Udine, 9-10
settembre 1994
Gli studi giainici di L. P. Tessitori e il problema dei gimnosofisti
Intervento al Convegno su L. P. Tessitori
Sugli studi giainici di L. P. Tessitori già esiste un saggio di Carlo Della Casa, l'eminente studioso di giainismo[1], pubblicato negli Atti del Convegno Internazionale di Udine su Tessitori del 12-14 novembre 1987.
L'interesse di Tessitori per la religione e la civiltà jaina si è estrinsecato, dal punto di vista della produzione culturale ed erudita, nello studio e nella cura di edizioni critiche di testi giainici, per lo più manoscritti, conservati nella Regia Biblioteca Nazionale di Firenze e catalogati da Pavolini, maestro di Tessitori. Se Tessitori non si è «occupato di testi fondamentali per pensiero, inventiva, efficacia poetica»[2], cionondimeno la scelta che Tessitori ha operato di testi giainici non sembra affatto casuale. Anche se non si tratta, quindi, come non accade quasi mai in Tessitori, di scelte motivate da interessi prevalentemente estetici o letterari, ciò non diminuisce affatto il valore della sua accorta selezione che sembra preparata dall'intuizione di ciò che in un testo antico, in questo caso jaina, veramente importa sotto il profilo della lingua e della cultura. Le edizioni di Tessitori, infatti, al di là dell'interesse letterario che i singoli testi possono pure rivestire, si rivelano sempre più contributi indispensabili alla ricostruzione storica delle trasformazioni del mondo culturale indiano, in quanto riguardano spesso motivi della filosofia e del costume jaina molto importanti per l'intelligenza degli scambi culturali interni al mondo indiano e, ciò che interessa l'autore di queste righe, anche per quanto riguarda la ricostruzione ipotetica degli scambi più antichi tra mondo indiano e mondo greco[3].
E' già di per sé rilevante che l'interesse di Tessitori, per quanto riguarda gli studi giainici, si sia orientato alla letteratura gnomica. Si tratta del genere letterario che, proprio per la concisione con cui i suoi temi sono presentati, per quanto essa possa dispiacere al gusto del letterato moderno, forse meglio di altri si presta al confronto con i motivi e i topoi letterari di altre culture, al fine di ricostruire i possibili scambi storici reciproci.
Per mostrare in concreto la possibilità di tale tentativo di confronto e di ricostruzione per ciò che si riferisce alla cultura greca antica, benché esso sia reso difficile dalla complessiva scarsità di documenti soprattutto per il mondo greco, propongo di verificare il possibile valore delle edizioni tessitoriane di testi jaina come contributo indiretto alla chiarificazione della questione dell'identità dei gimnosofisti, cioè di quei sapienti indiani che Alessandro e i filosofi greci al suo seguito (in particolare Onesicrito, Callistene, Anassarco e Pirrone di Elide) incontrarono a Taksasila, presso l'Indo, tra la fine del marzo e il principio dell'aprile del 326 a. C..
Si tratta di una questione capitale che si devono porre quanti, tra gli studiosi di storia della filosofia occidentale, vogliano cominciare a comprendere quale possa essere stata l'influenza del mondo indiano sulla filosofia occidentale a partire dalla spedizione di Alessandro Magno, dunque, in definitiva, il genere di influenza esercitata dall'antica cultura indiana, mediata dall'ellenismo e da Roma, sulla storia della nostra civiltà.
Nel cercare di immaginare tale influenza occorrerà, peraltro, guardarsi da due opposti rischi: quello di limitarsi a derivare meccanicamente, sulla base dell'analogia, elementi culturali dall'una all'altra tradizione venute storicamente in contatto e quello di attribuire programmaticamente tutte le similitudini tra le due culture a confronto non a effettivi contatti, ma alla casuale emersione simbolica parallela di archetipi propri dell'universale natura umana. Possiamo piuttosto intendere, sotto il profilo filosofico, il concetto di influenza come la capacità che un contatto diretto o indiretto con una cultura diversa dalla propria ha o ha avuto di risvegliare per similitudine nella propria cultura virtualità inerenti a strutture archetipiche, bensì già presenti in essa, ma fino a quel momento solo in forma potenziale (insomma: la capacità che una cultura ha di fecondare i semi già insiti nell'altra).
Potrebbe sembrare che la questione storico-filosofica dell'identità e dell'influenza dei gimnosofisti e quella dell'importanza dei testi jaina curati dal Tessitori, tutti molto posteriori, quanto alla loro redazione, all'epoca a cui si fa riferimento per la spedizione di Alessandro, non abbiano molto a che vedere l'una con l'altra. Ma si deve ricordare da un lato che quando nelle culture antiche incontriamo testi di carattere gnomico, mitologico e spesso anche filosofico si tratta sovente della messa per iscritto, sollecitata magari da pericoli di corruzione od oblio, a fenomeni di decadenza, di elementi culturali che, nel costume o nella religione, sono talora di molto anteriori a tale messa per iscritto; dall'altro lato che tra le ipotesi più importanti relativamente all'identità dei gimnosofisti vi è quella, se vogliamo la più immediata, che vuole che essi siano stati proprio jaina digambara, ossia seguaci del Mahavira vestiti di cielo, appunto sapienti nudi, gumnosofistai[4].
