Viaggio in Alessandria – settembre 2000

 

Premessa

 

    Ho lasciato Alessandria, per venire in Italia, nel febbraio del 1957 e, anche se ne ho avuto più volte l’occasione non sono voluto ritornare. Mi faceva male il ricordo della vicenda che ho sempre vissuto come un’ingiustizia: solo perché avevamo una nazionalità diversa, eravamo stati cacciati dal paese nel quale eravamo nati e avevamo vissuto. Non avevamo sentimenti anti-egiziani, né l’Italia aveva svolto un ruolo politico o militare anti-egiziano. Perché ci avevano praticamente spogliato dei nostri beni? Perché avevano posto sotto sequestro la nave petroliera che mio padre possedeva? Perché erano venuti a casa mia per tentare di arruolarmi nell’esercito? Perché mia sorella era stata insultata pesantemente, a "Muhatta el Ramleh", poiché bionda? Perché avevano sequestrato in dogana la mia collezione di francobolli che avevo iniziato sin da quando avevo otto anni?

    

    Ma il tempo lenisce le ferite e consente di spiegare meglio gli eventi. Gli Egiziani allora, non erano in condizione di guardare tanto per il sottile, semplicemente non ne potevano più della supremazia economica e culturale degli Europei, e la pentola si era scoperchiata!

 

    Sono felice di essere tornato in Alessandria, la città è bella e ho trovato una popolazione generosa e gentile. Penso molto spesso a quel viaggio e rivivo nella mente le sensazioni provate, e voglio affermare che il mio cuore è tornato da Alessandria colmo di tenerezza e amore.

 

    Alessandria è una città formatasi e sviluppatasi nei secoli con l’apporto di diverse culture ognuna delle quali ha lasciato un’impronta ben marcata e molto visibile, e ciò vale sia per la città, sia per i suoi abitanti. Questa caratteristica, quasi unica al mondo, va sempre tenuta a mente allorquando si parla e si pensa a lei, solo così si comprende perché è tanto facile ritrovare un pezzettino di se stessi in quella città.

 

 

L’arrivo al Cairo

 

    L’aeroporto del Cairo sembra un gioioso “souk” rispetto all’aeroporto internazionale che dovrebbe essere. C’è ancora molto lavoro da fare sia nelle strutture sia nella qualità dei servizi. Gli annunci, anche se espressi in inglese oltre all’arabo, non si capiscono per eccesso di risonanza così come la trasmissione delle preghiere del muezzin che non riesce ad attivare la dovuta concentrazione. L’impiegato di banca è più interessato a gestire i suoi conti che le necessità del cliente, mi vuol mollare quasi un chilo di monete francesi dicendo che dollari o franchi tanto è la stessa cosa. Ottimo, invece, il servizio d’autobus da e verso gli aerei, molti bus capienti senza la calca alla quale ci hanno abituato Fiumicino, Linate e Malpensa.

 

    Dopo il controllo passaporti da parte di poliziotti efficienti e cortesi, arriva un tizio con tanto di “badge” al petto che, oltre ad aiutarmi a far registrare sul passaporto la videocamera (unico vero aiuto ricevuto dal solerte funzionario), mi illustra che lui, come dipendente del Ministero del Turismo, mi può far risparmiare tanti quattrini se compero subito i biglietti per musei, tassì, ristoranti, alberghi, ecc. Gli chiedo solo un tassì fino all’albergo  già prepagato in Italia. L’uomo, un giovane alto e distinto con leggeri baffetti che rafforzano il suo aspetto di persona seria, appare deluso ma continua il suo lavoro con serietà. Mi offre una macchina grande, visto che siamo in cinque persone, e mi chiede 85 Lire Egiziane. Se lo dice lui sarà vero, penso e gliene do 90 attendendo invano il resto che diventa “bakshish”. Poi mi fa accompagnare fuori dove siamo letteralmente travolti da un’orda urlante di gente che offre servizi; l’accompagnatore vuol farci salire in una macchina piccola, ma, dopo le mie rimostranze, ecco la vettura grande al cui autista vedo che gli da 10 Lire. Sono troppo stanco e stordito per intervenire, anche perché, tutto ad un tratto, l’accompagnatore è colpito da amnesia e non parla più l’inglese. La macchina “grande” è solo un vecchio cassone con tendine originariamente bianche sui vetri delle portiere, che per un’ora e mezzo ci ballonzola attraverso il centro del Cairo verso Ghizah.

