoda tu fosti alloggiata, o anima, dal potere del molteplice karman, e sopportasti un aspro dolore nell'infinito alternarsi della materia.

Uscita a stento di là hai conseguito la condizione di uomo, o anima; e in questa hai conseguito l'ottima legge (dharma) del Jina, la quale è simile alla pietra filosofale.

Vediamo qui come la legge del Mahavira, il dharma, non possa spiegare affatto il passaggio dell'anima dal nigoda (o meglio, come avverte Della Casa, dalla condizione nella quale essa stessa è nigoda, dunque dai nigoda come lei) alla condizione umana. In quel «kahavi» = «a stento» c'è tutta la problematica del passaggio dell'anima dalla condizione insensibile alla condizione umana secondo le leggi imperscrutabili della natura o del fato. Ossia, forse, la problematica dell'antica concezione gimnosofistica e/o ajivika della fusiV/bhava.

Una coincidenza curiosa

Mi si permetta di rilevare, in conclusione, una coincidenza curiosa. L'etimologia del nome del gimnosofista KalanoV rinvia al termine sanscrito kalyana, interpretato correttamente dai Greci come saluto, «salve»[69]. Curiosamente questo termine kalyana si ritrova proprio nell'incipit di un testo jaina, il Kalyanamandirastotra, dedicato al ventitreesimo tirthankara della setta jaina, Parsva, testo di cui Tessitori ha pubblicato una notevole traduzione metrica in antica bhaj-bhasa, il Paramajotistotra. Per chi non crede nelle coincidenze è affascinante vedere come dopo più di duemila anni dalla spedizione del Macedone un occidentale - Tessitori - abbia incontrato pacificamente l'India jaina nel segno di un cordiale saluto, kalyana, salve.


Bibliografia essenziale

Oltre alle fonti greche e latine citate (Strabone, Plutarco, Arriano, Plinio, Ippolito etc.) e non citate (Aristotele, Luciano etc.) si sono consultate principalmente le seguenti opere di letteratura secondaria:

 

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[1] Fra l'altro egli è autore anche de Il Jainismo, Torino, Boringhieri 1962.

 

[2] Carlo Della Casa, Gli studi giainici di Luigi Pio Tessitori in Luigi Pio Tessitori, Atti del Convegno Internazionale di Udine del 12-14 novembre 1987, a cura di C. Della Casa e D. Sagramoso, Brescia, Paideia 1990, p. 53.  Della Casa osserva, tuttavia, che tale scelta dimostra «quanto acutamente <Tessitori> individuasse le fasi più interessanti d'un'intera civiltà e sapesse incentrarsi sui motivi più tipici della visione giainica della vita».

 

[3] L'interesse di Tessitori per testi che in generale invitano a confrontare temi indiani con analoghi propri di altre culture è testimoniato per esempio dall'articolo di Tessitori Two Jaina Versions of the Story of Salomon's Judgment.

 

[4] E' questa l'ipotesi data per acquisita per esempio da Zimmer in H. Zimmer, Les philosophies de l'Inde, tr. fr., Paris, Payot, p. 168, n. 1 «A l'epoque de l'invasion d'Alexandre le Grand au delà de l'Indus (327-326 av. J.- C.), les Digambara étaient encore assez nombreux pour attirer l'attention des Grecs, qui les appelaient gymnosophistes, "philosophes nus", terme tout à fait approprié». Contra, cfr. J. FILLIOZAT, La valeur des connaissance gréco-romaines sur l'Inde, «Journal des savants», avril-kuin 1981, pp. 97-135.

 

[5] Cfr. Plutarco, Vita di Alessandro, 59, 8.

 

[6] Cfr. Strabone, Geografia, 15, 1, 61.

 

[7] Cfr. STRABONE, cit., 15, 1, 63.