Vediamo su quali elementi concreti si può fondare tale ipotesi.
Le fonti a cui attingere per indagare l'identità dei gimnosofisti sono naturalmente: per quanto riguarda i Greci, principalmente Strabone, Plutarco, Arriano, Ippolito (ma non si devono trascurare le informazioni che possiamo evincere dal latino Plinio); per quanto riguarda gli Indiani, esse devono essere cercate nella letteratura vedica e upanisadica, nell'ardhamagadhi jaina, nel canone pali buddistico, infine, indirettamente, per le informazioni che ne possiamo trarre anche per i periodi più antichi, la letteratura medio-indiana in pracrito, quella, appunto, di cui si è prevalentemente occupato Tessitori.
L'incontro di Alessandro con i gimnosofisti è successivo alla sconfitta del re indiano Poro (Paurava) sul fiume Idaspe (Vitasta) (nell'attuale Pakistan). Secondo le fonti greche Alessandro, fino ad allora, non aveva esitato ad uccidere i «filosofi» indiani che, a differenza dei rispettivi sovrani, organizzavano la resistenza contro di lui[5]. Ma nella primavera del 326 l'incontro con i gimnosofisti fu pacifico. Esso avvenne nei pressi di Taxila (in greco) o Taksasila (in sanscrito), nel Gandhara, vicino all'attuale Rawalpindi, città in cui Alessandro poteva contare sull'amicizia del re locale. Dopo un primo scambio di battute tra Alessandro e due brahmana (bracmaneV), di cui uno lasciò le sue pratiche ascetiche per seguire il re macedone[6], il contatto che più ci interessa si svolse tra il filosofo cinico Onesicrito, che seguiva Alessandro e che ne lasciò testimonianza - raccolta poi da Plutarco e Strabone -, e un gruppo di asceti indiani nudi, in particolare un certo Calano e un certo Mandanis (o Dandamis)..
E' vero che la nudità, così come la fermezza nell'ascetismo che tanto colpiva il Macedone[7], nell'epoca a cui facciamo riferimento, è tratto che si ritrovava non solo presso i jaina, ma anche presso altre sette non bramaniche e gruppi interni all'ortodossia vedica[8], ma, ciò che - mi pare - non è stato sottolineato a sufficienza, essa sembra legarsi strettamente presso i gimnosofisti alla preferenza accordata alla fusiV, alla natura, rispetto al nomoV, alla legge. E' per tale ragione che Mandanis, il più autorevole degli asceti, poteva riconoscere la somiglianza della propria sapienza con quella di Socrate, Diogene e Pitagora, ossia con quella espressa dalla tradizione naturalistica dei socratici, dei cinici e dei pitagorici. Ciò non impediva al saggio indiano di rimproverare loro, appunto, l'eccessivo ossequio al nomoV, difetto che egli riconosceva nella mancata adozione da parte del cinico Onesicrito della regola della nudità[9].
Ora, certamente, se intendiamo qui per ossequio alla legge (nomoV) l'osservanza del dharma[10], chi faceva di tale ossequio un colpa non poteva che essere molto lontano da un'ottica jaina, così come da un punto di vista buddhista o vedico bramanico[11]. Proprio i testi pubblicati da Tessitori[12] ci ricordano l'importanza che il motivo del dharma rivestiva come riveste tuttora presso i jaina. Ma per nomoV, che significa prima di tutto costume, usanza[13], potremmo meglio intendere, alla luce del significato dell'opposizione semantica nomoV/fusiV nel mondo greco a partire dell'età dei sofisti, ciò che appunto non è kata fusin, ma solo kata sunqhkhn, ossia per convenzione. (o posizione, qesiV, in una parola: opera umana, artificio). Possiamo tentare, così, pur con qualche residua difficoltà, di riconoscere nella dottrina dei gimnosofisti un punto di vista non bramanico (come quello, appunto, jaina), ossia critico nei confronti della tradizione vedica, tale cioè da intendere come esteriore e convenzionale quel mondo di prescrizioni e divieti che caratterizzava l'osservanza tradizionale, il costume (nomoV), senza escludere perciò stesso che nell'ambito della propria comunità potesse operare il riferimento ad una ben codificata regula interna (il dharma del sangha).
