Il Sogno di Pico

Giovanni Pasetti

Indizi e prove: Giovanni Pico della Mirandola e Alberto Pio da Carpi

nella genesi dell’Hypnerotomachia Poliphili

prima parte

Chi non sia riuscito ad attrarre Pan, invano evoca la natura e Proteo

Conclusiones nongentae

Un appassionato romanzo d’amore; una narrazione che unisce al sapere aristotelico e scolastico i fantasiosi concetti del neo-platonismo fiorentino; un viaggio avventuroso dell’anima attraverso le rovine dell’antico, fra enigmi geroglifici e misteriose epigrafi; una preziosa edizione illustrata da numerose xilografie; un labirinto di citazioni mitologiche, con scarsi riferimenti alla fede cristiana, pur accennata sullo sfondo; un percorso che attraversa strani riti, reinventati allo scopo di offrire al lettore un compendio delle metamorfosi dell’esistenza; un museo d’inchiostro in cui si affastellano gemme, piante, materiali, animali, nozioni architettoniche e geometriche; una processione di figure allegoriche che rinviano alle virtù e alle debolezze dello spirito; una descrizione ardita del legame erotico fra un uomo e una donna; un sogno struggente che si conclude con una separazione forse definitiva. Questo e molto altro ancora è l’Hypnerotomachia, che a ragione può essere definita il primo vero romanzo di formazione della letteratura occidentale. Un’opera dall’esito incerto e paradossale, poiché è proprio il suo precario equilibrio a spingere Polifilo verso nuovi ardimenti del senso. Così, è l’imperfezione a regnare sovrana nelle sue pagine, è l’imperfezione a renderle sublimi e inimitabili, come uno sforzo prodigioso della memoria che trova il suo valore nelle cose dimenticate, lontano da un elenco infinito di dettagli che rappresenta soltanto la superficie sdrucciolevole del discorso. Polia manca, e di Polia ci si ricorda sempre; ma il corpo dell’amata si traveste di innumerevoli orpelli sapienziali che mascherano a malapena il dolore immenso per la sua scomparsa, metafora del tramonto dell’epoca umanista.

Se intendiamo poi esplorare il mito che da questo racconto è nato, subito riscontriamo due evidenti anomalie, che in parte spiegano le vicissitudini e la fortuna a cui il nostro protagonista quattrocentesco è andato incontro, con incoscienza quasi giovanile. Innanzitutto, il testo è redatto in una lingua bizzarra, enciclopedica e oceanica, che vuol riassumere in sé l’universo intero rischiando ad ogni riga il fraintendimento, la perdita di significato, l’incomprensione; una scelta stilistica unica nel suo genere, capace di costringere l’idioma materno entro una gabbia di frasi desunte da una miriade di scrittori, illustri o secondari, latini o contemporanei, spregiudicati o tassonomici.

In secondo luogo - e da qui inizieremo la nostra analisi - l’autore resta sconosciuto, sia per l’assenza di una chiara paternità, sia per la ricchezza delle proposte che gli studiosi hanno avanzato, basandosi sempre su realtà biografiche sfuggenti o su labili assonanze. Abbiamo già notato come un’affermazione perentoria sia ripetuta nelle diverse prefazioni: il libro è privato del genitore, ovvero il nome dell’artefice non deve essere rivelato. L’anonimato è tanto più pesante poiché si collega direttamente alla caratteristica più sconcertante del Polifilo, la sua illeggibilità. Infatti, un libro che pochi bibliofili sono riusciti a scorrere dal primo all’ultimo capitolo ha generato, come contraltare illusorio, un fantasma, il fantasma dell’ideatore di questa impresa sterminata.

Sin dal sedicesimo secolo, attraverso le note stese dai proprietari di alcune copie dell’edizione aldina, si è tentato di dare corpo ad un’ombra vaga. Ma l’unico dato certo che giustificava il delinearsi delle prime ipotesi rimaneva l’acrostico. Alla maggior parte dei lettori, italiani e francesi, sembrò dunque ovvio identificare in Francesco Colonna, un frate, l’estensore del romanzo. Ben presto si sviluppò quindi la prima contraddizione. Il segreto a cui Francesco avrebbe piegato la sua intera esistenza sembrava motivato dalla licenziosità del testo, il cui contenuto paganeggiante, unito a numerosi dettagli erotici, avrebbe consigliato al prudente religioso di non esporsi con una rivendicazione diretta. Ma furono proprio alcuni domenicani, appartenenti allo stesso ordine del Colonna, a vantarsi del suo molteplice ingegno, che avrebbe grandemente illustrato le virtù dei predicatori.

Gli eruditi settecenteschi e ottocenteschi, pur confusi dalla ricchezza delle illustrazioni, e inspiegabilmente portati a sopravvalutarne il valore artistico, diedero in generale ulteriore forza a questa prospettiva di indagine. Parallelamente, tuttavia, si manifestarono voci in disaccordo: come poteva un tale genio essere un oscuro frate, perché mai una sapienza tanto logorroica avrebbe partorito una sola opera, da quale sorgente giungevano all’autore i temi neo-platonici? Così, andrà almeno citato il giudizio del Biadego: ‘‘Questo mostro d’erudizione non lascia alcuna traccia nel mondo delle lettere e delle arti, non uno scritto di lui, non una lettera di lui o a lui diretta nei numerosissimi carteggi, non una memoria negli scrittori del tempo...’’ Dal canto suo, Gnoli conclude: ‘‘Nonostante l’acrostico e quantunque nessuno ne abbia mai dubitato, non so liberarmi dal dubbio che un qualche illustre umanista si nasconda dietro la tonaca di frate Francesco.’’ D’altronde, Roland Barraud ha giustamente osservato che ‘‘nessuno si è mai accostato al libro del Colonna con l’intenzione di esplorarlo completamente... gli eruditi delle epoche più diverse non ebbero mai lo stesso oggetto studiando il Polifilo; piuttosto che un solo libro si crederebbe che essi abbiano trattato un gran numero d’opere completamente differenti fra loro.’’

Giungiamo dunque ai contemporanei, per scoprire che non meno di sei distinti individui sono stati proposti, usando sempre argomentazioni raffinate e abbastanza documentate. In particolare, paradosso fra i paradossi, il Francesco Colonna originario si è sdoppiato, dando luogo ad un frate veneto e ad un nobile romano, lontanissimi per nascita, costume intellettuale, finalità letterarie, dialetto familiare e mezzi privati di sussistenza. Questo parto gemellare è stato accompagnato da un’infuocata polemica: ambedue gli studiosi coinvolti hanno ultimato centinaia e centinaia di pagine, schierando nel proprio campo alunni ed amici, disprezzando nel modo più completo l’opinione opposta, fino ad ignorarla con ostentazione.

Ora, per mettere ordine fra le diverse tesi, le esporremo brevemente dividendole in due gruppi, poiché l’approccio di chi mirava a identificare il volto del misterioso Polifilo ha sempre scelto una fra due possibilità. Alcuni hanno infatti pensato che si trattasse di un uomo di elevato ingegno ma di bizzarre prospettive: chiuso nel recinto di un proprio sogno personale, avrebbe dato alla luce un solo testo, cercando di compendiare nelle sue righe astruse ogni nozione di cui era in possesso; la strana lingua sarebbe appunto il frutto e il sintomo di un isolamento assoluto, che naturalmente lo avrebbe separato dall’ambiente degli umanisti a lui coevi, limitando drasticamente le notizie a noi disponibili. Altri hanno imboccato un sentiero opposto: dietro a Polifilo si nasconderebbe un personaggio famoso, che ha deciso di celarsi dietro una muraglia protettiva di mezze verità per evitare l’accanimento di svariati avversari contro il suo nome e contro la sua opera. Da qui tutta una serie di precauzioni, una cortina fumogena efficace ancora oggi.

