UNA STELLA MOLTO
SPECIALE
La stella cui era serbata, quella notte, cosí
straordinaria avventura, ardeva insieme con le altre nei firmamenti
sereni, quando si sentí accanto un largo battere di ali che essa
riconobbe subito per quelle, splendide fra tutte, dell'Arcangelo
Gabriele, messaggero di Dio. E la voce di lui, sonora e bellissima,
proferí queste parole: «Esulta, o fortunata fra le stelle, poiché
Dio ti chiama al Suo cospetto». La stella lo seguí, piú che mai
felice, piú che mai luminosa, passando veloce nell'aria celeste, in
mezzo alle sorelle che la miravano con mille e mille occhi
d'argento. Quando fu innanzi al Signore, le parve di annegare, come
una misera gocciolina, in quell'oceano di luce. Pure udí la gran
voce divina, soave e dorata come un giorno di maggio, che diceva:
«Questa è la notte, memorabile nel tempo e nell'eternità, in cui i
Sapienti della Terra vengono ad adorare il mio Figliuolo che ha
voluto nascere, povero e bambino, fra gli uomini. Ma nel buio che è
grande a quest'ora in quel povero mondo laggiú, essi stentano a
riconoscere la strada. Scendi tu, dunque, o argentea, tu cui diedi
un cuore simile al cuore degli uomini, cammina innanzi a loro nella
notte, e fermati alfine nella capanna ove giace il mio Figliuolo, e
diffondi su tutti e su tutto un lume di cielo. A ognuna di queste
parole, la stella si accendeva sempre piú e ardeva e scintillava
come se entrasse in lei, a onda a onda, la luce di quel mare senza
fine. Quando Iddio tacque, essa partí mandando raggi e baleni; passò
rapida fra le stelle che, accorrendo da ogni parte dei cielo,
facevano ala al suo passaggio, stupite del suo nuovo fulgore e della
sua inaudita missione; poi, preceduta e seguita da uno stormo di
angeli musicanti, scese verso la Terra, la quale, da quell'altezza,
si scorgeva appena appena, laggiú. La luna che, pove retta, era nel
suo ultimo quarto, restò abbagliata del tutto. Di lí la stella
scorse i Re Magi che venivano avanti a fatica nel deserto, bruni e
piccoli come formiche. Punta da una compassione che non aveva mai
provato nei cieli, e lieta di ubbidire a Dio, essa si lasciò piovere
giú con la dolcezza che hanno soltanto le cose celesti; e poi,
fermatasi a mezz'aria, cominciò a scorrere, blanda e raggiante,
innanzi a loro. Non si vide mai al mondo viaggio cosí fantastico.
Alessandro, Cesare e Annibale con tutti i loro soldati, i cavalli,
gli elefanti; i re e i sacerdoti d'Egitto fra le piramidi e le
sfingi; Atene con le colonne e le statue d'oro; tutte le mera viglie
e gli splendori del mondo impallidiscono di fronte a questa carovana
che a un tratto si accorse di non camminare piú, ma di volare sulle
orme della stella. Né i magnifici Magi vestiti come l'arcobaleno, né
le centinaia di paggi e di servi, né i poveri cammelli carichi di
doni e vettovaglie, toccavano piú la vile terra coi piedi. lI
deserto si stendeva, malinconico e basso, sotto di loro. Un immenso
fiume fu sorvolato con un senso di deliziosa frescura: l'aria
sembrava, in quel punto, avere le ali. Un monte, alfine, fu superato
con un piú ebbro volo. La mèta era vicina, ormai: si sentiva venir
su dalla Terra un ridere di fonti, una nenia di pastori, un
trepestío e tintinnío di greggi in cammino. La stella avrebbe voluto
fermarsi a vedere un po' come erano fatti quei re e quei pastori; ma
un vento irresistibile e pur dolce trascinava via via anche lei,
ora, verso il suo destino. Come fu sopra la capanna, quella celeste
aura venne meno come per incanto; la stella si fermò brillando di
una luce ancora piú viva; e poi calò giú, simile a un fiore piovuto
dal cielo, sul povero tetto che era trasparente per lei come un
sottile cristallo. Allora essa vide finalmente il Bambino, e non
ebbe piú curiosità di altro che di Lui, della Madonna, di San
Giuseppe, e di quanto accadeva intorno a loro. Il Bambino giaceva
nella mangiatoia, su un mucchietto di fieno, in mezzo all'asino e al
bue che lo guardavano anch'essi con occhi lucenti d'amore. La stella
non si saziava di mirarlo: le pareva impossibile che il Creatore
dell'universo si fosse ridotto a prendere, in una povera capanna,
quelle piccole forme umane. Come era leggiadro, tuttavia!... I suoi
occhi, memori ancora dei cieli, largivano felicità a chiunque li
mirasse. Le sue piccole mani use a guidare gli astri nelle azzurre
vie dello spazio, si baloccavano con un filo di paglia. La Vergine
si chinava ogni tanto su di lui, sorridendo e vezzeggiandolo con
mirabile grazia: e la stella si stupí che quella mamma fosse ancora
cosí giovinetta. San Giuseppe ora accorreva anche lui presso il
Bimbo, ora si precipitava verso l'uscio per vedere chi mai venisse
con tanto strepito di voci e di campani. A un tratto la stella, senza distogliere lo sguardo dal
Bambino, vide entrare i tre Magi: Melchiorre, Gaspare e Baldassarre.