Un indizio a conferma dell'ipotesi che i gimnosofisti incontrati da Onesicrito non fossero comunque brahmana in senso stretto, a differenza dei primi due personaggi incontrati a Taksasila da Alessandro, indicati esplcitamente come bracmaneV, potrebbe venire da un brano di Strabone, assai signfiicativo:
NearcoV peri twn sofistwn
outw legei: touV men BracmanaV politeuesqai kai parakolouqein toiV basileusi
sumboulouV, touV d allouV skopein ta peri thn fusin: toutwn d einai kai
Kalanon: sumfilosofein d autoiV kai gunaikaV, taV de diaitaV apantwn sklhraV[14].
Se traduciamo intendendo quel BracmanaV come predicativo di touV men, abbiamo: «Nearco, a proposito dei sapienti <indiani> dice così: gli uni (touV men) governano (o fanno politica) in quanto brahmana e si accompagnano ai re come consiglieri, gli altri (touV d), diversi dai primi (allouV), osservano (skopein)[15] le cose della natura: uno di costoro fu anche Calano; facevano filosofia con loro anche le donne[16], e di tutti era propria una vita austera». Coloro che, uomini e donne insieme (in una sorta di cenobio), osservavano la natura e, verosimilmente, ne seguivano l'esempio, piuttosto che seguire la via della legge, del costume e della politica, erano dunque - possiamo intendere - altri dai brahmana.
Chi traduce «alcuni bramini... altri...»[17] mette involontariamente in crisi l'ipotesi jaina, perché costringe ad ammettere che Calano e, quindi, gli altri gimnosofisti come Mandanis, almeno secondo Nearco e, quindi, Strabone, siano stati brahmana. Quest'ultima traduzione sembrerebbe suggerita, per la verità, da un passo successivo di Strabone[18], nel quale lo storico e geografo greco oppone ai brahmana certi PramneV (= sramana?) che, da eristi ed elenctici quali erano, irridevano ai brahmana che studiavano fusiologia e astronomia. Di alcuni di questi PramneV, detti gumnhtai, si dice che usassero andare appunto nudi, gumnoi. Si potrebbe cercare di riconoscere in questi ultimi (e solo in essi) dei jaina digambara, riconoscendo viceversa nei gimnosofisti appunto dei «brahmana fusiologoi». Ma è pure possibile che il termine bracmaneV, qui, come eventualmente anche nella citazione di Nearco, sia stato adoperato da Strabone in senso lato, che non si riferisse cioè soltanto a quella che noi oggi sappiamo essere stata l'ortodossia bramanica in senso stretto.
Un'altra difficoltà contro l'ipotesi jaina viene da Ippolito che nella sua Refutatio omnium haeresium o Philosophumena, in età cristiana, riferisce di Dandamis (= Mandanis), appunto come di un esponente dell'eresia (dal punto di vista cristiano) dei bracmaneV[19]. Tuttavia Ippolito, che sembra derivare le sue informazioni molto dettagliate sulla dottrina dei brahmana direttamente da fonti upanisadiche, perché fornisce informazioni assai puntuali sulla loro teologia, si rifà invece con tutta probabilità a un resoconto di seconda mano, ricavato da Megastene[20], per quanto riguarda l'asserito «bramanesimo» del gimnosofista Dandamis[21], sicché non è impossibile che egli abbia potuto erroneamente attribuire a lui quanto aveva scoperto della dottrina upanisadica.
Ancora un'altra difficoltà può essere fatta valere contro la nostra ipotesi: essa riguarda la considerazione che i saggi indiani incontrati da Onesicrito sembrano avere avuto del potere politico. Sembra, infatti, di poter leggere nei resoconti di Plutarco e di Strabone un accenno alla funzione politica del saggio, che potrebbe essere riferita meglio ai brahmana piuttosto che ai jaina. Una tale funzione sembra fatta propria sia da Calano[22], sia da Mandanis[23]. Ma lo stesso Piantelli, che pure nel suo articolo su Pirrone di Elide ancora propendeva per l'identificazione dei gimnosofisti con saggi appartenenti all'ortodossia vedica[24], riconosce in questa stessa sede che, in ogni caso, tale funzione di consiglio politico poteva benissimo essere assolta anche da jaina e buddisti, là dove questi prevalevano culturalmente, nella misura in cui ne fossero stati richiesti dai sovrani (si pensi al caso esemplare, di lì a poco, dell'imperatore Asoka e della sua corte buddista). D'altra parte, sembra in generale propria di questi asceti la concezione dell'incompatibilità tra il frequentare i re e l'essere maestri di virtù[25].
