VIAGGIO NEL CUORE DELLA VECCHIA ALESSANDRIA, TRA FANTASMI LETTERARI, SOGNI PERDUTI E FORTUNE DISSIPATE

L'ala di JUSTINE a Malga Itáli

La Stampa del 26 ottobre 2002

Mario Baudino, inviato ad Alessandria

    Il signor Gaspare Di Martino, classe 1924, barbiere, trascorre ancora la mattinata nel suo minuscolo negozio del Passaggio Verdi, nel pieno centro di Alessandria d'Egitto, ma la sua vecchia clientela è scomparsa: «Quelli che non sono morti se ne sono andati da tanto tempo», mi dice con un sorriso sconsolato. A mezzogiorno chiude bottega e torna a casa, anzi alla Casa di Riposo Vittorio Emanuele III, un luogo di memorie che ci parla ancora di una città cosmopolita, ricca, godereccia, di una belle epoque finita con Nasser, le nazionalizzazioni, la spedizione anglo-francese al Canale di Suez.

    Non lontano c'è la casa, diventata museo, dove visse e morì il grande poeta Costantino Kavafis: un greco d'Alessandria, che faceva parte cioè della comunità più forte insieme a quella italiana. Poi c'erano gli ebrei, gli inglesi, i francesi, gli armeni, tra i quali il signor Di Martino pescava la sua clientela migliore. «Ora mi sono rimasti un po' di copti».

    Le comunità straniere hanno espresso scrittori e poeti come i nostri Giuseppe Ungaretti e Filippo Tommaso Marinetti, ma anche Fausta Cialente, che visse qui fra le due guerre, e ispirato residenti di fama, come gli inglesi E. M. Forster e soprattutto Lawrence Durrell, il cantore degli ultimi bagliori internazionali della città nel suo Quartetto d'Alessandria, come ha spiegato lui stesso in una celebre pagina.

    Il porto sepolto di Ungaretti nasce da una leggenda, poi confermata da scoperte archeologiche, che aveva ascoltato da ragazzo. Era la storia di un porto favoloso, inghiottito dal mare, un luogo di nostalgia, un segreto da scoprire. Tutti, scrivendo della città, l'hanno declinata al passato. Tutti, e specialmente Durrell, hanno inseguito un'immagine che già non era più, travolta dalla storia.

    Nessuno ha mai scritto invece, come fece Lawrence Ferlinghetti per la sua California, un'ode «ai vecchi italiani che muoiono»: eppure se mai qualcuno dovesse farlo, questo sarebbe il posto dove trarre ispirazione: la «Malga Itáli », la Casa di riposo.

    E' ciò che rimane di una società e di una cultura cancellate per sempre: un vasto edificio con un bel giardino. Era stata pensata negli anni trenta per una comunità enorme: adesso ha una quarantina di ospiti, come ci racconta l'amministratore delegato, Giovanni Licciardello Motta, che ci guida attraverso le enormi cucine, i corridoio silenziosi in cui risuonano solo i nostri passi, le lavanderie e le stirerie dove si affaccendano infermiere e inservienti. Il tempo ha eroso le pareti, tutto è un po' consunto in attesa di restauri, e la memoria di tempi felici langue, mentre le antenne satellitari captano i programmi della tv italiana.

    Qualche anziana ospite protesta per il cibo, un'altra si lamenta delle infermiere, come accade in qualsiasi casa di riposo, dove l'età rende talvolta infelici e insofferenti.

    Le imposte tengono lontano un sole ancora molto caldo per la stagione, e nelle camerette di coloro che possono badare a se stessi si ammucchiano oggetti e ricordi di un mondo scomparso, quando questo posto era l'America, e si veniva per cercare fortuna.

    In Egitto i primi italiani erano arrivati dopo i fallimenti dei moti risorgimentali, nel 1821. Erano per lo più ufficiali, che si misero al servizio del sovrano.

    Ma alla fine del secolo fu il turno di banche e imprenditori e la destinazione, anche approfittando di leggi favorevoli agli stranieri e della fioritura economica dovuta alla costruzione del Canale di Suez, divenne sempre più Alessandria anche per artigiani, operai, contadini.