L’autore illustre: il Feliciano

Nato a Verona nel 1433, Felice Feliciano fu un autodidatta, appassionato di codici e di manufatti antichi. Calligrafo, umanista stravagante e viaggiatore infaticabile, divenne grande amico di Andrea Mantegna a cui dedicò due sillogi epigrafiche. Nel suo Alphabetum Romanum disegnò una serie completa di lettere in stile lapidario, cercando geometrie incisive e piacevoli all’occhio. Nella Iubilatio raccontò invece una celebre gita antiquaria compiuta sul Lago di Garda (23 - 24 settembre 1464) insieme a Samuele da Tradate, Andrea Mantegna e, probabilmente, Giovanni Marcanova, che rimase a lungo suo protettore. Rimatore di scarso livello, compose poesie volgari intessute di immagini ridondanti. Dagli anni sessanta in poi si dedicò ad esplorazioni intellettuali ancora più bizzarre, diventando una specie di alchimista vagabondo la cui figura viene messa in burla da Sabadino degli Arienti nella XIV Porretana: ‘‘... fu narrato uno piacevole caso del provido uomo Feliciano Antiquaro da Verona... Costui adunque, essendo in continuo pensiero, sollicitudine ed exercizio de trovare el vero effetto de l’archimia (ne la quale oltra el patrimonio suo, che fu assai buono e ampio, ha consumato ogni suo guadagno...), se mise ad andare in le montagne de Modena per trovare una certa pietra chiamata antimonia...’’ Fu anche autore di una lunga novella di argomento medioevale, la Gallica historia intitulata Iusta Victoria, e di numerosi epistolari. Si interessò con fervore della nascente arte tipografica. Morì verso il 1479 nei pressi di Roma.

Nel 1935 la studiosa russa Khomentovskaia ritenne di identificare nel Feliciano l’autore dell’Hypnerotomachia, essenzialmente sulla base di alcuni elementi: l’amore del veronese per le antichità, i suoi legami con Andrea Mantegna, ritenuto da molti l’ispiratore dell’apparato decorativo dell’edizione aldina, la debolezza di ogni ipotesi relativa a Francesco Colonna, alcune affinità stilistiche tra i frammenti del Feliciano a noi giunti e il lingaggio polifilesco, le relazioni del medesimo con il mondo umanistico veneto, con i tipografi e i curatori degli incunaboli, la sua passione per la calligrafia e per l’alfabeto, la sua attività di instancabile raccoglitore di epigrafi classiche. Punto forte dell’argomentazione è senza dubbio la tendenza iperbolica insita nelle prove del Feliciano, che alternava un latino artificioso ad un immaginoso volgare. Ottimo indizio è la citazione, nella dedica al Mantegna di una raccolta epigrafica, del verso virgiliano Trahit quemque sua voluptas, presente anche nell’Hypnerotomachia. Meno convincente appare il paragone fra la sintassi usata dal veronese e il tipico costrutto del Polifilo. Inoltre, risulta debolissima l’affermazione secondo cui l’anonimato dell’edizione a stampa sarebbe giustificato dal desiderio di nascondere alle autorità un alchimista compromesso con pratiche magiche. In conclusione, se il Feliciano è ben situato tra gli umanisti veneti della seconda metà del quattrocento, la data della sua morte è troppo precoce rispetto alla pubblicazione del 1499; ovviamente, egli non ha alcun legame né con Manuzio né con Crasso; peggio ancora, la sua levatura intellettuale non sembra adeguata alla stesura di uno sterminato capolavoro mitologico. Nei suoi versi si trova più acrimonia e disperazione che erotismo lirico o impegno dottrinale. Infine, pur trascurando la sua presunta omosessualità, occorre rilevare che egli probabilmente non possedeva il genio bastante per creare una struttura tanto complessa, mutevole e misteriosa.

L’autore illustre: una misteriosa Accademia

Tanto semplice e circostanziata è l’ipotesi della Khomentovskaia quanto affascinante e romanzata appare la proposta contenuta in Le Jardins du Songe (1976) di Emanuela Kretzulesco - Quaranta. L’autrice ritiene che il Polifilo sia il frutto non di un’unica mano, ma di una catena letteraria lunga quarant’anni, che attraversa tutto il Rinascimento italiano ed è composta da alcuni fra i suoi più celebrati protagonisti. Il primo ideatore del romanzo sarebbe identificabile in Leon Battista Alberti il quale, coinvolto nelle vicissitudini della cosiddetta Accademia Romana, un cenacolo di intellettuali sospettati di scandalose pratiche esoteriche, avrebbe fatto pervenire il tracciato originale dell’opera a Francesco Colonna, principe di Palestrina e parente del cardinal Prospero. A questo punto sarebbero intervenuti i fiorentini, in special modo Lorenzo il Magnifico, che avrebbe descritto nelle pagine dell’Hypnerotomachia il suo sfortunato amore per Lucrezia Donati. Il tutto, nel furore di uno scontro che avrebbe opposto la purezza e l’intima religiosità dei veri sapienti alle mire della Curia romana, dominata in particolare da Rodrigo Borgia, desideroso di impadronirsi del potere temporale eliminando ogni voce dissenziente. Così si spiegherebbe una lunga serie di morti sospette: lo stesso cardinal Prospero Colonna, papa Pio II, il cardinale di Cusa, il medesimo Lorenzo, Angelo Poliziano e Giovanni Pico della Mirandola. La Kretzulesco attribuisce proprio ai due inseparabili amici la decisione e il compito di consegnare il testo - riveduto e corretto - nelle mani del fidato Manuzio. Egli l’avrebbe stampato qualche anno dopo, avendo cura di mantenere il segreto sulla confraternita di ingegni responsabile della redazione finale di questo sogno sublime. Sogno che rappresenterebbe l’anima del Quattrocento, il filo sottile in cui sarebbe riassunta la vera dottrina di quell’altissimo gruppo di umanisti che illustrò le capitali dell’arte, Roma e Firenze, prima di venir disperso crudelmente. Non c’è da meravigliarsi, allora, se la studiosa associa le xilografie aldine all’ispirazione di Botticelli e di Leonardo; non c’è da stupirsi, se ritrova nella storia di Lorenzo e di Lucrezia il canovaccio del Romeo e Giulietta di Shakespeare.

In questa sequenza di ardite associazioni, che prende a lungo in esame anche il significato simbolico dei giardini occidentali, alcune intuizioni vanno certamente rispettate, altre approfondite con attenzione. Purtroppo, prevale nel saggio della Kretzulesco una tendenza alla sintesi che sposa e mescola date e persone fra loro non pienamente compatibili, grazie all’ipotesi di un complotto universale; tale postulato può, come sappiamo, funzionare da collante per qualsiasi ricostruzione avventurosa degli eventi più disparati. Tuttavia, è interessante il recupero di una diversa prospettiva, che vede nella lingua del Polifilo un audace tentativo di cogliere la complessità del reale. Occorre inoltre notare che l’autrice attribuisce in sostanza a Nicolas Kretzulesco il merito di aver focalizzato (nel 1962) l’attenzione altrui sulla figura di Francesco Colonna principe di Palestrina. Torneremo fra poco sull’argomento; ci limitiamo per ora ad osservare che la relazione di parentela tra Francesco e il cardinale Prospero non è molto stretta, appartenendo quest’ultimo al ramo detto di Palliano della grande famiglia romana. Infine, il versante meno accettabile della teoria nel suo insieme sta proprio nell’idea di una stesura a più mani del romanzo. Chiunque legga l’Hypnerotomachia rimane stupito per la sua compattezza, almeno all’interno di ciascuna sezione: la particolarità del costrutto, la sovrabbondanza delle citazioni, il gusto per la ricchezza dei materiali, l’enfasi posta nella descrizione del rapimento amoroso sono elementi che ci allontanano dal concetto di lavoro di gruppo, tanto più che è acclarata l’inconfondibile impronta settentrionale del volgare soggiacente.

L’autore illustre: Leon Battista Alberti

Ma la personalità di chi progettò Sant’Andrea e San Sebastiano a Mantova, il Tempio Malatestiano di Rimini e la facciata di Santa Maria Novella a Firenze merita sicuramente una riflessione ulteriore. Ci troviamo infatti di fronte ad un genio multiforme, dalla ricca e svariata produzione letteraria, dalle influenti amicizie ma dalla vita errabonda. Un’intelligenza bizzarra e polemica, che spesso si scagliò contro il conformismo e la piattezza morale dei suoi contemporanei. Inoltre, è indiscutibile che nel Sogno di Polifilo abbondino i riferimenti diretti al De Re Aedificatoria, che rappresenta anzi un’opera capitale per il misterioso scrittore di cui ci stiamo occupando. Nessuna meraviglia, dunque, se oltre alla Kretzulesco - Quaranta una seconda autrice ha proposto di recente il nome del grande genovese (1406 - 1472), come soluzione definitiva dell’enigma. Liane Lefaivre, nel suo Leon Battista Alberti’s Hypnerotomachia Poliphili - titolo alquanto esplicito - diviene una risoluta partigiana di questa non inedita tesi. L’Hypnerotomachia viene definita come una sorta di polemico manifesto erotico, che si rivolge non soltanto agli individui ma all’esistenza intera; tale manifesto si tradurrebbe in una difesa appassionata della sessualità femminile, sulla falsariga di uno spettacolare parallelismo fra il corpo della donna e il corpo architettonico.