E' pur vero che nel caso di Calano il disprezzo per il fatto che egli avesse lasciato la pratica ascetica per entrare al servizio di un padrone politico umano assume l'aspetto di una vera e propria accusa di empietà per aver abbandonato il servizio degli dei[26], come se appunto del servizio degli dei Calano si fosse occupato prima di seguire Alessandro e fosse stato, dunque, un brahmana. Ma, nel suo caso, possiamo chiederci, chi mosse tale accusa? Forse proprio persone legate alla cerchie bramaniche[27]. D'altra parte presso altre fonti la figura di Calano è vista con rispetto[28]. Tutto ciò potrebbe proprio suggerire che egli avesse potuto fare la scelta, del tutto anticonvenzionale, di seguire un re straniero, solo in quanto seguiva appunto una via non bramanica.
Per quanto riguarda la «teologia» dei gimnosofisti si deve osservare che le fonti non li presentano mai comne veri e propri sacerdoti, ma sempre solo come filosofi[29], carattere che si addice molto più ai membri di un ordine monastico, quali erano jaina e buddisti, che ai brahmana. Sembra, inoltre, che essi, se ci riferiamo non solo ai compagni di Calano, ma anche ai filosofi sospettati di aver istigato la rivolta di Sabba di cui ci riferisce Plutarco, non ammettessero che un uomo, fosse anche un re, potesse diventare dio. Alla domanda di Alessandro, come un uomo potesse diventare dio, costoro, infatti, risposero: «Se fa quanto non è possibile che un uomo faccia»[30]. Essi non sembrano, dunque, identificabili con quanti, tra i brahmana o altri gruppi, si riconoscevano nella dottrina upanisadica, allora verosimilmente già diffusa[31], dell'identità dell'atman individuale con il brahman universale.
D'altra parte, in Arriano, i gimnosofisti si oppongono alla pretesa di Alessandro di essere considerato figlio di Zeus[32] sostenendo, in modo apparentemente contraddittorio, che in verità tutti gli uomini sono figli di Zeus[33]. Possiamo forse leggere dietro questa concezione la caratteristica universalizzazione non bramanica della qualificazione alla liberazione dalla catena delle rinascite, che l'ortodossia castale tendeva a riservare soltanto ai dvija, ai due voltre nati.
L'accenno alle affinità tra i saggi indiani e Pitagora è particolarmente importante se assumiamo l'ipotesi che vede in essi dei jaina. Infatti la concordanza con Pitagora si riferisce tanto all'osservanza, condivisa sia dai gimnosofisti, sia dai pitagorici, di una rigorosa dieta vegetariana, quanto, verosimilmente, alla dottrina della trasmigrazione della anime[34]. Ora, la pratica vegetariana e la dottrina della metempsicosi, come è noto, sono strettamente connesse, nel giainismo, a una nozione ateistica o, almeno, teologicamente agnostica dell'essenza dell'anima (del jiva) che non si discosta di molto da quella orfico-pitagorica. Si pensi ai frammenti nei quali Empedocle di Agrigento, di cui si tramanda che fosse stato iniziato alla filosofia pitagorica, mostra di aborrire lo spargimento di sangue animale caratteristico dei sacrifici religiosi[35].
Ancora nel Bhavavairagyaçatakam, testo jaina in pracrito, tradotto da Tessitori, posteriore di molti secoli all'incontro di Alessandro con i saggi indiani, ricorrono particolari motivi che ricordano analoghi pitagorici e, quindi, (neo)platonici: quali il motivo delle catene dell'anima (bandha), della legge (dharma), della trasmigrazione negli animali, della vita dell'anima paragonata a quella di un attore (un mimo)[36], del carro. Queste analogie non dicono forse molto sull'identità dei gimnosofisti, ma militano certamente a favore di una possibile reciproca influenza tra sviluppo della dottrina jaina e sviluppo della filosofia occidentale, almeno se seguiamo il filo d'Arianna di certi specifici motivi, ciò che si spiegherebbe assai bene se si formulasse l'ipotesi secondo la quale sarebbero avvenuti precisi contatti tra le due culture..
La concezione espressa da Mandanis, in Strabone, secondo cui la morte non è altro che liberazione dalla vecchia carne e passaggio a una vita migliore e più pura (eiV beltiiw kai kaqarwteron bion)[37] può essere ascritta a molte tradizioni, ma quest'allusione probabile al tema dei diversi gradi di sofferenza e di beatitudine già patiti o goduti o da patirsi o godersi in altre vite a seconda del proprio karma, a seconda cioè di come si è vissuti, è certamente enfatizzata nella soteriologia jaina - in un orizzonte teologicamente neutro - fin dai tempi più antichi[38], così come è cara alla veduta platonica.
