GYGES

           Gyges, vissuto nel 680 a.C. a Ovest di Anatolia, scese in Lydia ove divenne re fino al 648 a.C. per 38 anni. Egli usurpò il trono a Candaules, uccidendolo con la collaborazione della regina, che dopo divenne sua moglie.  Fu un grande condottiero, combatte in Siria, e in Egitto e fece ricca la Lydia, ma in Anatolia trovò la morte per mezzo, di Archedis, figlio di Candaules, il quale, dopo aver vendicato suo padre ritornò in reggia per uccidere anche la madre divenuta moglie di Gyges, re di Lydia. Ma il trono appartenne ad Ardi figlio di Gyges e di Eblea. L’oracolo fu contro Archedis per l’eccidio commesso senza interpellare gli dei.

Capitolo 1

Un eco si fuse tra le note vibranti, in una valle,

Ove un pastore sdraiato sotto un albero

Zufolava un cantico fino a quanto più non volle,

 

Da un antro soprastante,

Pervenne il soave canto d’una ninfa2,

E fè, che infatuò il giovine in un istante.

 

Gyges, di Daschilo d’Anatolia, figliolo,

Era che pascolava in terra di Lydia,

Ignaro d’un fato che lo stava portando in volo.

 

Mentre s’avvicinava, v’eran fiori,

E la ninfa parea che lo invitasse con incanto,

Ad ascoltare la grazia dei suoi cori.

 

Appena entrò nella spelonca, provò incanto.

Eco, gli venne incontro,

E col suo volto seducente gli stette accanto.

 

 La ninfa Eco:   

Gyges, vicin ti ero quando tu nuotavi

Nel lago ove andavo per sollazzo,

Ed osservando il mio riflesso, tu mi amavi.

 

Limpida la mia immagine veniva avanti

E il mio sorriso t’inondava

Mentre ti estasiavi al suon di dolci canti.

 

Il tuo suono, con ascesi note armoniose

Uguagliò la risonanza del mio eco,

Che fece tintinnare i fiori di mimose.  

 

Ma ancor coinvolse me che t’apprezzai      

E a poco a poco nascere vidi in me

Tanto desio che t’amai.  

 

Diletto mi sei or tra queste mura,

Che ospitarono Giasone e gli argonauti,

Prima che si diressero per Colchide la sera.

 

Così desidero che tu resti tra le mie premure

Che docili ti rendono il pensare,

Tra il mio cuor che non ha misure.

 

Gyge

Io vidi in quella luce chiara,

Che s’infondeva a quella della luna,

La tua immagine divenir dolce e cara.

            

Sentii un suon divino d’armonia

Quando le fronti rimosse al vento

Vibrarono come d’una rara sinfonia.

 

Non conoscevo il tuo nome e pur t’amai.

E non appena la tua voce mi fu di conforto,

In quello incanto t’abbracciai.

 

Da allora suono il flauto come non mai,

E aspetto che m’appari

Per saper di più, in questo mondo fai.

 

Sol so, che Ninfa sei di bellezza rara,

Che m’accogli nel tuo seno e m’infondi

La speranza che al cuor m’è cara.

 

Se il tuo amore è senza inganno

Fa che nel mio cuor nasca un fiore,

Come segno d’avermi accolto nel tuo regno.

 

La ninfa Eco

Vorrei tanto, rompere il mio incanto,

Cambiare il mio essere divino con l’umano,

Sentire emozioni e dell’amore il pianto,

 

Ma non posso goder vita senza canto.

Il mio mondo è separato e strano

E mi lega tra cielo e terra senza vanto.

 

Or, che siamo stati insiemi pochi giorni

E amore in noi è nato, ti fò regalo d’un anello,

Che ti rende invisibile e poi torni.

 

Va o Gyge! Poiché il tuo destino è già segnato.

La tua fedeltà a Candaule ti procurerà

Fausto potere, ma di sangue sari bagnato. 

    

  Verso Sardis

   Gyges                       

Ecco Sardi! Gli sto d’avanti,

città ove risiede il re di Lydia,

terra di guerrieri, di arcieri e fanti.

            

Il sole splende in questa città d’oriente,

E le alte terrazze ed i giardini,

Mi conquistano il cuore fortemente.

 

La città sembra una padrona

Le strade convergono alla reggia,

E pare che al trono tutto s’incorona.

                                                   

Nella corte cercherò d’entrare,

Mi rivelerò come figlio di Daschilo,

E da Cantaules mi farò apprezzare.

In corte, Gyges  

Maestà, son pronto ad allietarti,

Col suono del mio flauto, ed aiutarti

Con consigli validi che so darti.

 

Fama è corsa dai monti fin giù la valle,

Che so prevenire l’azione del nemico,

Quando improvviso si scaglia alle spalle.

 

Fu un dono ch’io ebbi, non so come.

E saputo del dolore, volli aiutare

Un cavaliere, di cui non so il suo nome.