Nonostante l’impressionante prodigarsi della fantasia albertiana, il continuo sforzo dell’artista per innovare e riadattare i moduli dell’antichità, l’estrosità del suo carattere e la sua profonda vocazione umanista, rimangono in campo alcuni problemi irresolubili. Innanzitutto, la data della morte (1472) appare troppo anteriore rispetto alla pubblicazione veneziana; non si comprende poi per quale ragione egli avrebbe dovuto mantenere l’anonimato, dopo aver concepito scritti mordaci e davvero eversivi come il Momo. È d’altronde nota la sua misoginia, di cui non resta traccia nella vicenda di Polia. Peggio ancora, la fondamentale questione dei rapporti tra il latino e il volgare è impostata nella Grammatichetta e in altri testi in modo completamente difforme rispetto alla stravagante soluzione polifiliana. Afferma il Proemio al III dei Libri de Familia: ‘‘Ben confesso quella antiqua latina lingua essere copiosa molto e ornatissima, ma non però veggo in che sia nostra oggi toscana tanto d’averla in odio... E sia quanto dicono quella antica apresso di tutte le genti piena d’autorità, solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo sarà la nostra s’e dotti la vorranno molto con suo studio e vigilie essere elimata e polita.’’ Ci troviamo insomma di fronte all’orgogliosa rivendicazione del toscano come lingua letteraria e di studio.

Tale posizione ben si confà allo spirito di Leon Battista, che volle sempre esprimere l’esigenza concreta di trattare le cose per quel che sono, giudicando il passato non una biblioteca di oggetti per sempre codificati, ma il retroterra da cui ripartire per altre conquiste dell’intelligenza umana, sempre considerando tuttavia il contesto in cui l’artefice si trova ad operare. Giustamente Serianni parla a tal proposito di riappropriazione; figlio illegittimo di un esule fiorentino, Alberti si riappropria dell’antico e della lingua per dare inizio ad un uso intenso degli strumenti riconquistati. Se è vero che nel Teogenio i latinismi lessicali completamente inventati non mancano, occorre distinguere questi esempi dal sistematico metodo dell’Hypnerotomachia. La differenza è capitale. In un certo senso, l’autore senza volto e l’architetto di Sant’Andrea camminano lungo i due versanti opposti del medesimo crinale; quel che distanzia il primo dal secondo è una tendenza più spregiudicata alla composizione e all’assemblaggio, quasi l’universo si dovesse sempre e comunque tradurre in rovina. Da questo punto di vista il Polifilo appartiene a pieno titolo alla cultura della maniera, pur vissuta partendo da Mantegna e non da Raffaello. Analogamente, la crittografia viene studiata da Leon Battista per fini pratici, lontano da ogni suggestione enigmistica o geroglifica.

Così, giungiamo all’ultima e più grave obiezione: nessuno scrittore di rango cita con tale dedizione se stesso. Proprio i continui riferimenti al De Re Aedificatoria sono la prova che il Sogno appartiene ad un altro ingegno, così sottile da riclassificare ciò che era stato repertoriato per uno scopo diverso, quasi rimescolando gli appunti di un catalogo secondo un ordine di livello ulteriore. Questo è il miracolo del Rinascimento italiano: contenere in sé la vertigine di proposte dissonanti che, una volta dispiegate, daranno luogo alla storia artistica dei secoli a venire. Dunque, Polifilo tratta alla stregua di un mito colui che attraversò il mito della romanità per erigere costruzioni moderne.

Un personaggio sconosciuto: Eliseo da Treviso

Passiamo ora al secondo gruppo di proposte, quasi completamente basate sull’enigmatica figura di Francesco Colonna. Ma esaminiamo innanzitutto una tesi che proviene in un certo senso dalla stessa radice, avvalorando alcune note in margine all’Hypnerotomachia redatte da studiosi del lontano passato. In assonanza con un precedente articolo di Alessandro Parronchi, nel 1983 Piero Scapecchi presenta ai lettori un frate Eliseo da Treviso in qualità di autore del Polifilo. Egli rimanda in realtà alla testimonianza di Arcangelo Giani; costui, nei suoi Annali - ultimati intorno al 1618 - parla di un Eliseo che tutto sapeva e che avrebbe scritto la misteriosa opera riversando in lei ogni scienza. Da qui nasce una tradizione percorsa dall’Omezzali, dal Bonfrizieri, dal Palombella e da altri; tutti sembrano ravvisare in Eliseo, frate servita, personaggio che intrattenne numerosi rapporti con Firenze e che morì verso il 1505, l’estensore del romanzo aldino; anche Bartolomeo Burchelati, storico trevigiano, nel 1616 accenna a tale prospettiva. Purtroppo, il filo logico seguito da Scapecchi è interessante più per la confutazione dell’ipotesi relativa al Colonna che per l’effettiva dimostrazione legata all’altrettanto labile Eliseo; lo studioso smonta infatti con precisione meticolosa gli indizi relativi al frate domenicano. In particolare, egli afferma: ‘‘L’acrostico non è niente altro che una dedicatoria: dietro il Francesco colonna, alta colonna, si nasconde un personaggio degno della massima stima dell’autore, dell’editore, del tipografo e del duca Guidobaldo...’’

Ci occuperemo fra breve del problema cruciale dell’acrostico. Basti ora sottolineare che nessuna prova evidente e nessuna testimonianza davvero attendibile parla a favore di Eliseo. Tale micro-vicenda ci illumina piuttosto in merito a due questioni su cui occorre insistere. In primo luogo, coloro che hanno tentato di svelare l’occulta paternità del Polifilo hanno spesso trascurato la peculiare cifra letteraria del testo in esame, accanendosi su dettagli alquanto secondari, radunati nel volgere degli anni dalla leggenda medesima dell’Hypnerotomachia. Così facendo, sono precipitati nel labirinto che intendevano esplorare, cedendo alla trappola allestita dagli apparati eretti a difesa dell’invincibile anonimato. Ad ogni riga, l’autore sembra infatti invitare ad una scoperta che manca continuamente il suo unico possibile bersaglio: l’eccezionalità di un discorso seducente, formato da strane parole e da immagini suggestive. La meraviglia non nasce tuttavia dall’altezza stilistica delle xilografie o delle citazioni, ma dal meccanismo intellettuale soggiacente alle stesse: chi afferra il meccanismo, cogliendone il senso e il valore, si dimostra degno del nome dell’uomo, proprio come recita l’epigramma del Marone, poiché in questo frangente la rosa è l’uomo, la rosa è Polifilo. In secondo luogo, è necessario rimanere particolarmente guardinghi di fronte alle conclusioni cinquecentesche, seicentesche, settecentesche. Esse provengono da un tempo in cui era più forte l’abbaglio e più ardente il desiderio di costringere l’anomalo entro il recinto dell’attribuzione.

L’ipotesi fondamentale: Francesco Colonna, frate domenicano

L’enorme lavoro compiuto da Pozzi, Casella, Ciapponi e confermato dall’ultima edizione adelphiana dell’Hypnerotomachia conduce invece ad un solo nome. Gli studiosi hanno tratteggiato in modo univoco la figura di un frate domenicano, Francesco Colonna, ben rispondente all’acrostico e ad alcune caratteristiche essenziali: umanista, veneto, vissuto a cavallo dei due secoli, implicato in vicende scandalose, legato a Treviso. Riportiamo i momenti essenziali della sua biografia. Egli nacque a Venezia nel 1433, e ivi scomparve nel 1527. A partire dal 1472 è registrata la sua presenza nel convento dei Santissimi Giovanni e Paolo: frater Franciscus Colona de Venetiis. Poco prima (1469), appare negli atti del convento domenicano di Treviso un frater Franciscus de Veneciis. Nel 1473, Colonna ottiene il baccalaureato di teologia presso l’Università di Padova, e nella città veneta probabilmente risiede per un certo periodo. Nel 1477 l’Ordine decreta la sua espulsione da Venezia per motivi a noi ignoti. Ma nei decenni successivi l’inquieto domenicano sembra del tutto riabilitato: intorno al 1481 consegue il titolo di magister, nel ’93 è predicatore a San Marco, nel ’96 addirittura priore. Verso la fine dell’anno 1500 ottiene il permesso di risiedere fuori dal convento. Segue una parentesi meno documentata, che possiamo estendere fino all’ottobre del 1516. In quel mese viene accusato di immoralità e confinato a vita a Treviso. Altri contrasti segnano la parte conclusiva della sua lunga esistenza, che pure vede il ritorno a Venezia e la morte in età veneranda, forse in misere condizioni.