 

    E’ tardi, è mezzanotte, ma non per i cairoti: ragazzini che tendono la mano attraverso i vetri della macchina per un “bakshish”, tantissimi venditori ambulanti, ma soprattutto un inverosimile numero di persone a passeggio a godersi la frescura notturna e vestita nei modi più disparati; sono così tanti che pare debbano farsi largo a gomitate per muoversi. Sui ponti del Nilo tanti pescatori e tante giovani coppiette che, abbracciate, guardano il fiume o la luna. Odori d’aglio e cipolla, arrosti, fritti, pesce e tanta frutta. Suoni incessanti di clacson indirizzati soprattutto ai pedoni, accompagnano la “tradotta” all’albergo.

 

    Provo a parlare un po’ d’arabo con l’autista “enta esmak è”, “Mahmoud” risponde, “ana esmi Giovanni, bel arabi Hanna” continuo incoraggiato, ma la triste realtà della mia conoscenza dell’arabo mi colpisce insieme con una vampata di montone arrosto. Mahmoud risponde “ana Said” (il suo cognome). Mahmoud è piuttosto trasandato, alto e magro porta baffoni spioventi, ha il naso adunco e gli zigomi sporgenti, quasi un beduino; fuma una sigaretta dopo l’altra e, ogni tanto, spara colpi di tosse cavernosa. Poi mi chiede se voglio fare un giro del Cairo, declino giacché abbiamo tutti sonno, allora chiede se voglio veder la Cittadella che si staglia meravigliosa e bene illuminata su una collinetta, abbiamo sempre sonno, poi, si ferma davanti ad un night club invitandomi a dare uno sguardo. A questo punto la mia pazienza si esaurisce ed il mio tono diventa perentorio “hotel Movenpick Pyramids!”. E così Mahmoud ci porta in un altro hotel “Pyramids” dopo aver tentato di farmi pagare la corsa una seconda volta (la conferma dell’imbroglio all’aeroporto l’ho quando Mahmoud mi consegna la ricevuta del mio viaggio ove in arabo sta scritto cinque Lire Egiziane). 

 

    Nuovo tassì per due isolati e si tratta di un’altra reliquia di FIAT ove la batteria, alla sua ultima esalazione, riesce a far partire un “coso” che una volta era un motore.

 

    Entrando al Movenpick si passa dalla stalle alle stelle e finalmente sorridiamo sorseggiando un bicchiere di carcadè fresco offerto dalla direzione.

 

 

Le piramidi e la breve permanenza al Cairo

 

   Gamal si propone come autista guida, ha una bella faccia aperta ed un sorriso cordiale, concordiamo il prezzo e via. Uomo  piccolo di statura, carnagione abbronzata e con un sorriso che esprime simpatia, potrebbe essere un greco.

 

    Gamal parla inglese ed il mio arabo migliora, entriamo velocemente in buona sintonia e mi da consigli che riscontro validi. Gli piace la mia storia: un alessandrino che torna dopo quarant’anni a mostrare la sua bella terra natia alla famiglia (Gamal Ali Manzour, telefono Cairo 3886169).

    Tutti al giretto con il dromedario con foto e filmato, poi ammirazione delle nove piramidi, e si, sono nove per chi non lo ricordasse: Chefren con le piccole tre dei suoi figli, Mikerinos, la sola in granito grigio nubiano, anch’essa con tre piccole piramidi per i figli, e Cheope, in calcare giallo come Chefren. Cheope ha la punta ancora ricoperta dallo stucco originale, è la più alta: 146 metri. 

 

    Un giovane uomo si propone come guida per mostrarci una tomba scoperta recentemente, Gamal approva assicurandomi che è uno che le cose le sa veramente, e tutti giù ai nuovi scavi. L’uomo è strano per l’”entourage”, è biondo, alto, baffetti biondi, occhi azzurri e carnagione chiara, e pur indossando la “galabija” porta scarpe da jogging e non cammina ciondolante come gli altri, ma raccolto e impettito; mi fa pensare ad un anglosassone auto esiliatosi o ad un figlio di padre inglese. Ovviamente parla l’inglese in maniera impeccabile ma senza accento.

 

     Poi la Sfinge (vecchia di 4.500 anni, rappresenta il viso del faraone Kafre con il corpo da leone) e, per la guida e per Gamal, è stato Napoleone ad ordinare la distruzione del naso piuttosto che i mamelucchi che l’adoperavano per le loro esercitazioni di tiro, come ci racconta invece la storia.

Le opere ci lasciano stupefatti per la loro bellezza e per la capacità costruttiva degli antichi egizi.

 

    Gamal mi restituisce puntualmente la sua percentuale dei “bakshish” da me elargiti a guide e cammellieri e che loro velatamente gli consegnano. Ovviamente ne tengo conto.