                                                     

Suo padre, fedele al re, cadde in un tranello,

E fu ucciso dallo stesso uomo,         

Che usurpò il trono del fratello.

 

Il cavaliere, amava la figlia dell’usurpatore,

Ed io lo convinsi a sposarla

E perdonare pure il genitore.

                                                                     

Ma fu diverso il destino di quella nazione,

Salì al trono, non chi con spada ferì,

Ma colui che perse il padre in tenzone.

 

Candaules     

Gyges, tu sembri di posseder le doti ,

Di un uomo guidato dagli dei,

Per cui, or ti assumo per assolvere a dei voti.

 

Oltre l’orizzonte, scende questo fiume,

E dopo Sardi bagna ancora Izmir,

Ove è nascosto un amuleto nel suo letto infime.

 

Esso contiene un divin monile

Che ha lasciato Naide, ninfa delle acque,

Dopo che uccise Hylas di Heracle, il virile.   

 

Durante la spedizione degli Argonauti

Presso la terra di Mysia, Hylas scese

Per prendere dell’acqua ch’erano assetati.

 

Ma Naide innamoratosi di lui,

In quell’amore nato in mezzo al fiume,

Le cadde la gemma, che brilla alla presenza altrui.

 

Ma stai attento che vi sono in ogni parte,

Insidie tra le acque di quel fiume.

anti sono andati, e trovarono la morte.

 

Sono pronto a partire, o mio re,

Per prendere il fatidico monile,

Ed esaudire così il tuo volere.

             

Gyges vicino al fiume

 Che strane cose vedono i miei occhi?

 Raggi di luce intensi, attraversano le fronti

 E par, che con la mano io li tocchi.

 

Un fruscio d’acque gelide e cristalline

Convogliano da una cascata verso il lago

Che fa da solco alle colline.

              

Pesci zampillan come farfalle,

Sullo sfiorar dell’acqua, e gioivi

Giocano ad inseguirsi tra le falle.

 

Ed un vapor d’acqua adagiato,

Rende l’intorno così misterioso,

Come quel luogo, che ho sognato.

 

Questo è il luogo dov’è il monile,

Ma vedo pesci che non fanno entrare,

E a gruppi divorano la carne come mele.

 

Un branco d’animali sta passando qui vicino,

Ed eludendo i pesci,

Spero di prendere il bottino.

 

Con un tuffo, m’è facile afferrar l’oro

Che brilla insieme al monile,

Mentre mi rendo libero da loro.

 

E’ così prezioso che mi sconvolge,

La mia mano si riscalda 

E misteriosamente par che mi sfugge.

 

Vorrei darlo ad Eco, così sarei riconoscente

Per avermi invaso il cuore

Col suo amore travolgente.

 

Nulla valse al mio desire

Di rimanere affascinato. Poi ammirarla

E forse, anche per non più morire.

 

Ritornare alla reggia è bene ch’io decida.

Ch’io non mi strugga con i sentimenti

E ricordar che la ninfa di me si fida.

 

Ringrazio gli dei che m’han protetto

Dalle insidie di questo fiume

Facendo pur tesoro di quel che mi fu detto.

 

Questo monile mi farà aver fiducia

E sarò per Candaules, un tale consigliere,

Che mai, mi farà rinuncia.

 

L’ora è già tarda e devo ritornare

Il buio mi dice di trovar riparo

Mentre penso a ciò che devo fare.

 

 Rifelssione 

“ Strano presentimento in questo luogo

Ove prodi e audaci cavalieri si cimentarono

Contro un destino che li portò al rogo.

 

Per goder della regina, amabile pensiero

E del re essere acclamato

Come il migliore condottiero.

  

Son come un seme che viene sballottato

Per raggiungere il prefissato loco,

Ed ignaro girovago per essere piantato.

 

Sembra, che qualcosa in me si desta,

Nel sentirmi attratto alla regina.

E par che questo desio non si resta.

 

Con il re Candaules cerco di far lega,

Lo seguirò nei suoi discorsi e nella caccia,

Per far che fra noi, amicizia ne venga.

 

 Che il favor degli dei mi sia propizio

D’essere pronto esecutor del suo desio,

Che ottempera l’ordine, in servizio.

 

Gyges  ritorna in corte               

Maestà, non so come son qui tornato;

Quel fiume nascondeva molte insidie

Quando trovai il monil da te vantato.

 

Un momento assai propizio io ebbi,

Su dei piccoli pesci che divoravano la carne.

Che mai li vidi ne, il lor dir conobbi.

 

Così mentre erano tutti intenti a divorare,

La selvaggina ch’era lì per bere

 

 E dopo tanti, in me cadde la scelta

Poiché nulla io feci per meritarlo.

Ringrazio or gli dei anche questa volta.

 

Penso che le note del mio flauto,

Portarono ad Eco tanta armonia

Che il suo gradir fu lauto.

 

 Con favor ebbi il suo aiuto nell’avventura

Che sembra da quell’ora,

cambiata la mia vita ch’era oscura.