A dire il vero, la qualifica di umanista è discutibile. Al contrario, sono certi i gravi turbamenti che contraddistinsero il suo comportamento: egli disubbidì più volte all’Ordine, incorse in numerose reprimende, fu costretto a difendersi dalla denuncia di un gioielliere e dall’accusa di aver sverginata una putta. Forse divenne il protagonista involontario di una novella del Bandello (la quarta della seconda parte, in cui appare un Frate Francesco Veneziano incline a piaceri illeciti e omicidi). Si ignorano suoi rapporti con Aldo Manuzio. Non risulta alcun testo da lui compiuto, tradotto o curato.

Dunque, abbiamo un Francesco Colonna di Venezia. Ma quali sono le prove che legano l’uomo all’opera? Si tratta sostanzialmente di quattro argomenti, ripetuti all’infinito nel corso degli studi. a) Il letterato settecentesco Apostolo Zeno sostiene (1723) di aver letto all’interno di un esemplare del Polifilo un’annotazione manoscritta in cui si afferma che l’autore è appunto Francesco Colonna, del convento dei Santissimi Giovanni e Paolo. b) Nel 1501 il maestro generale dei domenicani ordina che venga imposto al Colonna di pagare le spese sostenute dal padre provinciale per un libro a stampa. c) Leandro Alberti, domenicano e futuro inquisitore (seguiremo la sua carriera a fianco di Gian Francesco Pico), scrive nel De viris illustribus ordinis praedicatorum (1517) che un certo Francesco Colonna manifestò la propria capacità letteraria e il proprio molteplice ingegno in un libro in volgare. d) Il carme dedicatorio di Matteo Visconti presente soltanto nella copia della Biblioteca di Berlino parla, come abbiamo già notato, di Francisco alta columna.

Inoltre, esistono alcuni epigrammi quattrocenteschi rivolti ad un Francesco Colonna. Il Colocci (1474 - 1549) ne raccoglie due, in cui si loda questo Francesco per aver riunito in sé le qualità di Virgilio e di Cicerone. Un terzo epigramma è di mano dell’umanista veneto Raffaele Zovenzoni (1434 - 1495), che nell’Istria dedica un breve carme a Francesco Colonna Antiquario, discettando sulla derivazione del suo cognome dalla doppia colonna posta a Cadice da Ercole per marcare gli invalicabili confini del mondo. Infine, nell’esemplare del Polifilo conservato a Cambridge appare un sonetto datato 1518; l’acerbo componimento venne vergato dal domenicano Sisto Medici, all’epoca sedicenne, che nuovamente dichiara come l’autore sia Francesco, de virtù ferma colonnula.

Tutte queste scoperte, pur encomiabili, rivelano una fondamentale debolezza: esiste chiaramente una tradizione domenicana che associa, fin dagli albori, un frate Francesco alla stesura della sfuggente opera. Questo contraddice in modo stridente il desiderio di anonimato dell’autore. Secondo la tesi più ovvia, infatti, egli avrebbe voluto prendere le distanze dal contenuto non ortodosso del libro a causa dei suoi continui attriti con i superiori. Sono invece gli stessi confratelli a lodare la maestria e la sapienza di un uomo ancora vivo e vegeto. Non è necessario dunque, come altri ha fatto, tacciare di falsità o di approssimazione le trascrizioni di Apostolo Zeno; pur rimanendo qualche dubbio sull’effettiva consistenza di una nota che nessun altro ha mai visto, è più opportuno sottolineare come le imprecisioni là contenute (ad esempio, Polia diventa Ippolita) gettino luce sui primi e insicuri passi di un’attribuzione nata e cresciuta nell’ambiente dei frati predicatori di Venezia. Quel che manca, tuttavia, è il documento inoppugnabile. La traccia associata alle spese per il libro a stampa appare risibile, poiché il Colonna poteva trovarsi semplicemente debitore del denaro relativo all’acquisto di una singola copia di un qualsiasi testo edito da un tipografo. Per quanto riguarda Matteo Visconti, abbiamo già dato una diversa interpretazione della sua poesia; Scapecchi osserva acutamente che l’annessa prosa del medesimo Visconti recita: ‘‘Non ritengo si debba chiedere chi ha composto quest’opera rarissima, anzi unica, poiché l’autore... non cura d’essere riconosciuto...’’

Proseguendo, rileviamo che gli epigrammi citati dal Colocci sottintendono un Colonna romano, o che almeno risiedeva a Roma. Quanto a Zovenzoni, i cui versi sembrano appartenere ai primi anni settanta del quattrocento, egli si riferisce ad un Francesco definito antiquario, ma non accenna minimamente ad un religioso, né ad un veneziano, né ad uno scrittore. In tali condizioni è improbo considerare tali frammenti più di curiosità, anche perché numerosi erano i Francesco Colonna documentati in quegli anni in Italia (quasi una decina solo a Venezia), e la passione per l’antico non era certo una caratteristica marginale o rara negli ambienti culturali più avvertiti.

Per quanto concerne Leandro Alberti, si possono evidenziare due elementi: la breve frase che ci interessa (Franciscus Columna Venetus... in quodam libro materno sermone edito litteraturam et varium ac multiplex ingenium suum praesefert) viene pronunciata da Filippo Fasanini, professore bolognese, traduttore di Orapollo, amico di Leandro e di Gian Battista Pio; l’accenno è sufficientemente vago per non compromettere alcuno ma abbastanza preciso per supportare una diceria. Sembra difficile che proprio il Fasanini, interessato ai geroglifici, conoscesse tanto poco l’Hypnerotomachia da limitarsi ai termini quodam libro, un certo libro. D’altronde, l’intenzione encomiastica nei confronti del Colonna appare chiara, e viene situata in un lungo elenco di dotti personaggi che illustrano l’ordine domenicano. Così, l’insieme dello scritto offre un’immagine sfuocata, che può derivare o dal fraintendimento della figura in questione o dal desiderio di dire senza dire, spargendo indizi ambigui, come quel materno sermone che certamente non si addice all’elaboratissimo linguaggio polifiliano. Ricordiamo a tal proposito che il fantasioso romanzo era già di moda nel primo cinquecento, se Baldassare Castiglione nel Cortegiano, pubblicato nel 1528 ma ambientato nel 1507, mette in scena un Giuliano dei Medici che biasima la retorica ampollosa di chi utilizza le concettose ‘‘parole di Polifilo’’ per sedurre un’amata.

Per concludere, il Colonna domenicano risulta di altra dimensione rispetto all’Hypnerotomachia. C’è sproporzione fra un povero frate e le ingenti quantità di denaro necessarie per finanziare la grande impresa editoriale. C’è sproporzione fra il sapere immenso dimostrato nelle pagine del testo e la mancanza di qualsiasi altra opera che rechi la firma di Francesco. C’è sproporzione fra l’anonimato necessario per salvarsi dal ‘‘furore rabbioso’’ e la trasparenza delle lettere ornate dell’acrostico. C’è sproporzione fra il timore per una futura punizione da parte dei superiori e la benevolenza con la quale il libro venne in definitiva accolto in ambito domenicano. C’è infine sproporzione tra un autore assolutamente umanista e la totale assenza di tracce che raccontino rapporti del Colonna con lo Scita, il Crasso, Manuzio o Torresani. Rammentiamo inoltre la scena del sacrificio a Priapo, che appare una rielaborazione davvero troppo libera del tema del Sangue di Cristo per poter essere uscita dalla mente di un religioso, così come la continua rappresentazione della potenza di Venere non sembra appartenere al mondo di un novizio o di un predicatore. Rimangono poi oscuri i motivi che avrebbero portato un sessantenne - priore a Venezia - a pubblicare il sogno di se stesso, gentile trentenne infatuato. Quanto al racconto di Bandello, esso mostra un frate Francesco dedito a frequenti rapporti carnali con una prostituta sedicenne che egli sfigura orribilmente con un rasoio dopo averne sgozzato l’amante; tutto ciò negli anni dieci del cinquecento, quando il nostro presunto scrittore era già ultrasettantenne. Va sottolineato semmai come Bandello, domenicano, letterato e collezionista di storie curiose, non faccia menzione alcuna del Polifilo; il medesimo novelliere, divenuto anche vescovo di Agen, è piuttosto l’esempio lampante di quanto poco incidessero le opere a sfondo erotico sulla carriera di un ecclesiastico.