Infine c'è da considerare che in Pirrone d'Elide, che fu verosimilmente influenzato dal contatto con gli asceti indiani, non v'è traccia di preoccupazioni di ordine religioso, nel senso dell'osservanza di un particolare culto divino, ma solo una forte spinta ascetica verso l'imperturbabilità (ataraxia) fondata principalmente su una gnoseologia scettica. Questa gnoseologia, se non può essere collegata senza anacronismo alla saptabhangi jaina e se presenta solo vaghe analogie con il tetralemma cosiddetto pirroniano di Sanjaya Belatthiputta[39], maestro non bramanico contemporaneo al Buddha, in ogni caso ha senza dubbio maggiori similitudini con le ricerche degli esponenti delle scuole non bramaniche, ivi compreso il buddhismo, di quanto non sembri averne con gli sviluppi gnoseologici della tradizione vedica dell'età immediatamente postupanisadica (non dimentichiamo l'importanza, per la tradizione bramanica, dello jnana-marga, cioè della via della conoscenza, intesa in senso positivo e per nulla scettico)[40]. Lo stesso ideale dell'ataraxia, nella sua formulazione astratta e, a quanto pare, teologicamente neutra, sembra assai più vicino alle concezioni giainiche della liberazione attraverso forme pure di ascesi e di rinuncia all'azione di quanto non sembri vicino alle forme di tapas e, in generale, di ascesi vediche, ancora molto strettamente intrecciate in quest'epoca, almeno essotericamente, con le forme del rito (puja), della preghiera (tapas), dell'azione guerresca (sia pure esercitata senza desiderio di phalam, di frutto, secondo quello che sarà l'insegnamento della Bhagavad Gita) etc.
Tuttavia vi è un'ipotesi se vogliamo ancora più seducente. Si potrebbe pensare che gli asceti incontrati da Onesicrito fossero ajivika, una setta fatalista non bramanica il cui fondatore era contemporaneo al Mahavira[41]. Se intendiamo la preferenza accordata alla fusiV sul nomoV come adesione a una concezione fatalistica nella quale non fosse accordato spazio neppure alla legge della responsabilità, del dovere, del dharma (intendendo, quindi, ora il nomoV rigettato dai gimnosofisti proprio come dharma), potremmo pensare che i gimnosofisti fossero ajivika, considerando che questa setta era famosa per praticare la nudità[42] e il più rigido ascetismo[43].
Questa ipotesi è suggerita dall'attenzione particolare che gli ajivika, a quanto pare, portavano alla natura, sostanzialmente equiparata al fato e al caso. L'espressione «niyati-sangati-bhava-parinata», che si riferisce agli esseri viventi, significa probabilmente (se le prime tre parole sono intese come dvandva) che secondo gli ajivika i viventi erano «sviluppati (parinata) secondo destino (niyati), caso (samgati), natura (bhava)»[44]. La natura (bhava) in particolare era considerata, insieme con samgati, la manifestazione della niyati negli individui[45]. Occorre forse ricordare che la radice sanscrita bhu, di bhava, natura, è proprio la stessa (fu) del greco fusiV. Si potrebbe, quindi, intendere alla luce di questa dottrina ajivika l'enfasi che i gimnosofisti facevano cadere sul tema dell'ossequio della fusiV.
Indizi della possibile influenza ajivika sulla cultura ellenistica possono ritrovarsi, inoltre, sia nella filosofia stoica, sorta e diffusasi rapidamente proprio dopo la spedizione del Macedone, sia, molto più tardi, nella filosofia di Plotino.
Per quanto riguarda gli stoici la loro dottrina naturalistica del fato, inteso come eimarmenh, cioè come la parte che a ciascuno è stata destinata in sorte, è così nota che non vale troppo la pena di soffermarvisi. Da un lato si tratta di un'analogia molto forte con la concezione ajivika, dall'altro lato essa è assai generica.
Nel caso di Plotino, se seguiamo la tesi di Piantelli nel suo recente articolo in proposito[46], si potrebbe riconoscere una diretta influenza della concezione ajivika del jiva a forma globulare[47] in un passo di Plotino che parla sorprendentemente di anime caratterizzate da schmata sfairoeidh, da forme sferoidi[48]. Ciò che può sorprendere, ma mette conto di rilevare è la conclusione di Piantelli al riguardo, che non imputa tale influenza, come ci si aspetterebbe, al contatto diretto avuto da Plotino, e ben attestato, col mondo indiano[49], ma proprio ai gimnosofisti di Alessandro, nei quali, rovesciando il punto di vista che questo studioso aveva tenuto nel suo articolo già citato su Pirrone, propone di riconoscere appunto degli ajivika.