    Ci porta, poi, in un negozio ove dapprima ci offrono qualcosa da bere per rinfrescarci e dopo alcuni cortesi e simpatici convenevoli, ci illustrano la produzione dei papiri mostrandoci anche degli esempi molto interessanti (mi colpisce un papiro che illustra strumenti di odontoiatria!), mentre Gamal si sdraia su un “canapè”, chiude gli occhi e si immerge nel  piacere del “narghilè”. Contrattazione, acquisto, sorrisi e strette di mano, poi il negoziante ci raggiunge nell’auto di Gamal e regala a mia figlia un segnalibro in papiro. Gesto di cortesia e di cordialità, indicativo dell’alto senso dell’ospitalità degli egiziani.

 

    Il pomeriggio riposo in albergo ed un paio d’ore in piscina mentre la filodiffusione interna ripeteva ogni ora circa il motivo musicale “Ya Moustafa”. La sera, cena sul bordo della piscina trasformata in gigantesca fontana illuminata.

    

    La voglia di rivedere Alessandria si è manifestata in maniera così forte che ho deciso di partire l’indomani mattina stesso, tralasciando gli spunti di alto interesse che offre il Cairo: Gamal ci trasporta fino a Montazah sulla super strada del deserto a sei carreggiate. Rivedo il Rest House completamente rimodernato e noto con piacere che un buon lavoro d’irrigazione ha permesso lo sviluppo di tante piantagioni d’alberi da frutta in pratica lungo quasi tutto il percorso; in Alessandria, prima del Lago Mariut, tante fabbriche e raffinerie oltre alle vecchie e nuove saline, poi una strada che porta fino ad Aboukir, parallela a quelle di Ramleh, connotata da tremendi dossi alti quasi 20 cm sui quali sbattono le vetture a  pieno carico, inclusa la nostra. Qualche moccolo da parte di Gamal. L’inevitabile richiesta d’indirizzo al guidatore di un'altra autovettura, ciò a 100 km l’ora, con le macchine che dovrebbero procedere diritte mentre gli autisti si sporgono dai finestrini, e seguito poi da brusche correzioni di rotta non appena guardano nuovamente avanti.

 

    Gamal, prima, ci aveva porto i saluti della moglie e ci aveva detto che suo figlio avrebbe voluto unirsi a noi per conoscere i miei ragazzi, poi una volta giunti a destinazione e dopo aver ricevuto un “bakshish” rilevante, mi abbraccia e mi da un bacio sulla guancia, “zai ahuia” dice. L’ho abbracciato volentieri anch’io.

 

 

Montazah

 

    L’ingresso è a pagamento per selezionare i visitatori e il complesso è tenuto molto bene. Ci si sente sicuri e tranquilli a passeggiare la sera nei suoi viali. Il mare è scintillante così come il cielo e occupa gli occhi di quelle visioni oramai accantonate nel dimenticatoio, la brezza marina, con un sottile richiamo d’alghe, riempie i polmoni e procura una dolce sensazione di freschezza e di pace. La memoria assale la mente insieme ai rimpianti per tutto ciò che non si è saputo apprezzare.

     I tanti locali attrezzati per il turismo sono pressoché vuoti, dal Casinò agli alberghi da 500 dollari a notte e ai caffè all’aperto, con il personale indaffarato a muoversi su e giù apparentemente senza un compito preciso.

 

    Il Palestine era un ottimo albergo con un panorama quasi unico; nel tempo si è di molto rovinato e necessita di ristrutturazione, è frequentato sostanzialmente da cairoti o da egiziani residenti nei paesi del Golfo Persico, ma la qualità del cibo offerto vale meno della metà del prezzo pagato, mentre il personale è molto cortese e garbato. L’efficienza, però, può essere migliorata: sono occorsi venti minuti per preparare il conto dopo tre tentativi di somma con tre risultati diversi e, alla fine, abbiamo accondisceso in due sul terzo risultato, non perché ci credevamo ma perché il cassiere si era stufato ed io dovevo partire per il Cairo, dove mi aspettava Egypt Air, con la comoda Peugeot di Mando (Mando è un autista moderno con la Peugeot provvista d’aria condizionata e il telefono cellulare 0123-465104; ovviamente parla bene l’inglese ed è cortesissimo – viso levantino, carnagione chiara, un po' stempiato, lineamenti garbati, immancabili baffettini eleganti).

 

    Stavamo nella camera 333 e, quando chiedevo un servizio, indicavo il numero di stanza dicendo “Talata, talata, talata” per me più veloce che “toltomeja talata u talatin” – ovviamente avevo detto a chiunque avesse voglia di ascoltarmi che ero nato lì – e mi sono compiaciuto quando, un giorno, ho sentito due dipendenti riferirsi a me chiamandomi “El iskandarani min el oda talata talata talata”! (non “El hawaga” e neppure “A franghi”).