Per sanare tale divario vertiginoso, e conservare il nome di Francesco Colonna quasi alla stregua di un feticcio, Maurizio Calvesi ha esplorato un sentiero diverso, altrettanto complesso.

Francesco Colonna, principe romano

L’altro Francesco Colonna nacque da Stefano (1433 - ?), a sua volta figlio di un altro Stefano e nipote di Niccolò. Tutti appartengono al ramo detto di Palestrina della illustre e potente famiglia romana, che annovera nel ramo di Palliano numerosi personaggi di grande importanza storica, fra cui ricordiamo Oddone, papa sotto il nome di Martino V fra il 1417 e il 1431, il cardinale Prospero e il cardinale Pompeo. La gloriosa stirpe risale all’alto medioevo: fra gli altri suoi componenti occorre almeno citare i fratelli Giovanni e Giacomo, protettori del Petrarca, oltre al protagonista del celebre episodio dello schiaffo di Anagni (1303), Sciarra Colonna. Proprio a partire dal nonno di Giovanni, verso la fine del tredicesimo secolo, le due linee si erano divise. Il feudo di Palestrina, l’antica Preneste, contraddistinse Francesco e i suoi antenati; il Litta ci racconta, in un breve articolo delle Famiglie Celebri, che il nostro presunto scrittore nel 1493 riedificò in Palestrina l’antico palazzo baronale. Egli venne in seguito colpito dalla bolla emanata nel 1501 da Alessandro VI Borgia contro i Colonnesi; piegandosi pacificamente alla volontà del papa, accettò di perdere i diritti sulla cittadina laziale. Giulio II, salito al soglio di Pietro nel 1503, tutto gli restituì. Morì nel 1538 (secondo il Litta) dopo aver sposato Orsina o Lucrezia Orsini, da cui ebbe i figli maschi Alessandro e Stefano; quest’ultimo, buon condottiero, si distinse nella difesa di Clemente VII all’epoca del Sacco di Roma. Ignoriamo la data di nascita di Francesco, situabile intorno al 1460.

Da questi scarni dati parte Calvesi per edificare un castello di congetture, la cui mole inusitata è al tempo stesso affascinante e sconcertante. Secondo lo studioso non vi sono dubbi: l’autore dell’Hypnerotomachia è Francesco principe di Palestrina. Elenchiamo i suoi principali argomenti. a) L’acrostico resta una testimonianza fondamentale. b) L’epigramma dello Zovenzoni e i componimenti raccolti dal Colocci sarebbero rivolti ad un Colonna romano, di cui si loda il sapere antiquario. c) Il palazzo baronale restaurato da Francesco sorge sul tempio della Fortuna Primigenia, prototipo dell’enorme santuario descritto nelle prime pagine del romanzo. d) L’esigenza di anonimato sarebbe giustificata dal timore di una reazione violenta da parte del Borgia e dei suoi alleati. e) I continui riferimenti polifiliani a Venere dipenderebbero dalla leggenda che faceva discendere i Colonna dalla dea dell’amore tramite la gens Iulia. f) La passione per le epigrafi e per l’antichità discenderebbe dallo stretto legame con Preneste e i suoi scavi. g) La tradizione del Colonna domenicano è facilmente attaccabile. h) Le immagini dell’edizione aldina sono paragonabili agli affreschi di sapore egizio realizzati dal Pinturicchio nell’Appartamento Borgia (1492-1494). i) In generale, molte sono nel Polifilo le citazioni di monumenti o manufatti siti a Roma o nei suoi dintorni. l) Il principe conobbe sicuramente Leon Battista Alberti e Niccolò Perotti, inesauribili fonti di allusioni. m) Pare che esista un rapporto di parentela fra il Grassi e il Colonna: la cognata di Leonardo Grassi sarebbe figlia di Caterina, sorella di Francesco.

Articoli, libri, interventi sono stati perfezionati da Calvesi e dai suoi seguaci, scatenando un’autentica battaglia con i sostenitori della tesi avversa. Ma nessuno degli elementi proposti è davvero convincente; ciascuno, anzi, nasconde al suo interno un germe di debolezza o di capziosità. Posto che gli epigrammi parlino del Francesco di Palestrina, infatti, questo non prova che egli abbia scritto l’Hypnerotomachia, poiché chi vive in mezzo alle rovine si può facilmente definire antiquario. Anche del secondo Francesco si ignora qualsiasi opera letteraria, e qualunque legame con Aldo. Egli in effetti era troppo giovane per conoscere proficuamente l’Alberti. Non vi sono da parte sua reali ragioni per mantenere l’anonimato, tanto più dopo il 1503, e la presunta dipendenza dal ciclo del Pinturicchio è in contraddizione con l’odio nei confronti del Borgia, al quale comunque poco o nulla importava di un romanzo in più o in meno. Non si capisce peraltro perché i discendenti di Francesco avrebbero continuato a nascondere la vera identità dell’autore di un testo divenuto leggendario. Occorre poi rammentare che il neo-platonismo fiorentino fa continuo riferimento a Venere e alla problematica dell’Amore. L’estensore del Polifilo usa un linguaggio con inflessioni settentrionali, come fra poco vedremo. Calvesi infine cade in un marchiano errore quando non capisce che il desiderio nostalgico di recuperare le antichità caratterizza nel secondo quattrocento il nord Italia almeno quanto Roma, da un millennio immersa nel suo passato. D’altronde, il medesimo studioso punteggia gli scritti sul Colonna di affermazioni stupefacenti o pretestuose, quali ... il nome stesso di Eleutirillide richiama Eleonora... oppure ... Aldo Manuzio... che proveniva da Velletri ed era da pochi anni a Venezia... È una continua forzatura del labile personaggio che si intende evocare: non viene scartato nemmeno il più bizzarro fra i sospetti, ovvero che egli abbia concluso i propri giorni in Veneto, in una sorta di fusione con l’omonimo frate.

Contro ciascun punto della tesi ‘romana’ si sono accaniti in abbondanza gli assertori della paternità domenicana, causando di solito nuove risposte e nuovi attacchi, tali da determinare finalmente la completa divaricazione dei due cammini. Quel che interessa ora sottolineare è la totale assenza, su entrambi i versanti, di una seria indagine sull’itinerario artistico dell’autore; nonostante l’indubbia competenza dei combattenti e la grande quantità di sforzi profusi, aleggia dunque il sospetto che la trappola polifiana abbia colpito ancora, spingendo a cercare il fantasma che abita il labirinto e non l’architetto che il labirinto ha progettato.

L’acrostico, partenza e arrivo

Se si vuol parlare francamente, occorre ammettere che l’acrostico è l’unica voce davvero incontestabile a favore di Francesco Colonna. Senza l’acrostico (POLIAM FRATER FRANCISCUS COLUMNA PERAMAVIT) nessuno avrebbe pensato né al frate né al principe. A tal proposito, una ricerca non prevenuta noterà dapprima alcuni particolari finora trascurati. Innanzitutto, se si vuol considerare per intero la serie di lettere ornate che formano le iniziali delle prime parole dei capitoli, sarebbe necessario premettere una M. Da qui parte infatti la dedica del testo a Polia: Molte fiate Polia cogitando... Se pur vogliamo tralasciare questo dettaglio, è inevitabile esaminare meglio alcuni termini usati nella composita frase. Come altri ha già evidenziato, il frater può non riferirsi affatto al confratello di un Ordine. Il misterioso scrittore è un finissimo umanista, che ben sa come nel latino classico frater equivalga a fratello, cugino, associato, amico (l’ultima accezione ad esempio in Giovenale, Orazio, Quintiliano); solo in ambito cristiano, è ovvio, registriamo un’estensione agli appartenenti alle comunità religiose, oltre alla nota formula dei fratelli in Cristo che designa tutti i fedeli.

Ancor più complessa è la genesi del verbo peramare, utilizzato da Cicerone in forma di participio o di avverbio e, in modo pieno, da Stazio nel quarto libro delle Selve: hic mea carmina regina bellorum virago Caesareo peramavit auro. Difficile è la traduzione: ‘‘qui la vergine regina delle guerre (Pallade) amò i miei carmi (tanto da cingerli) con l’oro di Cesare’’. Come in altri casi, il per rende più intensa l’azione, collegandosi ad un ablativo che esprime la cosa con la quale l’azione si effettua (amor crudeli tabe peredit, Virgilio, sol perfundens omnia luce, Lucrezio). Non possiamo credere che l’autore non conoscesse Stazio e che non abbia impiegato la rara costruzione con un preciso intento.