 

[8] Cfr. J. Gonda, Die Religionen Indiens (1960), Bd 1, tr. it. Le religioni dell'India. Veda e antico induismo, Milano 1981, pp. 366 ss. M. Piantelli, Possibili elementi indiani nella formazione del pensiero di Pirrone d'Elide, in «Filosofia», NS, 29, n. 2, 1978, p. 145. Ma cfr. A. L. BASHAM, History and Doctrines of the Ajivikas. A Vanished Indian Religion, Londra 1951, Delhi 1981, p. 139, in cui si sottolinea che la nudità era tratto comune specialmente ai jaina e agli ajivika. Lo stesso Basham ricorda a più riprese (vedi p.e. p. 96-97) che tutti gli asceti nudi venivano genericamente indicati nei testi pali come acelaka, che è, dunque, una virtuale traduzione di gumnosofistai e di gumnhtai. FILLIOZAT, in La valeur, cit., p. 108, fa per contro la seguente affermazione: «Les Grecs ont consideré comme nus les brahmanes et sramanes qui se présentaient habituellement le torse et les jambes nus». Tuttavia egli non spiega su quali basi possa fare questa affermazione che sembra, in mancanza di riscontri oggettivi, soltanto un'ipotesi ad hoc per suffragare la propria interpretazione.

 

[9] Cfr. STRABONE, cit., 15, 1, 65: Mandanis risponde a Onesicrito circa i saggi greci en amartanein, nomon pro thV fusewV tiqemenouV: ou gar an aiscunesqai gumnouV, wsper auton, diagein (che sbagliano in una cosa, nell'anteporre la legge alla natura; altrimenti non si vergognerebbero, come lui, di andare nudi). Plutarco riferisce semplicemente (Plutarco, cit., 65, 3) che Mandanis (che in Plutarco è Dandamis) si limità a dire wV eufueiV men autw gegonenai dokousin oi andreV, lian de touV nomouV aiscunomenoi bebiwkenai (che quegli uomini (cioè i saggi greci) gli sembravano essere stati di buona razza, ma che fossero vissuti osservando troppo le leggi)

 

[10] Come fa Piantelli in Piantelli, Possibili elementi, cit. , p. 143.

 

[11] Cfr.  GONDA, cit., pp. 372 ss.

 

[12] Mi riferisco in particolare alla Uvaesamala e alla Bhavavairagyaçatakam.

 

[13] Cfr. Platone, Leggi, 904: oi kata nomon onteV qeoi = gli dei tradizionali della città (per distinguerli da quelli «naturali», «scoperti» dall'indagine filosofica). NomoV è propriamente la consuetudine come fonte del diritto, a meno che non si voglia assumere il signficato originario di nomoV, ripreso dal giurista e filosofo politico C. Schmitt in Der Nomos der Erde (1950), come Landnahme, occupazione della terra (da nemein, distribuire), significato che, tuttavia,.sembra del tutto estraneo al contesto straboniano e plutarcheo.

 

[14] STRABONE, cit., 15, 1, 66.

 

[15] E' significativo che Nearco adoperi qui il verbo che si riferisce in generale all'attività dei fisici greci, ma che si applica soprattutto per quegli scettici (skeptikoi) il cui antesignano fu proprio quel Pirrone d'Elide che accompagnava Alessandro.

 

[16] Si tratta di un costume probabilmente più diffuso presso i monaci delle sette non bramaniche che presso i brahmana, anche se FILLIOZAT, La valeur, cit., p. 109, cita il caso delle due iniziate, Maitreyi e Gangi, di cui si parla nella Brhadaranyaka-Upanisad.

 

[17] Cfr.McCrindle J. W., Ancient India as Described in Classical Literature, Westminster 1901, Delhi 1979, p. 72: «Some of the Brachmanes... the others...».

 

[18] STRABONE,  15, 1, 70.

 

[19] Cfr. IPPOLITO, Refutatio omium haeresium, 1, 24, 7.

 

[20] Il celebre storico che, poco dopo la morte di Alessandro Magno, fu ambasciatore di Seleuco Nicatore presso i re indiano del Magadha (Paliboqra = Pataliputra), çandragupta (AndrokottoV) dei Maurya.