«Dal punto di vista della possibilità d'una diffusione extraindiana (degli ajivika) - scrive Piantelli - , anche se non abbiamo, a parte il caso qui in discussione, alcuna evidenza palmare d'una conoscenza dei contenuti della predicazione degli ajivika fuori del suolo indiano, la cosa non è da escludersi, trattandosi di una tendenza caratterizzata da un certo proselitismo. Esponenti della scuola risultano presenti in un'area abbastanza vasta, che va dal Kasmir all'India meridionale. D'altra parte la nudità integrale da loro abitualmente osservata rende perfettamente possibile che nei gimnosofisti incontrati da Onesicrito e, forse, da Megastene, siano ravvisabili degli ajivika»[50]
Infine, secondo Makkhali Gosala, il fondatore della setta, almeno stando a quanto fonti jaina testimoniano (forse con una punta di malevolenza), la conoscenza non sarebbe stata in alcun modo efficace per la possibilità di conseguire la moksa, la liberazione[51]. Sebbene questo «scetticismo» ante litteram degli ajivika circa la virtù della conoscenza non sia in effetti altrimenti attestato, esso, coerente col naturalismo fatalistico che caratterizzava la setta, potrebbe essere ben avere influenzato Pirrone (nella formulazione del binomio epoch - atarxia), qualora si ammetta che fra i gimnosofisti egli possa aver incontrato anche membri di tale setta.
Tuttavia, all'ipotesi ajivika si oppongono alcune considerazioni. La visione naturalistica del cosmo non impediva ai gimonosofisti di avvertire nella ubriV, nella tracotanza degli uomini e nella loro mancanza di autodominio (egkrateia) la causa dell'attuale corruzione del mondo[52]. Perciò i saggi, come difficilmente avrebbero potuto fare se fossero stati coerentemente fatalisti, davano per primi l'esempio di uno sforzo (ponoV) che ciascuno era chiamato a compiere per conquistare una vita migliore nell'al di là[53].
Ora, sembrerebbe, a questo punto, che tutte le interpretazioni circa l'identità dei gimnosofisti non soddisfino completamente perché la loro dottrina sembra discostarsi in un punto o nell'altro da ciò che sappiamo delle diverse dottrine indiane antiche, sia bramaniche, sia non bramaniche.
Per dare l'idea delle difficoltà che incontriamo a ricostruire l'ambiente religioso in cui la dottrina dei gimnosofisti potrebbe essere cresciuta possiamo ricordare, per esempio, che Strabone, non sappiamo se commettendo qualche confusione o per effetto di incontrollabili interpolazioni testuali, nel riferire dei costumi degli abitanti di Taksasila (e, dunque, verosimilmente anche di quelli dei saggi locali) cita perfino l'uso di chiara origine zoroastriana, (non dimentichiamo la vicinanza di Taksasila alla Persia) di lasciare che i cadaveri dei morti fossero divorati dagli avvoltoi[54].
Dobbiamo riconoscere, a questo punto, di non sapere realmente molto delle antiche sette, se non che esse dovevano essere molto più numerose e articolate[55] di ciò che ne sappiamo in base ai documenti che ci sono rimasti e alla sopravvivenza delle sette stesse nelle codificate forme attuali..
L'ipotesi conclusiva, alla luce di quanto si è visto, potrebbe essere, dunque, la seguente: i gimnosofisti potrebbero essere stati i membri di una delle molte sparse sette non bramaniche dell'epoca, poi sparite o rifusasi con i jaina, o con i buddisti, o con le stesse sette ortodosse vediche. Se così fosse, potremmo prendere sul serio l'insegnamento di Mandanis e Calano, nei nomi dei quali dobbiamo forse leggere quelli di un Mandana e di un Kalyana[56], maestri vissuti in un'epoca nella quale i motivi delle più disparate dottrine si intrecciavano fecondamente, soprattutto nel mondo dell'non bramanicia antibramanica (parallelamente a quanto avveniva in Grecia con le dottrine filosofiche dei fusiologoi, sviluppatesi a partire dall'epoca della crisi delle tradizioni omeriche[57]). Potremmo, cioè, esimerci dall'attribuire, forse troppo comodamente, ad errata comprensione soltanto, da parte dei Greci, quei tratti delle dottrine gimnosofistiche che non collimano con la nostra nozione delle sette e delle concezioni filosofiche indiane antiche e considerare, anzi, le relazioni di Onesicrito, Megastene etc., mediate da Strabone, Plutarco, Arriano, fonti importanti e sufficientemente attendibili per la ricostruzione del pensiero indiano del periodo[58].
In particolare ci seduce la possibilità di essere difronte a una setta per così dire originaria rispetto alla successiva netta contrapposizione tra jaina e ajivika, contrapposizione che potrebbe ben essere stata poi comprensibilmente retrodatata all'epoca dei coevi fondatori delle rispettive sette[59]. Lo suggerisce l'ipotesi di Jaini secondo la quale i jaina avrebbero aderito solo in un secondo tempo alla dottrina karmica classica che attribuisce alla responsabilità individuale la causa del destino dell'anima post mortem[60]. Originariamente i jaina avrebbero aderito a una concezione naturalistica di tipo evoluzionistico, analoga a quella degli ajivika con i quali avrebbero presentato molti punti i comune. Se così fosse i gimnosofisti potrebbero essere visti come un gruppo non dissimile ai jaina-ajivika originari, come attesta il loro acceso naturalismo, contemperato, tuttavia, dalla nozione della responsabilità del singolo (della sua ubriV o della sua egkrateia come attestano le fonti greche), piuttosto che di quella del cieco fato (la eimarmenh stoica), come causa del destino proprio e del mondo.