In questa prospettiva, esistono almeno tre interpretazioni dell’acrostico divergenti rispetto alla norma. La prima, proposta da alcuni (Donati), suppone che Francesco sia semplicemente il protagonista a noi sconosciuto della trama amorosa; così, Polifilo sarebbe Francesco, forse Colonna, ma Francesco non avrebbe ideato il Polifilo.

La seconda prevede che COLUMNA non sia un cognome, ma l’ablativo della parola ‘colonna’. Allora, la traduzione corretta suonerebbe: ‘‘L’amico Francesco ha cinto d’amore appassionato Polia con questa colonna.’’ La colonna in questione sarebbe proprio la colonna costruita mediante l’allineamento in verticale delle maiuscole ornate, come avviene per una qualsiasi poesia ad acrostico. E il famoso Francesco si rivelerebbe Francesco Griffo da Bologna, che scolpì le magnifiche lettere e che evidentemente in loro esprime al massimo grado la maestria artigianale di cui si avvale la composizione tipografica dell’Hypnerotomachia. Insomma, avremmo di fronte a noi non la firma dell’autore ma di colui che rese possibile la stampa del testo. Anche il sonetto italiano premesso all’edizione francese del 1546 ci conforta; qui si dice infatti: ‘‘Ecco l’alta Colonna che sostenne / Quel bel typo della memoria antica...’’, ed è certo che il carattere tondo bembino venne sviluppato dal Griffo a partire dalle lapidi romane. D’altronde, nel Virgilio del 1501 Aldo deve lodare Francesco dalle dedalee mani perché è assolutamente consapevole che senza il suo apporto tutta l’ impresa sarebbe naufragata sul nascere. Naturalmente, se accettiamo questa spiegazione dobbiamo anche ammettere che l’acrostico sia stato inventato durante il processo di stampa, separando in modo opportuno i capitoli; nulla di particolarmente impegnativo, se l’edizione parigina, pur essendo in francese, riesce facilmente a riprodurre la frase originale.

La terza interpretazione vede in COLUMNA un’apposizione di FRANCISCUS che darebbe alla frase il senso seguente: ‘‘L’amico Francesco amò Polia (saldamente) come una colonna.’’ Questa ipotesi può essere conciliata con la precedente, ovvero rimandare all’effettivo autore, un Francesco senza cognome. In tal caso, tuttavia, parrebbe più opportuno accettare FRANCISCUS come uno pseudonimo, forse dovuto ai molteplici riferimenti petrarcheschi contenuti nell’opera, oppure relativo a qualche motivo personale alla cui imperscrutabilità dobbiamo rassegnarci. Resta incredibile invece che lo scrittore abbia posto tanta cura nel celarsi, per compromettersi poi con un gioco grafico evidentissimo e assai frequente all’epoca, che infatti venne scoperto agevolmente dalla maggior parte dei primi lettori.

Stravaganze di un linguaggio

Non è questo il luogo per tratteggiare il decorso quattrocentesco della lingua italiana. Tuttavia, la seconda grande anomalia del Polifilo è il linguaggio usato, che sarà imitato da altri (ad esempio Camillo Scroffa, nei Cantici di Fidenzio), ma che non verrà mai raggiunto nella sua ineguagliabile complessità. Per limitarci ai dati strettamente indispensabili, ricordiamo che nel Rinascimento il processo di formazione di una lingua letteraria non è affatto lineare. Alle controversie degli umanisti sulla qualità del latino, prossimo allo stile di Cicerone o di Apuleio, austero o fiorito, fa da contrappunto il faticoso imporsi del toscano, secondo la linea di Alighieri, dell’Alberti e di Lorenzo il Magnifico. La cultura italiana è, come sempre, attraversata da tendenze ribelli; in particolare, le regioni del nord-est subiscono l’impatto di influenze divergenti. Nel Veneto è fortissima la presenza del francese e del provenzale, fin dagli albori della Marca Gioiosa; il dialetto è assolutamente vivo, ed è una naturale sorgente di ispirazione per gli scrittori; nelle corti padane non si parla certo il fiorentino, benché non si abbia modo di elaborare un volgare settentrionale ‘alto’; infine, le università di Bologna e di Padova raccolgono ogni spunto, partorendo i frutti strani di un totalizzante sapere analitico e di una giovanile predisposizione al nuovo.

In tale situazione, l’esplosione del maccheronico è il preciso indizio di una sintesi ardita fra sapienza dottorale e rivolta antiaccademica. La Val Padana vira verso il bizzarro sul piano dei contenuti, sfruttando la tradizione della Chanson de Geste per imporre un’epica fantasiosa e rivoluzionaria. In modo analogo, la pratica linguistica incontra il curioso fenomeno della mescidazione, in cui si uniscono la voce del popolo, il latino dei professori e il volgare toscano. La soluzione polifiliana è sostanzialmente speculare al maccheronico: infatti, se Folengo e i suoi precursori costruiscono la frase mediante una sintassi latina in cui si innestano neologismi e vocaboli dialettali latinizzati, l’autore dell’Hypnerotomachia allestisce al contrario, nel quadro di una sintassi italica, una virtuosistica girandola di citazioni latine comunque italianizzate.

È un tentativo arduo, che sconta il pericolo dell’illeggibilità e preferisce privarsi di ogni riferimento esplicito alla parola grossa, rinunciando agli effetti comici per fabbricare frasi elusive e polimorfe. Infatti, la citazione viene continuamente e malignamente pervertita, fermandosi per così dire a mezz’aria, lontano dall’olimpo dei classici, lontano dal terreno comune. Il prestigio dei termini originali viene velato dal loro uso caotico, giustapponendo concetti all’interno di un elenco sterminato che cancella ogni suggestione grazie all’arrivo subitaneo del nome successivo. Un raffinato procedimento di storpiature e iperboli priva il discorso della propria sostanza, significando chiaramente che la sostanza di ogni discorso è illusoria, perché vale soltanto l’affabulazione infinita. È un gioco di superfici riflettenti, disposte però in maniera obliqua, bagliori frammentari che non illuminano la scena.

Tutte le cose sono un sogno, insomma; ma questa conclusione non ci porta ancora nell’universo di Shakespeare, di Cervantes o di Calderòn de la Barca, perché il nostro romanziere inserisce fra i sensi assopiti altri sensi risvegliati, smentendo la trama e completando un quadro di lucida incoerenza. Più Gadda che Joyce, forse: nulla si intende dimostrare, infatti, se non che la vita umana in quanto capacità di comprendere (Polia) è già perduta nel momento in cui parla; così, il percorso di Polifilo ricorda un poco l’indagine del commissario Ingravallo. Purtroppo, né il dialetto né l’esame di un delitto sono consentiti allo sfortunato amante, che costruisce il suo doppio delirio sulla base di una smisurata dichiarazione, una Cognizione dell’Amore.

L’analisi approfondita di Marco Mancini ha dimostrato che il testo va collocato ‘‘in ambito settentrionale, più precisamente nella tradizione della coinè padana nobilitata (non nella tradizione dialettale veneta)’’; questo basti a smentire ogni ipotesi estranea al mondo padano. Tuttavia, altri hanno osservato come siano praticamente assenti le inflessioni veneziane. Occorre dunque spostare nell’entroterra l’area di nascita dell’opera, approdando al quadrilatero composto da Padova o Treviso, Mantova, Parma e Ferrara. La letteratura italiana trova in questa zona numerosi inventori geniali o stravaganti. Citiamo alla rinfusa: Ariosto e Boiardo, Tifi Odasi e Folengo, Caviceo, Lelio Cosmico, Niccolò da Correggio e quel Pietro Andrea de Bassi ferrarese che appare come un vago antesignano del Polifilo.

Una nuova ipotesi

Possiamo dunque riassumere la situazione. Se l’autore dell’Hypnerotomachia è effettivamente un Francesco Colonna, sarà difficile cogliere le sue reali motivazioni e le sue intenzioni letterarie. Il muro che divide il lettore dall’uomo capace di immaginare un libro tanto bizzarro rimarrà alto e invalicabile. Inoltre, sarà impossibile attribuire la reale paternità del romanzo ad un Colonna piuttosto che a un altro, fra i molti che vivevano in Italia alla fine del quindicesimo secolo. Le ricerche svolte per appurare nuovi particolari in merito alla vita degli omonimi candidati sono risultate vane; al massimo, hanno radunato una serie di dettagli secondari, che spiegano poco o nulla, e che soprattutto non danno ragione del miracolo polifiliano.

