Un supplemento del giornale "La Repubblica", il 3 ottobre 2000, riportava un Reportage di Enrico Franceschini  con foto di Robert Polidori che desideriamo proporre per l'attinenza con la quale riproduce l'aurea misteriosa, sorniona e affascinante che avvolge la città di Alessandria - il Reportage è stato segnalato dall'amica Lidia Angiolini Mazza

 

C'ERA UNA VOLTA IN EGITTO

 

    Un pomeriggio, ad Alessandria d'Egitto, ho trascorso un paio d'ore a osservare due uomini, seduti a un tavolino del caffè Pastroudis, intenti a consumare avidamente libri anziché vivande. Sulla trentina, chiaramente stranieri, indossavano abiti di lino e sandali di cuoio, portavano i capelli lunghi sulle spalle, bevevano una tazza di tè alla menta dopo l'altra, fumando un gran numero di sigarette dal profumo dolciastro senza scambiarsi una parola. All'anziano cameriere in smoking che di tanto in tanto veniva a offrire pasticcini da un vassoio, rispondevano a monosillabi, ordinando soltanto altro tè. 

    L’afa era pesante, fuori le palme frusciavano mosse da un vento caldo, sulla baia riecheggiavano i fischi dei piroscafi: ma i due avventori, immersi nella lettura dei volumi che ricoprivano ogni centimetro del tavolo, sembravano calati in un altro mondo. 

    A un certo punto sono riuscito a scorgere il nome di qualcuno degli autori che catturavano così morbosamente la loro attenzione, Durrell, Kavafis, Forster, e allora di  colpo ho capito. 

    Da tempo il Pastroudis non è più un caffè letterario, un ritrovo di scrittori, artisti, intellettuali, ma rimane pur sempre una delle ultime vestigia dell'Alessandria di 40 o 50 anni or sono, quando era frequentato dai tre sunnominati oltre che da Nagib Mahfuz, Somerset Maugham, Noel Coward e da qualunque scrittore degno di questo nome capitasse qui per soggiorni brevi o prolungati.

    Sedersi ai tavolini di Pastroudis oggi, con un romanzo di Lawrence Durrell, che battezzò Alessandria «principessa e mignotta, città reale e anus mundi», o con i versi di Costantino Kavafis, che abitava poco distante sopra un bordello all'angolo con una chiesa, argomentando «Dove potrei vivere meglio di così, il bordello sfama la carne e la chiesa perdona i peccati»: è questo il modo migliore, forse l'unico, di ricreare l'atmosfera di un paradiso perduto. Ed è questo che stavano, evidentemente, facendo i due stranieri al caffè.

    Del resto, Alessandria d'Egitto è un luogo che vive, o meglio sopravvive, 

Il Café de la Paix (a sinistra) e i palazzi della Comiche, lo storico lungomare di Alessandria

nella letteratura, nei libri, ancor prima che nella realtà delle sue strade, dei suoi palazzi fatiscenti, della sua gente. 

    Ad attirare romanzieri, poeti, artisti europei, fino alla metà del '900, era stata indubbiamente la bellezza di una città che i Pascià ottomani, un secolo prima, avevano riempito di ville di stile italiano, palazzi art déco, magnifici boulevard, ma anche di teatri, locali notturni, ristoranti, negozi, nel tentativo di modernizzare l'Egitto. Ne risultarono una babele di culture e una svolta liberalizzatrice all'insegna di cosmopolitismo e decadenza, che proprio Durrell riassunse nel motto: «Alessandria: cinque razze, cinque lingue e una dozzina di religioni». 

    Gli scrittori, però, vi giungevano a frotte, da Parigi, da Londra, da tutto il Mediterraneo, anche per un'altra ragione assai più antica e legata al loro mestiere: più di venti secoli prima, Alessandria era stata una delle illustri capitali del mondo civilizzato, sede di quella grande Biblioteca che conteneva milioni di papiri, praticamente tutta la cultura scritta dell'epoca, un tempio attorno al quale si studiavano astronomia, fisica, anatomia e nelle cui sale maestose lavorarono Euclide e Aristotele. L'Alessandria su cui regnavano Cleopatra, Cesare, Marco Antonio, la città che ospitava una delle sette meraviglie del mondo: il Faro gigantesco (130 metri) la cui fiamma si poteva scorgere, pare, da cento miglia di distanza. Ma la Biblioteca doveva certamente rappresentare, almeno per gli scribi del tempo, l'ottava meraviglia.