Ma l'ipotesi dell'esistenza di una setta del genere non è troppo ardita? Su quale base è condotta? In breve Jaini mostra due principali punti di contatto tra jaina e ajivika.
Il primo e più evidente è dato dal numero di mahakalpa (mahakappa in pali) o eoni che fatalmente, secondo gli ajivika, ciascuna anima avrebbe dovuto passare nel samsara prima di conseguire la moksa: 8.400.000[61]. Ora, per i jaina esistono nel mondo esattamente 8.400.000 yoni o matrici femminili, divise per tutte le specie di esseri. Questa coincidenza si spiegherebbe, secondo Jaini, assumendo che originariamente i jaina avessero assunto una prospettiva evoluzionistica secondo la quale ciascun'anima si sarebbe dovuta reincarnare in esseri via via superiori, attraversando, dunque, progressivamente, le 8.400.000 yoni, paragonabili, in quanto termini di tempo, agli eoni o mahakalpa degli ajivika[62].
Il secondo punto di contatto, nell'esposizione che ne fa Jaini, sembra meno evidente e meno diretto. I jaina conoscono una forma di esistenza, il nitya-nigoda, che si riferisce ad esseri che non hanno neppure più un corpo individuale, ma collettivo, quali alghe, muffe etc. Ora, in una prospettiva karmica basata sul merito individuale non si comprenderebbe come questi nigoda («nitya-nigoda», che signfica «sempre-nigoda», ma in realtà nel senso lato di «nigoda fino al momento della loro inspiegabile trasmigrazione in esseri superiori»), che sono ekendriya, ossia esseri dotati solo di senso tattile, e per di più privi di un corpo proprio, possano meritare l'elevazione alla condizione degli animali superiori, resa peraltro periodicamente necessaria per compensare numericamente l'elevazione dei migliori tra gli uomini alla condizione di siddha, ossia di liberati[63]. Jaini propone appunto l'ipotesi che originariamente i jaina avessero una concezione naturalistica, fatalistica ed evoluzionistica paragonabile a quella degli ajivika.
Vi è, inoltre, un particolare - sfuggito forse a Jaini - che potrebbe confermare l'ipotesi di una derivazione diretta della dottrina dei nigoda dagli ajivika[64]. La punizione di Gosala, il fondatore degli ajivika che, come abbiamo visto, aveva negato alla conoscenza virtù salvifiche sarebbe stata, secondo i jaina, proprio quella di rinascere come nigoda, anzi come itara-nigoda, ossia come forma infima di esistenza che non avrebbe neppure più potuto aspirare alla liberazione[65]. Ora, è assai frequente nel mondo antico, nel caso delle eresie filosofiche, l'attribuzione mitica di pene conformi alle colpe, pene, cioè, tratte spesso, per una sorta di simbolico contrappasso, dalla concezioni stesse che si condannavano[66]. Ancora nel secolo scorso, per esempio, anche se in modo faceto, era comune attribuire, da parte dei creazionisti, parentele scimmiesche a Darwin, per ciò che egli aveva osato sostenere circa l'origine dell'uomo. Così Plotino attribuisce agli stoici, che attribuivano intelligenza divina alla materia, una opaca ottusità[67]. E' quindi possibile che anche il destino esemplare di Gosala, imputatogli dai jaina, fosse paradossalmente coerente con la sua propria concezione della moksa. La punizione di Gosala potrebbe essere stata quindi tramandata presso i jaina ormai separatisi dagli ajiviika per suggerire che chi, come Gosala, credeva di poter conseguire la liberazione senza ricorrere alla giusta conoscenza era paragonabile a un nigoda, a un essere, cioè, così cieco da disporre di un solo senso, il tattile; ma tale allusione ai nigoda poteva servire forse anche per sviluppare uno spunto polemico contro una dottrina fatalistica ed evoluzionistica, quale era appunto quella propria di Gosala e degli ajivika, degna di essere vera solo per i propri rappresentanti, dottrina che un tempo forse, se l'ipotesi di Jaini è giusta, le due sette condividevano.
Si potrebbe, a questo punto, dubitare dell'importanza presso i jaina delle dottrine qui chiamate in causa, ossia quella dei nigoda e quella delle 8.400.000 yoni, che, a ragione o a torto, nell'ipotesi di Jaini attestano l'antico legame dei jaina con gli ajivika. Se, sottovalutando l'importanza di queste dottrine, si mette in discussione tale legame cade anche la nostra ipotesi conclusiva circa la connessione degli antichi jaina con concezioni comunque più varie di quelle codificatesi nella tradizione successiva della setta di Mahavira, concezioni proprie di diverse sette non bramaniche, tra le quali forse anche quella dei «gimnosofisti».