 

    Tardi la sera danno degli spettacoli all’aperto, film con suoni a tutto volume apparentemente comici, ma gli spettatori egiziani sono molto garbati, sorridono ma non ridono sguaiatamente come gli attori del film. Siamo capitati in un periodo nel quale si celebravano molti matrimoni, e, quasi ogni sera, fervevano le preparazioni, i tappeti venivano stesi sulla sabbia, gli ospiti festeggiavano con piccoli canti e brindisi, gli sposi facevano foto ricordo con i fotomontaggi dei loro visi sulle immagini del re Faruk I e della prima moglie, regina Farida.

 

    Di europei, ho visto solo due coppie d’inglesi ed ho incontrato in ascensore una coppia di francesi che, sentendo noi parlare in italiano, dicevano “Ce sont les premiers étrangers que je voix” ed io rispondevo “Moi aussi”.

 

    Un cortesissimo cairota, mentre nuotavo insieme ai miei ragazzi, mi ha chiesto “Are you Russian?”; sorpreso, ho risposto con un po' di ironia “Not yet”. Ha poi voluto sapere tutto di noi: chi eravamo, che cosa facevamo lì, che lavoro facevo a Roma, ecc. Mi ha poi presentato la bellissima e giovane moglie ed il simpatico figlio Boutros. Ho saputo poi, che L’Egitto è invaso da russi (nonché da tanti filippini) che cercano impiego presso le famiglie più abbienti  oppure nei ristoranti e nelle orchestre oltre alle inevitabili ballerine; quindi, se ho capito bene, più o meno come qui in Italia; viene da pensare alla legge del contrappasso: sono arrivati in Egitto 40 anni fa da padroni, a sostituire noi europei, hanno raccontato ai figli che il paese era bello, i figli ci vanno adesso a servire gli egiziani.

 

 

Le spiagge

 

    Quelle tradizionali hanno le acque inquinate. Tre milioni e mezzo d’abitanti, con consumi pro-capite notevolmente più elevati di quelli di 40 anni fa, con solo quattro vecchi depuratori, insufficienti per le necessità della città, ne spiegano il motivo. I bagni si possono fare a Montazah, a Ramleh el Beda (riservato agli ufficiali ed ai loro amici), e poi da Burgh el Arab fino ad El Alamein è una serie continua di condomini estivi. L’amico Nino Licciardello va addirittura a Marsah Matruh.

 

    A Sidi Bishr esiste ancora il Pozzo del Diavolo (Bir el Shedan) ma è molto più vicino alla costa a seguito dell’allargamento della corniche. I vecchi chalet sono stati tutti rasi al suolo e i grattacieli ne hanno preso il posto.

 

    A Stanley, la grande baia è praticamente chiusa per la costruzione di un ponte sempre per l’allargamento della corniche.

 

    Il Casinò di San Stefano non c’è più e una alla volta vengono smantellate tutte le costruzioni lato mare: la nuova corniche deve avere sempre la visuale piena del mare. Glymenopoulo è diventato Glym.

 

    Ci si immerge tranquillamente nell’accogliente mare di Montazah, sia di fronte all’albergo Helnan Palestine, sia nelle spiagge limitrofe. L’acqua è bella, pulita, salata come non ricordavo, di un bel colore smeraldo, mentre la sabbia è composta di grani grossi e gialli come non ho più ritrovato.

 

    Ci sono tantissimi ristoranti di fronte al mare, così come allora. A Stanley c’è addirittura un Mac Donald. Degli amici egiziani ci hanno portato in un bel ristorante a Miami sulla Corniche: "mesè" ricco  di tutte le leccornie che ben conosciamo, con "foul", "falafel" e, per finire, succo di mango.

 

    Abitavo a Mazarita, di fronte al luna park e alla baia est, non lontano dalla Moschea Kaid Ibrahim. Il progetto di restauro ha portato al riammodernamento della palazzina che di un bel bianco splendente, con i balconi in verde egiziano, fa la coquette in mezzo ai palazzi moderni. Il "bauab", al quale mi sono presentato, mi ha accolto con simpatia e ha chiamato tutta la famiglia per salutarmi e stringermi la mano, ricordava bene i vecchi "bauab" Mohammed e Mahmoud dei tempi miei; ha poi fieramente fatto sfoggiare il buon livello di conoscenza della lingua inglese del figlio, bel ragazzo quindicenne già con barbetta e baffetti incipienti ma ben marcati.

 

    Aboukir, invece, è una grossa delusione: due porti, uno militare ed uno merci chiudono l’accesso al mare, il mercato del pesce emana miasmi insopportabili; dovrebbe esserci un museo nel quale sono raccolti i resti della battaglia navale tra la flotta francese e quella inglese,  ma dato che due dei miei bambini incominciano a soffrire per la maledizione del faraone (il classico mal di pancia anche se siamo stati attenti a ciò che si mangiava e beveva) dobbiamo tornare in albergo.