    Poi, gradualmente, dopo la morte di Cleopatra nel 30 avanti Cristo, cominciò il declino. Tra guerre e cataclismi, la Biblioteca scomparve nel nulla, uno dei misteri della Storia, e con essa rischiò di sparire anche la città: quando Napoleone ci sbarcò nel 1798, trovò soltanto un borgo marittimo di settemila anime. «Cercavo l'Alessandria di Alessandro Magno e Cleopatra», commentò deluso l'imperatore francese, «ma c'erano solamente rovine, barbarie, avvilimento e povertà».

    Il fantasma della Biblioteca scomparsa, tuttavia, non si è mai mosso di qui.

    È legittimo pensare che forse proprio questo spettro, insieme con le ambizioni dell'impero Ottomano, ha sospinto la rinascita di Alessandria tra l'Ottocento e la prima metà del Novecento, riconducendovi gli uomini dì cultura, i letterati, gli artisti, e trasformandola per svariati decenni nella capitale europea del Medio Oriente. 

Casa sulla Corniche

Fino a che, nell'Egitto di Nasser, socialismo e Islam hanno portato a un nuovo declino. Nel 1950, ad Alessandria c'erano 150 mila stranieri su 600 mila abitanti: con l'avvento della rivoluzione nasseriana e del puritanesimo che l'ha accompagnata, gli stranieri sono fuggiti tutti, si può dire che non ne sia rimasto nessuno tra gli oltre quattro milioni di abitanti odierni. 

    Ma lo spettro, caparbio, non è scappato via con loro, e ora gioca una nuova scommessa: far risorgere la Biblioteca, sperando che, con essa, rinasca anche la città.

    Il progetto, ispirato dal presidente Mubarak e dall’Unesco, si può tranquillamente definire faraonico: sono stati arruolati i migliori architetti del pianeta, spesi milioni di dollari. L'impianto della futura, nuova Biblioteca di Alessandria è già sorto: una piramide di vetro e cemento, parzialmente sommersa, di fronte al lungomare che cinge la città vecchia. L'obiettivo è farne una biblioteca monumentale, moderna, centro di dibattiti e faro intellettuale del mondo arabo, dell'Africa settentrionale, del Mediterraneo: un «ponte fra i mondi», come l'ha definito la stampa locale. 

    Qualche mese fa, in un lungo reportage sul New Yorker, bibbia dell'intellighenzia americana, Alexander Stille (figlio di Ugo, mitico corrispondente italiano dagli Usa) si è chiesto se la ricomparsa della Biblioteca potrà davvero restituire ad Alessandria lo spirito libertario di un tempo: l'Egitto in fondo è un paese dove, per compiacere i militanti islamici, la censura mette ancora al bando libri giudicati controversi. È successo anche recentemente, con un romanzo accusato di pornografia. «Spetta al pubblico, non ai muftì delle moschee, decidere se un libro è buono o cattivo, se va letto o ignorato», ha protestato dall'alto dei suoi 90 anni il grande Nagib Mahfuz, lo scrittore egiziano premio Nobel per la letteratura. 

    

    E lo sviluppo, per quanto lento, di Internet, della tivù via satellite, dei telefoni cellulari in Egitto, induce a credere che molti suoi compatrioti la pensino alla stessa maniera. Una volta Mahfuz ricordò l'Alessandria della sua gioventù come una città «così bella, così pulita, che si poteva pranzare seduti sul marciapiede». Oggi non lo ripeterebbe. 