Preferiamo dunque battere una seconda strada, sostenendo la tesi che l’anonimato nasconda una firma prestigiosa. Nei capitoli precedenti abbiamo raccolto le tracce di un profilo, che ora elenchiamo. a) A nostro parere, nel 1499 l’autore doveva già essere scomparso: ci sembra che la prefazione non lasci adito a dubbi. b) Si tratta di un umanista caratterizzato da un’immane cultura, enciclopedica e rivoluzionaria al tempo stesso. c) Suoi rapporti con Aldo Manuzio sono molto probabili: nonostante lo status anomalo, l’Hypnerotomachia fa parte di una produzione ricca e mirata. d) Esistevano circostanze che hanno sconsigliato una pubblicazione in vita, e hanno impedito agli intermediari di rivelare una verità scomoda. e) Il personaggio in questione padroneggiava sia l’aristotelismo che il neo-platonismo. f) Inevitabilmente, il Veneto doveva far parte della sua esperienza esistenziale. g) Egli era padano di nascita, come dimostra la lingua usata. h) Era assai interessato ai più diversi idiomi, conosceva il latino, il greco, l’aramaico e l’arabo. i) Era suo costume usare la citazione come metodo di pensiero. l) Possedeva una formazione e una natura filosofica: anche le pagine più appassionate del Polifilo non si allontanano mai da uno schema mentale che tende alla spiegazione degli eventi. m) Era ben introdotto negli ambienti intellettuali dell’epoca; solo così si spiega la diffusione abbastanza rapida di un’opera tanto ostica, in particolare in Francia. n) Era un amante focoso; non ci stupiremmo se avesse composto poesie d’amore. o) Era affascinato dall’antico; ma utilizzava le antichità come un repertorio infinito di conoscenza. p) Era attratto dalle materie più svariate, dalla geometria alla botanica, dall’architettura alla gemmologia.

Un solo letterato soddisfa questi requisiti: Giovanni Pico della Mirandola. Leggendaria è la sua memoria, indomito il temperamento, profonda la dottrina, vasto il sapere, pronunciata la tendenza a conciliare tradizioni divergenti. Egli studiò per due anni a Padova, crebbe accanto al Boiardo e al Mantegna nel raffinato universo delle corti padane, trascorse periodi non brevi a Parigi, approdò infine a Firenze, dove divenne il compagno prediletto di Landino, Ficino, Lorenzo dei Medici, Poliziano. A Mantova e nella città toscana frequentò persone che serbavano un ammirato e fortissimo ricordo di Leon Battista Alberti. Scrisse ardenti elegie latine e sonetti petrarcheschi.

Per confermare la nostra intuizione mediante prove convincenti, inizieremo ad esaminare nei dettagli gli elementi a cui abbiamo soltanto accennato. Ed è giusto affrontare immediatamente il nodo centrale del problema: l’oceano di libri da cui questo libro nasce, novella Venere botticelliana, la biblioteca che riposa alle spalle di un giovane sognatore piegato verso il leggio.

Storia di una biblioteca

Giovanni Pico scomparve tragicamente a trentun anni, il 17 novembre del 1494, dopo una rapida e misteriosa malattia. Nello stesso giorno, il re di Francia Carlo VIII, che lo conosceva e lo stimava tanto da inviare inutilmente due medici in suo aiuto, entrava in armi a Firenze, provocando il crollo del potere mediceo. Sembra che nel convento di San Marco vegliassero accanto al suo capezzale il nipote Alberto Pio di Carpi e Girolamo Savonarola, i cui rapporti con la fenice degli ingegni si erano forse guastati negli ultimi tempi. Pico rifiutò tenacemente di indossare il saio, anche se i religiosi domenicani vollero rivestire di quell’abito il corpo ormai spento. La leggenda riporta le sue ultime parole: ‘‘La morte non sarà per sempre.’’

Due anni prima della brusca conclusione della sua vita, il filosofo aveva redatto un testamento in cui affidava post mortem la propria enorme biblioteca al fratello Antonio Maria. Costui era autorizzato a venderla a qualsiasi istituto religioso che gli avesse corrisposto più di cinquecento ducati; la cifra doveva raddoppiare nel caso di un acquirente laico. In assenza di ogni offerta congrua, Antonio avrebbe deciso liberamente il destino dei libri. Questa scelta risulta strana per due motivi; innanzitutto, Giovan Francesco Pico (1469 - 1533), che si occuperà dell’edizione delle opere latine dello zio, non viene individuato come l’esecutore ideale dell’importante disposizione, pur essendo a sua volta uno studioso, a differenza di Antonio; secondariamente, nulla va ai Domenicani di San Marco, che secondo logica potevano apparire come i naturali beneficiari di una parte del lascito. Alla fine, il compratore dell’intero lotto fu Domenico Grimani (1461 - 1523), cardinale dal 1497, dotto veneziano e collezionista di antichità, che certamente aveva conosciuto e apprezzato Giovanni. Alla sua morte, la biblioteca ulteriormente ingrandita fu donata al Monastero di Sant’Antonio di Castello dei Canonici Regolari di Sant’Agostino in Venezia. Purtroppo, nel 1687 essa venne completamente distrutta dall’incendio scoppiato in un adiacente magazzino di fuochi artificiali, ricavato in alcuni locali del monastero. Nulla così rimane dell’imponente raccolta, tranne qualche testo disperso in varie città europee. Ma l’inventario del 1498, data della transazione, ci consente di apprezzare la consistenza e la qualità di una rassegna di 1190 volumi. Nel 1936, una lista formata da 1132 voci venne pubblicata da Pearl Kibre, che riprodusse un manoscritto cinquecentesco della Collezione Orsini, paragonandolo con il catalogo del ’98. Da qui parte la nostra ricerca.

Come potevamo attenderci da un instancabile divoratore di pagine quale fu Pico della Mirandola, non mancano le maggiori opere latine, i fondamenti dottrinali della Chiesa, il Corano, il Talmud, testi di astrologia e medicina, manuali di prospettiva, matematica e magia, erbari, vocabolari enciclopedici, trattati greci, l’Odissea, l’Iliade, la Teogonia di Esiodo, Luciano, Euclide, testi cabalistici, Boccaccio, Dante e Petrarca, il De architectura di Vitruvio, oltre ad una miriade di autori marginali, minori, infimi. Ma quel che più ci interessa è un dato inoppugnabile. Giovanni Pozzi, nella sua meritoria analisi delle fonti da cui l’Hypnerotomachia attinge, isola circa 150 autori che vengono citati nel romanzo. Ebbene, un semplice raffronto con il catalogo della famosa biblioteca mostra una coincidenza in almeno 120 casi. Si tratta spesso di figure assolutamente secondarie nella storia della letteratura e del pensiero: Ateneo Naucratita, Bartolomeo Anglico, Ausonio, Dione Cassio, Dioscoride Pediano, Eustazio, Polluce, Ruffino, Serapione, Sidonio Apollinare, Silio, Simone da Genova, Volsco, Vegezio, Uguccione da Pisa, e molti altri. Quanto ai 25 personaggi non riportati nella lista di Kibre, per metà essi vengono ripresi una sola volta nel Polifilo. Solo 12 sono contraddistinti da più di una citazione, e fra loro troviamo soltanto tre nomi che si ripetono frequentemente. Sono Leon Battista Alberti, di cui Pico non poteva non conoscere le opere, stante la devozione che Poliziano e Landino nutrivano per l’architetto. C’è poi il caso di Felice Feliciano, la cui vicinanza con Mantegna è nota. C’è infine l’erbario di Niccolò Roccabonella, un codice del 1450 a cui Pozzi spesso si riferisce, ma che in realtà è un testo di confronto rispetto ai numerosi libri di botanica dell’epoca, di cui anche Giovanni era in possesso. Erano ovviamente presenti nella biblioteca gli scrittori attraverso cui il sogno maggiormente si sostanzia (Niccolò Perotti, Apuleio e Plinio, la cui opera Giovanni fece trascrivere in un magnifico codice miniato del 1481, ora conservato nella Nazionale Marciana). Numerosi infine i titoli suggestivi per quanto riguarda l’allucinata visione polifiliana, come il trattato sui sogni di Sinesio di Cirene (De somniis) o il Liber de mysteriis attribuito a Giamblico.