 

     Ricordiamo che tra l’1 ed il 2 d’Agosto 1798, la flotta francese di 17 navi, comandata dall’ammiraglio François Paul Brueys d'Aigailliers e che aveva trasportato Napoleone Bonaparte ed il suo esercito da Tolone fino in Egitto, fu sorpresa dalle 14 navi della flotta britannica al comando di Horatio Nelson; gli Inglesi attaccarono, al crepuscolo, i vascelli francesi ancorati vicino alla spiaggia e qualcuno addirittura tirato in secca, con possibilità di manovra, quindi, ridotta a zero. La battaglia durò tutta la notte, e solo quattro velieri francesi, che in seguito si arresero o furono affondati, riuscirono ad uscire dalla trappola.

 

    Qui ad Aboukir è, inoltre, stata localizzata l’antica città di Canopo e sott’acqua sono state trovate molte testimonianze importanti del passato.

 

 

Don Bosco

 

    Uno sguardo al Consolato italiano ed uno a Muhatta Ramleh, poi su per Safia Zagloul. 

 

    L’Alhambra è in un seminterrato, l’Elite ha l’aspetto di una topaia ed il cinema Metro sembra rimpicciolito. 

 

    Poi Rue Fuad (molti la chiamano ancora così), l’Amir, Athineos, lo Strand e, di fronte, l’ufficio di mio padre che, per una strana coincidenza ospita una società di navigazione (mio padre era l’azionista principale del Llyod Mediterraneo Italo Egiziano). 

    

    Ancora una fermata a Santa Caterina e la visita guidata del sacrestano (bakshish richiesto  anche da lui e da un suo amico che non fa proprio nulla), il segno della croce davanti alla tomba di Vittorio Emanuele III, anche qui la memoria delle messe la domenica e del giorno del matrimonio della mia cugina preferita. 

 

    Finalmente Rue Khedive I, che si chiama adesso Rue Cherif, (la vecchia Rue Cherif penso che adesso si chiami Sharah Tewfik) e il grande, il mitico e sempiterno Don Bosco. Quanta gioia nel rivederlo e quanto affetto. Formidabili i Salesiani, riescono, oggi, a gestire una scuola – dalle materne alle superiori – di 1200 allievi per la stragrande maggioranza egiziani. Amici egiziani mi hanno parlato di Don Bosco come la scuola elitaria d’Alessandria.

 

    Appena entrato vedo il classico gruppetto di persone (egiziani e qualcuno in "galabija") seduti a fumare e chiacchierare. Visi forti e tozzi di persone abituate a lavorare principalmente con la loro forza, visi quasi tagliati con le accette che stonano con l’ambiente scolastico, chiedo loro di Don Russo che appare dopo qualche secondo: un viso aristocratico dai lineamenti dolci, anziano ma vivacissimo e deciso, una persona abituata a comandare e a prendere decisioni. Le persone presenti si alzano tutte in piedi per deferenza. Sono molto colpito da questi contrasti. 

 

    Don Russo mostra molta gioia nel ricevere le foto che gli manda, mio tramite, Mario Giordano e mi confessa, più tardi, che ha più volte superato molte delle difficoltà operative della scuola ricordando la gratitudine e l’affetto che gli dimostrano gli ex allievi. Ci intrattiene, poi, nel suo ufficio offrendoci bibite rinfrescanti e parlando sia della scuola di oggi, sia dei sacerdoti che conoscevo. Cordiale e simpatico anche l’incontro con il direttore e con il suo vice, poi un piccolo giro per rivedere la chiesa, (nulla è cambiato: i dipinti di Don Bosco e del Beato Domenico Savio mi ricordano le ore lì trascorse ad immaginarli così come ci venivano descritti), i campi sportivi (ricordo i saggi ginnici, le gare sportive, gli autobus grigi che vi stazionavano, i litigi con i ragazzi “grandi” delle classi superiori alla mia, i fratelli Amante, e il compianto Marcello Casco …), le aule. 

 

    Ho compreso oggi che la severità che aleggiava allora in quegli ambienti altro non era che serietà  e impegno nel compito prefissato dai Salesiani. Oggi ho ancora più rispetto per il loro ordine.

 

    In chiesa, ricordo un episodio tragicomico: facevo il chierichetto per la messa pasquale cantata solenne a tre sacerdoti e dovevo transitare dalla Sacrestia all’Altare portando un grosso e pesante cero acceso. Ma la tenda di velluto (che oggi non c’è più) correva il rischio di essere lambita dal fuoco e, senza riflettere, abbassai all’indietro il cero mentre la cera fusa mi cadeva sull’occhio sinistro bruciandomi la palpebra e le ciglia; per il forte dolore ebbi una esitazione nell’incedere verso l’altare e il sacerdote che mi seguiva mi disse: “Non mi devi cedere il passo, sei tu che devi entrare per primo”. Quel momento fu dopo ricordato dagli amici come una mia galanteria impropria, invece l’occhio mi bruciava da morire e non potei fare nulla se non alla fine della messa.