Ora, è proprio la Bhavavairagyaçatakam curata da Tessitori a confermare, invece, l'importanza proprio di queste due dottrine presso i jaina. Leggiamo infatti, nella traduzione del Nostro, le strofe 18 e, di seguito, 49-51:
Nel mondo invero le yoni sono 8.400.000; e in ognuna (di esse) l'anima infinite volte nasce.
Quei dolori terribili e infiniti che nell'inferno i dannati conseguono, di essi infinitamente multiplo è il dolore (che si consegue) nel nigoda (o meglio: tra i nigoda[68]).
Nel mezzo del (o meglio: dei) nigoda tu fosti alloggiata, o anima, dal potere del molteplice karman, e sopportasti un aspro dolore nell'infinito alternarsi della materia.
Uscita a stento di là hai conseguito la condizione di uomo, o anima; e in questa hai conseguito l'ottima legge (dharma) del Jina, la quale è simile alla pietra filosofale.
Vediamo qui come la legge del Mahavira, il dharma, non possa spiegare affatto il passaggio dell'anima dal nigoda (o meglio, come avverte Della Casa, dalla condizione nella quale essa stessa è nigoda, dunque dai nigoda come lei) alla condizione umana. In quel «kahavi» = «a stento» c'è tutta la problematica del passaggio dell'anima dalla condizione insensibile alla condizione umana secondo le leggi imperscrutabili della natura o del fato. Ossia, forse, la problematica dell'antica concezione gimnosofistica e/o ajivika della fusiV/bhava.
Mi si permetta di rilevare, in conclusione, una coincidenza curiosa. L'etimologia del nome del gimnosofista KalanoV rinvia al termine sanscrito kalyana, interpretato correttamente dai Greci come saluto, «salve»[69]. Curiosamente questo termine kalyana si ritrova proprio nell'incipit di un testo jaina, il Kalyanamandirastotra, dedicato al ventitreesimo tirthankara della setta jaina, Parsva, testo di cui Tessitori ha pubblicato una notevole traduzione metrica in antica bhaj-bhasa, il Paramajotistotra. Per chi non crede nelle coincidenze è affascinante vedere come dopo più di duemila anni dalla spedizione del Macedone un occidentale - Tessitori - abbia incontrato pacificamente l'India jaina nel segno di un cordiale saluto, kalyana, salve.
Oltre alle fonti greche e latine citate (Strabone, Plutarco, Arriano, Plinio, Ippolito etc.) e non citate (Aristotele, Luciano etc.) si sono consultate principalmente le seguenti opere di letteratura secondaria:
Basham A. L., History and Doctrines of the
Ajivikas. A Vanished Indian Religion, Londra 1951, Delhi 1981.
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Dumezil G., Alexandre et les sages de l'Inde, in Scritti in onore di Giuliano Bonfante, vol. II, Brescia 1975, pp. 555 ss.
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297-319.
FILLIOZAT
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gréco-romaines sur l'Inde, «Journal des savants», avril-juin 1981, pp.
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Filliozat J., Les relations extérieurs de l'Inde,
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de l'Antiquité relatifs à l'Inde, Parigi, LBL 1986.
GLASENAPP H., tr. it. La filosofia indiana (1949), Milano, SEI.
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Jacobi H., Indische Studien, vol.
XIV, Leipzig 1875, pp. 376-377 (Intr. al Kalyanamandirastotra).
Jaini P. S., Karma and the Problem of
:Rebirth on Jainism in AA.VV. Karman
and Rebirth in Classical Indian Traditions, a c. di Doniger O' Flaherty W.,
University of California Press 1980.
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Berkeley-Los Angeles, UCP 1977.
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Roman Empire and India, Cambrdge, CUP 1928.
Zimmer H., Les philosophies de l'Inde, tr.
fr., Paris, Payot
[35] Cfr. Empedocle,
Poema lustrale, fr. 137 Diels-Kranz:
Morfhn d allaxanta pathr
filon uion aeiraV
sfazei epeucomenoV
mega nhpioV: oi d eporeuntai...
wV d autwV pater
uioV elwn kai mhtera paideV
qumon aporraisante
filaV kata sarkaV edousin.
(Il padre, sollevando il caro figlio che ha
mutato forma (in un animale)
lo scanna supplicando, grande stolto; e gli altri lo guardano...
Così il figlio afferrando il padre e i figli la madre,
strappandone l'animo, ne divorano le care carni.)
[69] Cfr. Plutarco, cit., 65, 5: Epei de kat Indikhn glwttan tw kale prosagoreuwn anti tou cairein touV entugcanontaV hspazeto, KalanoV upo twn Ellhnwn wnomasqh.