L'uno accanto all'altro, essi si avvicinarono alla mangiatoia,
camminando a passettini brevi come quelli dei bimbi; si
inginocchiarono profondamente sullo strame, fra l'asino e il bue; e
poi, levatisi in piedi, si chinarono, piangendo di commozione, sul
dolcissimo Bimbo che li guardava e sorrideva. «Di questo fantolino –
diceva Gaspare – si parlerà fino al tramonto dei secoli». E
Baldassarre, pensoso: «L'ho sempre detto io che la nostra sapienza
sarebbe stata un giorno confusa da un bambino!» E il vecchissimo
Melchiorre: «Ora che l'ho veduto, posso anche morire». Un momento
dopo, entrò un gruppetto di servi carichi di doni l'uno piú prezioso
dell'altro: oro, incenso, mirra; e ricche vesti e tappeti; e frutti
e fiori dei loro paesi. «Siamo stati un'ora in Paradiso» disse
Melchiorre. Ma era il mattino, ormai: contro l'orlo delle colline
biancheggiava l'alba. La stella sentiva che, compiuta la sua
missione, avrebbe dovuto tornarsene in cielo; e pure, col desiderio,
ritardava la partenza; e guardava, non mai saziata,
quell'incomparabile Bimbo che portava il cielo in Terra. Infine essa
si sentí come avventata in alto, salí sfolgorante per il cielo e
riprese il suo posto ai piedi del Signore. Ma il pensiero del
Bambino che aveva per tanto tempo mirato negli occhi le dava un
continuo e veemente desiderio di tornare dove era Lui, di rivedere i
pastori, gli agnelli, e tutti gli uomini e tutte le cose che Egli
amava: di essere, insomma, come Lui, una creatura terrestre. La
prima volta che passò di lí l'Arcangelo Gabriele, fu lei a pregarlo
che la conducesse ancora una volta innanzi al Signore. Egli la
accontentò volentieri, con prontezza e cortesia; ma, quando essa fu
di nuovo lassú, nel mare della luce e della bellezza, non riuscí a
mettere fuori nemmeno una parola, tanto era insieme confusa e beata,
tanto si vergognava di quanto aveva potuto desiderare nel suo povero
cuore. Per fortuna parlò, in vece sua, il Signore; e parlò con
quella bontà che è un vano sogno quaggiú fra noi: «Ben conosco il
tuo struggimento, figliuolina prediletta. E ho già pensato a te,
destinando a tua sede la Terra che ami come la ama il mio Figliuolo,
anzi gli alti e puri monti di essa. Non sarai creatura umana, perché
potresti dispiacermi. Sarai un fiore, un innocente fiore; e gli
uomini ti chiameranno stella alpina, indovinando che vieni dal
cielo». Appena Dio ebbe detto ciò,
la stella, con un senso di liberazione e di letizia, si sentí
sciogliere tutta in fiori come un ciliegio nel vento d'aprile. La
mattina dopo, le vette delle Alpi erano come seminate di un nuovo
piccolo fiore. Gli agnelli, pascendo allegramente nei prati solatii,
lo fiutavano, sorpresi, e vi sentivano odore di cielo. Le sorgenti,
piene di luce ancora piú che di acqua, cantavano felici nel sole. I
figliuoletti dei pastori, sdraiati supini nell'erba con accanto i
primi mazzolini del nuovo fiore, miravano assorti il cielo sereno.
G. Zoppi da "La
leggenda della stella alpina" in Le leggende del Ticino, S.E.I.,
Torino 1952 |