 

 

Cimitero italiano in Alessandria

    

    Si chiamava Rue d’Aboukir, poi è divenuta Sharah El Horreja, adesso è Sharah Gamal Abdel Nasser, ma nemmeno i tassisti la chiamano così. Su di essa si affaccia il cimitero italiano d’Alessandria. Un operaio toglieva ciuffi d’erbe ed un altro innaffiava, ma la loro attività non incideva sullo stato d’abbandono generale.

 

    Al guardiano, un giovanotto munito della dotazione burocratica standard (sedia e piccola scrivania in legno) ho chiesto di vedere i registri; mi ha guardato un po’ trasecolato e molto annoiato (dovevo aver disturbato il riposo della sua mente) e mi ha risposto che non c’erano. Alla mia insistenza che dovevano pur esistere, ha risposto di tornare un altra volta che lui avrebbe chiesto al “moudir”.

 

    Lasciato perdere il pur vivo ma inutile custode, ho seguito le indicazioni che mi aveva fornito mia madre, ho trovato il loculo del mio nonno materno, Mario Flavetta morto il 5/4/53, nel cui stesso loculo riposa anche il mio zio paterno acquisito Gennaro De Martino morto il 28/9/60. Ho pregato per loro.

 

    Un sordo rancore mi ha pervaso quando ho dovuto constatare che l’area delle due tombe in marmo a terra, dove riposavano i miei nonni paterni Giovanni e Carmela Giudice, era stata profanata. Posso pensare ad un solo motivo per tale scempio: il marmo è servito a qualcuno.

 

    I loculi murari e le tombe monumentali non hanno subito grandi danni se non quelli del tempo e dell’incuria: sono quasi tutti in condizioni precarie ma accettabili (non tutte le costruzioni monumentali però, di alcune si vedono solo i ruvidi nudi mattoni) e sono ancora rimaste alcune tombe a terra.

 

    Sembra, come lo è, un posto del quale da quarant’anni non si occupa più nessuno.

So che alcune persone hanno fatto e fanno ancora molto per spirito di carità, ma non può bastare.

 

 

La Casa di Riposo Vittorio Emanuele III

 

    E’ lì a Soter come la ricordavo, decorosa e signorile nell’aspetto. Si leggono i nomi dei benefattori e tra questi alcuni che conosco: Giannotti, Cartareggia, Misitano. 

 

    Il signor Patruno e la moglie fanno del loro meglio per consentire il necessario ai residenti. Il sig. Nino Licciardello sta cercando di riprendere in mano una situazione che pare sfuggita di controllo, visto che anche le suore della Nigrizia sono andate via. Sono belli quegli anziani (italiani e non) che hanno voluto rimanere nel paese nel quale sono nati e nel quale hanno creduto; c’è un che di nobile nel loro aspetto e nel loro sguardo verso noi che “abbiamo abbandonato il gioco quando si è fatto pesante”. Li ho salutati con rispetto.

 

    L’autista Mohamed Ali, mentre ci attendeva è rimasto a parlare con alcune persone nel giardino, e, dopo che siamo usciti mi ha detto: “E’ incredibile, questi amano l’Egitto più di me, quando sarò libero verrò a trovarli per tenere loro compagnia! Sto imparando tante cose importanti del mio paese da voi stranieri, cose delle quali non immaginavo nemmeno l’esistenza”.

 

 

El Alamein

 

    Vuol dire “i due picchi”. La strada è larga e ben pavimentata, ci sono dei posti di blocco da parte della polizia per la verifica dei transiti. Il mare si può descrivere con un solo aggettivo “splendido”, e ciò ha incoraggiato la costruzione di tantissimi complessi residenziali estivi a prezzi piuttosto elevati considerato lo standard medio di vita locale, mi è stato detto che un appartamento medio vale circa 250 milioni di lire.

    Dopo il mausoleo  tedesco, un torrione tozzo che stona un po’ in quell’ambiente bello e ondeggiante, si erge il museo egiziano che ospita i resti delle armi recuperate dai campi di battaglia. E’ senz’altro organizzato bene come museo ed, inoltre, è servito da un bar con tutti i servizi; la sola cosa stonata è il prezzo da pagare per la videocamera: 5 volte il biglietto di ingresso. Lì, meglio che nei mausolei nazionali, si ha una chiara percezione delle dimensioni della battaglia e delle nazionalità dei combattenti: dall’una parte Italiani, Libici e Tedeschi, dall’altra Australiani, Canadesi, Egiziani, Francesi, Greci, Indiani, Inglesi, Marocchini, Pakistani e africani provenienti da diverse colonie inglesi e francesi.