 

[21] Vedi su ciò J. Filliozat, Les relations extérieurs de l'Inde, Institut Français d'Indologie, Pondicherry 1956, pp. 31 ss.

 

[22] Cfr. il paradeigma thV archV, cioè il modello di governo che Calano propone simbolicamente ad Alessandro rovesciando una pelle di bue in Plutarco, cit., 65, 6-8.

 

[23] Cfr. la dimostrazione di saggezza politica di Mandanis in STRABONE, cit., 15, 1, 64 e la sua rivendicazione della capacità di consiglio ivi, § 65..

 

[24] Ma cfr. il mutato punto di vista in M. Piantelli, L'India e Plotino, in «Annuario filosofico», 6, 1990, pp.190-91.

 

[25] Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 9, 61, ove, a proposito di Pirrone si dice che egli avesse udito un indiano rimproverare Anassarco wV ouk an eteron tina didaxai outoV agaqon, autoV aulaV basilikaV qerapeuwn (che egli non potesse insegnare nient'altro di buono (che il re già non sapesse) finché egli stesso frequentava le aule regie).

 

[26] Cfr. Arriano, Anabasi, 7, 3, 1. Cfr. anche STRABONE, cit., 15, 1, 68.

 

[27] Quest'ipotesi ci è suggerita da Ippolito che nella Refutatio (1, 24, 7) indica esplicitamente nei bracmaneV coloro che avrebbero accusato Calano di avere fatto «apostasia» dalla loro (kata touV) filosofia (ma non necessariamente dalla sua propria). Si pensi alla celebre «apostasia» dell'imperatore Giuliano che non fece che scegliere (airesqai, donde eresia) la religione dei padri condita di neoplatonismo.

 

[28] Cfr. Piantelli, Possibili elementi, cit. , p. 145.

 

[29] Eppure i Greci avevano un termine per indicare i sacerdoti, ossia ieroi o iereiV.

 

[30] Cfr. Plutarco, cit., 64, 9-10. Cfr. G. Dumezil, Alexandre et les sages de l'Inde, in Scritti in onore di Giuliano Bonfante, vol. II, Brescia, 1975, pp. 555 ss.

 

[31] Cfr.  GONDA, cit., p. 264.

 

[32] Cfr. anche STRABONE, cit., 15,

 

[33] Cfr. Arriano, Anabasi, 7, 2, 2 ss. Cfr. Piantelli, Possibili elementi, cit.; p. 138.

 

[34] Cfr. STRABONE, cit., 15, 1, 65: Onesicrito disse oti kai PuqagoraV toiauta legoi, keleuoi te emyucwn apecesqai (che anche Pitagora diceva cose simili (= trasmigrazione?) ed esortava ad astenersi da(l nutrirsi de)gli esseri animati)

 

[35] Cfr. Empedocle, Poema lustrale, fr. 137 Diels-Kranz:

Morfhn d allaxanta pathr filon uion aeiraV

sfazei epeucomenoV mega nhpioV: oi d eporeuntai...

wV d autwV pater uioV elwn kai mhtera paideV

qumon aporraisante filaV kata sarkaV edousin.

(Il padre, sollevando il caro figlio che ha mutato forma (in un animale)

    lo scanna supplicando, grande stolto; e gli altri lo guardano...

    Così il figlio afferrando il padre e i figli la madre,

    strappandone l'animo, ne divorano le care carni.)

 

[36] Cfr. per esempio PLOTINO, Enneadi, II, 2, 15: «Il morire è un cambiare di corpo, come l'attore cambia l'abito».

 

[37] Cfr. STRABONE, cit., 15, 1, 68.

 

[38] Cfr. P. S. Jaini, Karma and the Problem of Rebirth on Jainism in AA.VV. Karman and Rebirth in Classical Indian Traditions, a cura di Doniger O' Flaherty W., University of California Press 1980, p. 218, che parla del «more intense interest in karma shown by Jaina thinkers (and, to a lesser extent, by those of the Buddhists) relative to their Brahmanical counterparts».