    Decisamente, Cleopatra non abita più qui e nemmeno vorrebbe abitarci, se potesse vedere i cambiamenti che ha sofferto il luogo dei suoi amori con i Cesari di Roma. Lawrence Durrell, nella tetralogia Il quartetto di Alessandria, la chiamava «La capitale della memoria».

    Ma ogni memoria del passato splendore è stata brutalmente sepolta sotto la metropoli contemporanea. Non si sa più nemmeno dove fosse la Biblioteca: come in un racconto fantastico di Borges, ogni visitatore curioso di scoprirlo si sentirà proporre dagli "esperti" del posto almeno mezza dozzina di località differenti. Resta però ben visibile, anche se parecchio scrostata dagli anni, l'Alessandria di Durrell e Kavafis, la città di metà '900 su cui Forster scrisse un'autentica guida, che incantò Herman Melville e diede i natali a Marinetti.

    La mescolanza di stili europei e mediorientali risalta ancora nei colori pastello dei palazzi, nelle piazze monumentali e nella Comiche, il lungomare dove nel week-end end affluiscono migliaia di cairoti, riempiendo le spiagge di giorno e i ristoranti, i caffè, i night club di notte. Certo, Alessandria 

Scavi archeologici ai margini di un cantiere della superstrada

condivide la sporcizia, l'affollamento oppressivo, il rumore e la povertà endemica del Cairo. Ma uno spirito meno burocratico, più libero, pervade la "perla del Mediterraneo". Il forte Qaitbey, eretto da un sultano nel 1500, e le splendide moschee dei secoli successivi sono circondati dalle brutture di una disordinata speculazione edilizia; eppure, dentro ogni cortile si può ancora nascondere un piccolo gioiello di architettura coloniale.

    Quanto ai più nostalgici, per loro ci sono i santuari letterari, come il caffè Pastroudis, il Trianon o l'hotel Cecil, l'albergo in stile moresco dove soggiornavano Coward e Maugham. E poi, naturalmente, ci sono le pagine di Lawrence Durrell, lo scrittore anglo-irlandese che elesse Alessandria a sua seconda patria e che in quattro celebri romanzi (Justine, Balthazar, Mountolive e Clea) dipana la tela di ragno della sua indagine sull'amore moderno, facendo in realtà di Alessandria la vera e assoluta protagonista: febbricitante crocicchio di vizi e desideri, pederasti e travestiti, raffinati cultori delle lettere e prostitute d'ogni razza, mistici visionari e giovinetti dalle labbra pesantemente truccate.

    

La casa, ora in rovina, ove visse Lawrence Durrell

Durrell che riaffiora la leggenda di Alessandria, il suo «roseo cuore» avvistato dal mare, i «minareti sfavillanti d'oro agli ultimi raggi del sole», il passaggio di «una carretta piena di prostitute in abiti sgargianti», «il luccichio nel crepuscolo lunare delle grandi limousine dei sensali e degli speculatori di borsa», «il barbaglio caldo dei caminetti accesi» che «si riverbera su porcellane e marmi di palazzi dai favolosi interni», le «nuvole aromatiche di fumo che uscivano dalle piccole taverne per marinai, dove spiedi carichi di budella cosparse di spezie giravano monotoni sulle fiamme», il lungomare che «brillava di luci mentre le lunghe linee curve della Corniche si dissolvevano lontano in un basso orizzonte, e dietro migliaia di riquadri di vetro illuminati, gli abitanti della città, simili a sgargianti pesci tropicali, sedevano davanti a mense su cui scintillavano bicchieri colmi di anice e brandy». 

    Nessuno saprebbe farla riemergere meglio di così: un paesaggio di tonalità «dal marrone al bronzo, orizzonte scosceso, nuvole basse, terra perlacea con sfumature d'ostrica e riflessi violetti, la polvere fulva del deserto».

    Una sensibilità morbosa, uno spettacolo «sfarzoso come una bestia tropicale»: il sogno, evanescente quanto lo spettro della grande Biblioteca, che i due avventori del caffè Pastroudis si sforzano di resuscitare, sorseggiando tè alla menta e fumando sigarette dal profumo dolciastro intorno a un tavolino ingombro di libri.

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