 

    Poi il mausoleo italiano e quota 33: di parole ne sono state scritte tante e molto più appropriate di quelle che posso utilizzare io, voglio soltanto dire che ho sentito tanta tristezza ma anche l’orgoglio di appartenere alla stessa stirpe di quei ragazzi.

 

 

Le strade

 

    Si vedono pochi autobus e tram, numerosissimi, invece, i trasporti privati (station wagon, camionette, furgoncini chiusi e aperti e, in Aboukir, anche carretti trascinati da muli o cavalli).

 

    Non è certamente il caso di noleggiare una macchina e guidarla anche se il traffico scorre molto meglio che a Roma; il problema è costituito dalle indicazioni tutte in arabo, dai pedoni che sono peggio dei motorini e dalla paura di un incidente dal quale non avrei saputo venirne fuori. 

 

    Il bravo Mohammed Ali (che abita a Moharrem Bey e risponde al numero di telefono 491.2823) è un collaudato bravo autista e persona perbene. Non regala certo i suoi servizi, né dovrebbe, ma li svolge con cortesia, rispetto, simpatia e quella carica di umanità che presto mi porta a pensare a lui come un amico. Prima di me lo avevano conosciuto Mario Giordano e Lucia Zottich e ne avevano espresso una valutazione positiva perfettamente condivisibile. Statura media, viso aperto e sguardo intelligente, tarchiato e robusto mi richiamava alla mente i “camalli” genovesi. E’ un uomo molto disponibile che ha svolto tanti mestieri, ha fatto il marinaio ed ha girato mezzo mondo, prima ancora lavorava nella fabbrica tessile dell’ing. Polvara, adesso guida una Peugeot 505 station wagon con 360.000 km che va a meraviglia, dato che lui, mi dice, è molto attento ai livelli dell’olio; la vettura, peraltro è pulitissima. Ci ha portato in giro per Alessandria tutti i giorni ed ogni giorno aveva un “pensierino” per noi: i biscotti fatti dalla moglie per i miei ragazzi, le "gauafe" fresche e sode, i fiori di ibiscus per il carcadè, i limoncini verdi profumati, ecc.

 

    Le strade, in generale, hanno una buona asfaltatura o ancora il vecchio pavé a lastroni e poche buche (a Roma constatiamo, purtroppo, che difficilmente esiste strada senza buche); le arterie maggiori sono contornate, quasi sempre da marciapiedi che, però, non brillano per la pulizia, quelle minori, spesso invece, portano ai lati un pesante fondo di sabbia mista a terriccio polveroso. Le strade larghe sono divise da spartitraffico che, spesso, è un intralcio per i carretti trainati da asinelli ai quali i proprietari assegnano le stesse regole di movimento dei pedoni. Davanti ad una situazione di un ragazzotto che frustava l’asino perché non riusciva a far scavalcare lo spartitraffico al carretto, Mohammed Ali commentava “min el humar?”. I limiti di velocità e i divieti di parcheggio, almeno nelle arterie principali, sono rispettati pena il ritiro della patente o le manganellate sulla carrozzeria da parte di qualche “shaouish” infuriato.

 

    In Alessandria ci sono quattro vecchi depuratori, pare non perfettamente funzionanti, e molte fognature conducono direttamente al mare o al lago Mariut transitando sotto le strade, per cui può capitare di transitare in alcune strade dove le linee fognanti sono rotte e miasmi rendono l’aria decisamente pesante; la qualcosa si riproduce nei mercati (in particolare quelli del pesce) e vicino ai raccoglitori della spazzatura.

 

    Mentre la “corniche” e le case che vi si affacciano brillano di candore (ho ancora negli occhi la luminosità delle ville di Glym), le strade interne e le vecchie case nel “centro storico” necessitano di molto lavoro di restauro: le abitazioni che si affacciano su Via delle Monache (Sharah Sabaa Banat) hanno l’intonaco (laddove esiste ancora) ingrigito dal tempo e le persiane quasi pericolanti; poche sono le “musharabija” ancora agibili. Temo che lo sforzo fatto in passato per cancellare le tracce dell’Egitto cosmopolita – vedi ad esempio il divieto dell’uso dei “tarboush” – ha cancellato una parte unica nel suo genere della storia di questo bel paese.

 

    Molto elevato è il numero di negozi addetti alle riparazione di oggetti in confronto a quelli di articoli nuovi; non si butta nulla, si ripara e si ricicla e i riparatori espongono parti di ricambio di cose per noi oggi impensabili: parti di ferri da stiro elettrici, manopole di radioline, cassette audio senza il nastro, chiavi con relativo tamburo, fari per biciclette, paraurti di autovetture, copertoni di ogni dimensione, sedie, ecc.

 

    Interessanti i negozi di souvenir (chiamati Souk o Bazar)  dove si trovano letteralmente tutte le curiosità: oltre ad una serie di regali per amici e famiglia ho comperato anche un "tarbouche". Raccomando LUX in Rue Bab el Karasta.