 

[39] Cfr. BASHAM, cit., pp. 16-17.

 

[40] Cfr. Piantelli, Possibili elementi, cit., pp. 148-150.

 

[41] Cfr. Sugli ajivika fondamentale il più volte citato testo di Basham.

 

[42] Cfr.BASHAM, cit., pp. 107-109. Dalla ricostruzione di Basham sembra di poter arguire che Gosala tenesse molto al voto di nudità ajivika, dandogli un significato assai maggiore di quello ereditato dal Mahavira dai jaina digambara. Non sappiamo, tuttavia, se e in che misura quest'uso corrispondesse alla nozione ajivika di bhava, di natura.

 

[43] Cfr.BASHAM, cit., pp. 109-115. L'etimologia secondo la quale ajivika significherebbe «colui che sopravvive senza mezzi di sostentamento» ben si accorderebbe con il motivo della povertà presso i gimnosofisti, che predicavano la necessità di accontentasi di poco o nulla (cfr. Piantelli, Possibili elementi, cit., p. 138: dell'asceta si dice - la citazione è da Arriano - ecein gar oi eu ta paronta, cioè che gli va bene ciò che gli si presenta). Ma Basham respinge tale etimologia (cfr. p. 101).

 

[44] Cfr. BASHAM, cit., p. 225.

 

[45] Cfr. BASHAM, cit., p. 227.

 

[46] Cfr. Piantelli, L'India, cit., pp. 184-192.

 

[47] BASHAM, cit., pp. 270 ss.

 

[48] Cfr. Enneadi, IV, 4, 5.

 

[49] Cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 3, 17.

 

[50] Piantelli, L'India, cit., pp. 190-91.

 

[51] Cfr. Jaini, Karma, cit., pp. 224-25. La notizia sarebbe però contraddetta dallo studio di Basham, che attribuisce l'agnosticismo esclusivamente alla dottrina ereticale di Sanjaya Belatthiputta (cfr. BASHAM, cit., p. 17). Ma cfr. quanto Basham rileva a p. 20: un passo della Samyutta Nikaya riferisce di un discorso di un certo Mahali rivolto al Buddha nel quale, con un giro di parole pressoché identico a quello attribuito dalla Samannaphalaputta a Makkhali Gosala, si afferma che non vi sarebbero né cause, né fondamenti non solo per i peccati degli uomini, ma anche per l'ignoranza e la mancanza di discernimento, così come per la retta conoscenza.

 

[52] Cfr. STRABONE, cit.,15, 1, 64.

 

[53] E' pur vero che anche gli ajivika, come detto, praticavano l'ascesi, in greco ponoV, ma essi non potevano certamente argomentarne la necessità in termini morali.

 

[54] Cfr. STRABONE, cit., 15, 1 62: kai guyi riptesqai ton teteleuthkota.

 

[55] Cfr. per esempio l'elenco dei sei maestri eretici contemporanei del Buddha (tra cui lo stesso Gosala) del testo pali Samannaphalasutta (in BASHAM, cit., p. 11).

 

[56] Cfr. Piantelli, Possibili elementi, cit., pp. 137-38.

 

[57] Questo parallelismo con i filosofi ionici della natura è suggerito anche da Basham, nell'introduzione del suo libro (cfr. BASHAM, cit., p. 6)

 

[58] Gli studiosi di cose indiane sanno molto bene la difficoltà che si incontra nella datazione delle opere letterarie di quel popolo che, a differenza dei Greci, non ha elaborato un metodo che permetta facilmente a noi di collocare cronologicamente le loro opere. FILLIOZAT,  in La valeur, cit., ha affermato, a proposito di autori come Strabone, Plinio e Arriano, che «les données qu'ils nous livrent sont généralement conformes aux réalités que nous savons» (p. 103) e, a proposito dell'età di Alessandro, che «ce sont le sources grecques et latines qui donnent à cette histoire indienne... un élément chronologie absolue» (p. 104). Non bisogna dimenticare che sono proprio questi autori a mettere in dubbio la storiografia indiana immaginaria di un Ctesia e di un Filostrato (cfr. Strabone, cit., XV, 1, 12 e ARRIANO, Indica., III, 6). Sull'India immaginaria dei Greci e i suoi luoghi comuni, la cui conoscenza è utile a isolare, per differenza, le probabili notizie storicamente fondate, cfr. M. MUND-DOPCHIE, S: VANBAELEN, L'Iinde dans l'imaginaire grec, «Les études classiques», 57, 1989, n. 3, pp. 209-226.