    Crearono una grande comunità, con decine di migliaia di persone. C'erano giornali, scuole, teatri dell'opera, una frenetica vita metropolitana dove la gente si arricchiva, come scrive Ungaretti ricordando un altro poeta Enrico Pea, e le sue imprese commerciali: «conferenze, assemblee e sproloqui, cospirazioni di sovversivi». Era, sono ancora parole di Ungaretti «la città più ospitale del mondo». Sembrava una festa senza fine, e non solo per gli italiani.

    Justine, la protagonista del Quartetto, misteriosa e bellissima ebrea sposata a un miliardario egiziano, benché inventata già durante la seconda guerra mondiale ma con un occhio nostalgico al recente passato, rappresentava bene la voglia di vivere e il tormento della trasgressione, le contorsioni e le ferite di quel «grande torchio dell'amore» in cui lo scrittore identificava la città.

    Tra il '20 e il '30 Alessandria era ricchissima e frenetica, con un'importante borsa valori e una borsa merci, per il cotone, seconda solo a quella di Liverpool; il porto era tra i primi del Mediterraneo, mentre un consiglio comunale pianificava le costruzioni, in un trionfo di stile Liberty.

    Justine, tenebrosa ed enigmatica, era il simbolo della città. La sua base era del resto l'Hotel Cecil, che sorge proprio nel luogo dove si uccise la regina Cleopatra, nella notte fatale in cui Ottaviano prevalse su Marc'Antonio.

    Il grande edificio floreale non è mutato di un'unghia, solo è logorato dal tempo, anche se nelle sue cantine è stato aperto il primo Internet Cafè di Alessandria.

    La modernità sembra depositarsi come polvere, senza apparentemente cambiare nulla: anche la Casa di riposo italiana ha un sito Internet, che ai suoi anziani ospiti interessa poco. Altri sono i problemi di questi superstiti d'una storia ormai antica. In Egitto sono «stranieri» che devono rinnovare il permesso di soggiorno ogni dieci anni - in quanto antichi residenti - e in fondo non hanno diritti. La loro condizione è drammaticamente cambiata dopo Nasser, quando tutti gli stranieri se ne andarono in massa e anche la nostra comunità alzò bandiera bianca, benché avesse resistito, in precedenza, ad altri choc.

    C'era stata la fine dei privilegi riconosciuti dal regime dei «capitoli» (in base al quale si poteva essere giudicati da tribunali misti, e non solo egiziani), c'era stato l'internamento durante la seconda guerra mondiale, in campi sul Mar Rosso, ma tutti erano testardamente rimasti. Dopo Nasser, nel nuovo Egitto, rimasero solo i pochi che non sapevano dove andare: dimenticati in una Alessandria divenuta straniera, invecchiarono lì, in condizioni spesso molto difficili. Quelli che ora stanno alla casa di riposo sono gli ultimi. Se non possono pagarsi la retta ci pensa la Società Italiana di Beneficenza, che li assiste nel miglior modo possibile. Su una comunità di nuovi tecnici e di qualche imprenditore che è ritornato - arriva a stento a mille persone -, loro, i «vecchi italiani», saranno centocinquanta, un terzo alla Casa e due terzi che si rifiutano di abbandonare le loro dimore e vivono in uno stato miserevole.

    «Noi cerchiamo di convincerli a venire qui - mi dice Giovanni Licciardello -, dove potremmo curarli meglio. E intanto, per finanziarci, prendiamo ospiti a pagamento, non necessariamente italiani. Ma ci piacerebbe anche, dato il buon clima, riuscire ad avere gente dall'Italia». In attesa di nuovi ospiti, a quelli vecchi basterebbe molto meno. Una pensione, per esempio, come hanno i greci. «In fondo, abbiamo fatto il nostro dovere - ricorda melanconicamente e con una certa ingenuità apolitica il signor De Martino -. Per esempio durante la guerra. Era facile uscire dai campi dove ci avevano internati, bastava una dichiarazione contro l'Italia. Non abbiamo firmato. Siamo rimasti».

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