 

 

Ras el Tin e Kait Bey

 

    Poco posso dire del palazzo di Ras el Tin, poiché è usato dal Rais Hosni Mubarak durante i suoi soggiorni in Alessandria ed è trattato dalla polizia come un impianto militare. Iniziò qui la rivoluzione nel 1952, quando gli ufficiali di Neghib costrinsero Faruk ad abdicare in favore del figlio Fuad II ed a imbarcarsi sul panfilo che lo portò in Italia (il legame di amicizia tra italiani ed egiziani è di antica data: il re Vittorio Emanuele III ha trascorso il resto della sua vita, dopo l’avvento della repubblica in Italia, nella città di Alessandria  ed è sepolto nella chiesa di Santa Caterina).

    Kait Bey è in ristrutturazione e si erge maestoso e bianco contro il bel cielo azzurro egiziano; sorge nel luogo ove una volta fu costruito, nel III secolo a.C., il faro di Alessandria (una delle sette meraviglie del mondo) alto 120 metri per essere ben visibile ai naviganti, vista la mancanza di monti in Alessandria, e poi distrutto da vari terremoti, l'ultimo nel 1300. Sulle sue rovine e con le sue pietre fu dapprima edificata  una moschea e successivamente il forte che oggi conosciamo. Un museo, piccolo ma interessante, accoglie elementi di navigazione, dagli antichi egizi, passando dagli arabi, ai Francesi di Napoleone.

 

 

Patisseries, ristoranti e cinema

 

    Erano i nostri punti di riferimento principali: Pastroudis è ancora lì e il tempo non lo ha sfiorato, Delices ha ancora i dolci migliori secondo me, Athineos ha perso un po' di lustro così come Trianon e l’Elite fa tristezza visto lo stato di decadenza in cui si trova. 

    Dei ristoranti posso dire poco  salvo di aver visto qualche insegna conosciuta; i ristoranti del albergo Helnan Palestine è troppo caro in relazione a ciò che offre, ottimo invece il Seagull al Mex ove per cifre più che ragionevoli si mangia molto bene e con un servizio eccellente. 

 

    I cinematografi sembravano tutti tanto grandi allora, adesso, invece, sembrano minuti ma non sono cambiati, anche le insegne in molti teatri sono come le ricordavamo; si usa come allora esporre i manifesti del film del giorno e di quelli delle settimane a venire (i “prochainement”).

Le foto raffigurano il teatro Elabd a Ibrahimieh ed il glorioso cinema Metro.

 

 

Ospitalità

 

    Il senso dell’ospitalità egiziana è proverbiale e non ho mai udito nessuno dubitarne, debbo solo spendere parole per accrescerne le qualità. Chi, come me ha la fortuna di avere amici egiziani può certamente confermarlo. Siamo stati ospiti di egiziani, conosciuti per un caso fortunato, e la loro ospitalità spontanea e generosa è stata uno dei momenti più gradevoli dell’intero viaggio. Mi è evidente che la natura egiziana prova veramente piacere a curare e vezzeggiare l’ospite e a circondarlo di attenzioni e di regali. 

 

    I primi ricordi che mi tornano alla mente, ripensando al mio viaggio in Alessandria, sono: il mare e l’ospitalità.

 

 

La biblioteca

 

    Ancora in costruzione dovrebbe essere inaugurata entro l’anno. Sarà certamente un’attrazione formidabile per Alessandria, città che ha una storia ed una cultura sfortunatamente conosciuta da pochi. 

 

    Si dice che la biblioteca si sviluppò in Alessandria principalmente a causa della facile disponibilità di papiro sul quale scrivere, sarà anche vero, ma ancora più vero è che localmente c’erano persone che richiedevano la riproduzione di testi ed altri che sapevano svolgere l’opera di copiatura. Nel II secolo a.C. si parla di un piano di incremento da 200.000 papiri a 500.000, e ai tempi di Callimaco (250 a.C.) di 100.000 testi tra quelli presso la reggia e quelli nella biblioteca. 

 

    Era certamente il simbolo della prevalenza della cultura ellenista nel mondo del Mediterraneo insieme con Atene ed Antiochia.

    Giulio Cesare fu accusato di averle fatto appiccare fuoco, ma appare più ragionevole pensare ad una serie di eventi successivi, nel periodo di decadenza della città, quali rappresaglie romane nel III e IV secolo d.C. e la definitiva scomparsa dopo l’occupazione araba.

 

 

I sapori

 

 

 

Gli odori

 

 

 

I suoni

 

Nel frastuono e nella baraonda generale si notano:

 

 

I colori

 

 

 

Gli abiti

 

 

 

I comportamenti

 

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