 

[59] La vicinanza originaria tra la setta jaina e la setta ajivika, nonostante il sopravvenuto odium theologicum dei jaina per gli ajivika (cfr. BASHAM, cit., p. 38), può desumersi da una serie di elementi riferiti da Basham, tra i quali il fatto che degli ajivika parlino esclusivamente fonti jaina e buddiste (cfr. p. 34), il fatto dell'incontro e della primitiva collaborazione tra Gosala e il Mahavira (cfr. pp. 39 ss.) etc. Basham stesso conclude che «the rift between the two sects was not at first so profound as the Bhagavati sutra account (una fonte jaina) suggests» (p. 59). Più oltre: «That Ajivikas and Jainas were originally on good terms and indeed closely related, is evident from the Jaina tradition of early friendship and association of Gosala and Mahavira» (p. 138). Cfr. BASHAM, cit., pp. 138-141. Basham sottolinea come elemento di forte analogia tra le due sette proprio quel costume della nudità che per noi è tanto rilevante ai fini di una possibile indentificazione dei gumnosofistai..

 

[60] Cfr. Jaini, Karma, cit., pp. 227-28: «It is possible - so chiede retoricamente Jaini - that, for the Jainas, the doctrine of karma represents a relatively late (albeit pehistorical) accretion, a set of ideas imposed upon what was already a well-developed theoretical framework describing the operation of the universe? This framework, of cours, would have been the linear-evolutionary one»

 

[61] Cfr. BASHAM, cit., p. 252-254 e p 257-259.

 

[62] Cfr. Jaini, Karma, cit., p. 228.

 

[63] Cfr. Jaini, Karma, cit., pp. 224-227.

 

[64] Presso costoro, in effetti, la dottrina dei nigoda non appare in questa forma. Tuttavia anch'essi conoscono un ordine di esseri non senzienti, gli asannigabbha (riso, orzo etc.) (cfr. BASHAM, cit., p. 248).

 

[65] Cfr. Jaini, Karma, cit., pp. 224-25. Anche i buddisti si unirono ai jaina nel negare a Gosala la possibilità dell'illuminazione.

 

[66] In realtà tale simbolizzazione non era affatto arbitraria, ma era conseguenza rigorosa delle antiche concezioni morali secondo le quali la dottrina di un maestro doveva essere testimoniata dalla vita e, insieme, illuminarla.

 

[67] Cfr. Enneadi, VI, 1, 28- 29 (tr. it. di G. Faggin, Milano 1992): «E' davvero strana questa intelligenza che colloca la materia prima di sé e le attribuisce quell'essere che non ha dato a se stessa... La materia è dunque l'unico ente. Ma chi lo dice? Non sarà certo la materia stessa, a meno che la materia, in un modo d'essere, non sia l'intelligenza... Chi parla, parla così in quanto viene ad avere molto dalla materia e appartenere tutto alla materia; e se anche ha un'anima, egli ignora se stesso e quella potenza che è capace di dire il vero su tali argomenti».

 

[68] Come Della Casa corregge opportunamente la traduzione di Tessitori. Cfr. Della Casa, Gli studi giainici, cit., p. 55, n. 7.

 

[69] Cfr. Plutarco, cit., 65, 5: Epei de kat Indikhn glwttan tw kale prosagoreuwn anti tou cairein touV entugcanontaV hspazeto, KalanoV upo twn Ellhnwn wnomasqh.