La corrispondenza dell’ottanta per cento è ancora più significativa se pensiamo che il Pozzi puo avere talvolta errato nelle sue attribuzioni e che alcune codificazioni elencate sono sommarie. D’altra parte, Pico consultò durante la propria esistenza un numero molto maggiore di volumi rispetto a quelli da lui effettivamente acquisiti. Una discrepanza del venti per cento è dunque totalmente accettabile. D’altronde, è impensabile che il nostro misterioso autore fosse privo di una ricca biblioteca da cui trarre gli spunti necessari.

Il grande sperimentatore

La personalità di Giovanni Pico si impone nel panorama italiano di fine quattrocento per la vastità degli interessi e la profondità dell’intuizione. Animato da una perenne inquietudine intellettuale, il mirandolano avrebbe probabilmente offerto importanti contributi alla nascente ricerca scientifica, se la sorte non avesse interrotto drammaticamente la sua avventura. Esiste inoltre in lui un versante inespresso, che l’avrebbe forse condotto a redigere quella Teologia Poetica a cui spesso accennava. Nessuno dei suoi libri è perfetto o compiuto, tutti ubbidiscono ad un prepotente impulso del pensiero, alla ricerca inesausta di nuove direzioni d’espressione. Gli alti misteri sacri furono certamente la sua meta maggiore, ma gli stessi misteri cambiavano continuamente le proprie sembianze, talvolta amorosi, talvolta dottrinali, talvolta mistici, talvolta linguistici.

Il linguaggio è infatti lo strumento che Giovanni usa, studiando ogni cultura capace di aprire alla mente uno spiraglio inedito verso la divinità, ascoltando le formule enigmatiche tratte dalla sapienza orientale. Così, il frutto più emblematico della sua indagine sono le Conclusiones, pubblicate a Roma il 6 dicembre 1486 e destinate per loro stessa natura a provocare scandalo. Contrariamente alle 95 tesi che Lutero affisse sulla porta della chiesa di Wittenberg nel 1517, le 900 affermazioni raccolte dal giovane filosofo intendevano manifestare la problematicità del sentimento religioso universale, indurre al confronto e alla discussione, scoprire quale luce nel corso dei millenni era baluginata nei cuori degli uomini in cammino verso Dio. Ovviamente, la gerarchia ecclesiastica non poteva permettere simile libertà e spregiudicatezza; condannando di fatto l’intera operazione, inflisse a Giovanni un duro colpo, una ferita che, pur restando celata nel suo animo, doveva portarlo ad appoggiare almeno in parte i progetti di riforma savonaroliana.

Ma il suo interesse nei confronti della Cabala, di Orfeo, dei pitagorici, di Zoroastro e dei maomettani non si attenuò. Era tuttavia il tempo di difendersi attaccando, con l’Apologia e l’Oratio de hominis dignitate, in cui si rivendica la grandezza del multiforme essere umano, sola creatura al mondo in grado di scegliere la propria via. Sempre del 1486 è il testo più vicino all’ambiente neo-platonico fiorentino, quel Commento alla Canzone d’amore di Girolamo Benivieni che fa di Venere il personaggio principale nella dialettica intellettuale delle idee, alla ricerca di una verità superiore. Poi vennero i libri legati alla tradizione biblica, l’Heptaplus (1489), interpretazione dottissima delle sette giornate della Genesi, i Commenti ai Salmi (1488 - 1489) e l’abbozzo di una vasta opera dedicata a combattere i nemici della Chiesa, di cui sopravvivono soltanto le Disputationes adversus astrologiam (1493 - 1494) che tante reazioni scatenarono. Questi i testi fondamentali, a cui si devono aggiungere il De ente et uno (1492), sulla concordia fra Platone e Aristotele, alcuni scritti di ispirazione ascetica, come le Regole per una buona vita, e le Epistole. Fra loro, testimonianze importanti di un fitto reticolo di relazioni culturali, si distingue la lettera su Dante e Petrarca rivolta a Lorenzo il Magnifico (1484), e quella inviata ad Ermolao Barbaro (1485), in relazione alla scrittura spesso farraginosa dei filosofi stranieri.

L’ispirazione letteraria

Proprio dalla lettera a Lorenzo iniziamo il nostro cammino nell’universo letterario di Giovanni, che nella missiva si presenta nelle vesti di un giovane rispettoso, appena giunto nella grande città toscana e determinato a lodare le virtù poetiche dell’illuminato signore del luogo. Il suo elegante periodare latino paragona l’opera del Medici ai versi di Dante e Petrarca, entrambi superati dal nuovo poeta, l’uno per stile, l’altro per contenuto. Pur nell’evidente intento adulatorio, scopriamo alcune affermazioni importanti: ‘‘... non ci lasciamo ingannare dalla ricercatezza dei suoni e dalla melodia dei versi, ma guardiamo quel che sta sotto, la base, le radici, il fondamento delle parole...’’ E, a proposito del dolcissimo stile della tua parafrasi (il Commento che Lorenzo fece dei suoi medesimi sonetti), leggiamo: ‘‘... l’espressione infatti non è artificiosa, non involuta, non contorta, ma dritta, pura, quadrata... dalle forme elette ma non ricercate, illustri ma non leziose, necessarie e non artificiose...’’

Per meglio apprezzare questi concetti, che sembrano contraddire la costruzione linguistica dell’Hypnerotomachia, occorre ricordare come il mirandolano fosse in quel periodo più che mai alla ricerca di nuovi modi d’espressione. Dopo l’esperienza padovana, in cui ebbe sicuramente contatti con il plurilinguismo veneto (lo ritroviamo addirittura personaggio di una maccheronea minore, l’anonima Nobile Vigonce Opus), il confronto con il mondo fiorentino fu per lui un’inesauribile fonte di stimoli. Il Magnifico, oltre ad essere esperto uomo di stato e raffinato mecenate, si offre oggi ai nostri occhi come scrittore di primaria statura, vero fulcro della corrente quattrocentesca che si ispirava ai misteri greci, ad Orfeo, a Platone. Ma Pico intraprese sempre due vie al tempo stesso: pagano e cristiano, aristotelico e platonico, lineare e debordante, austero e sensuale. Nella lettera egli chiaramente si misura con l’intera tradizione toscana, cercando l’ingresso del nuovo cammino e identificando correttamente in Lorenzo un momento di svolta rispetto ai capolavori dei suoi conterranei. Si rivela così in lui una prepotente inclinazione alla scrittura fantastica, seppur temperata da una forte tendenza al ragionamento e all’auto-interpretazione.

D’altro canto, il Sogno di Polifilo è innanzitutto un’anomalia rivelatrice dell’evoluzione complessiva della letteratura italiana; per questo il suo fascino è sopravvissuto nel corso dei secoli, nonostante le difficoltà estreme che il lettore è costretto a fronteggiare. Ormai sappiamo che le figure dell’Alighieri e del Petrarca non assomigliano affatto a statue monolitiche, ma sono continuamente attraversate da suggestioni diverse: se il Fiore è opera dantesca, se nell’Africa il poeta del Canzoniere propone un variegato affastellarsi di visioni dottrinali e pittoriche, l’intera storia letteraria dell’Italia pre-rinascimentale appare come un vasto albero dalle ramificazioni sorprendenti. Fra Trecento e Quattrocento germina infatti un curioso impasto di trame francesizzanti e di citazioni classiche sostanzialmente deviate. Tale fenomeno non riguarda soltanto autori secondari. È la personalità straordinaria di Giovanni Boccaccio a costruire un ponte fra la scrittura allegorica cara all’ambiente cortese, la novellistica di gusto borghese e la ricomposizione delle genealogie pagane in chiave amorosa. Nel Polifilo tutto questo esiste e germoglia. Così, se l’inizio del romanzo ricorda in parte la celebre selva oscura, e i carri trionfali che sfilano dinanzi al protagonista riecheggiano i Trionfi di Francesco, il vero e illustre antecedente dello pseudo-Colonna si dimostra inequivocabilmente Boccaccio.

Recenti studi hanno chiarito l’importanza fondamentale delle opere minori del certaldese, i cui codici ebbero una triplice diffusione: nel sistema delle corti padane, sensibile ai rapporti con la Francia, nelle ricche famiglie del nuovo ceto che si stava imponendo in Italia centrale e meridionale, nel mondo dei chierici e delle università, grazie al viatico benedicente dell’amico Petrarca. Ora, il Pico fiorentino riassume al meglio questi tre aspetti. Sappiamo che nella sua biblioteca erano conservati la Genealogia deorum gentilium, il De montibus e il De casibus virorum illustrium, ovvero tre repertori mitologici, geografici e storici compiuti dall’inventore del Decameron allo scopo di offrire agli intellettuali dell’epoca un sostrato di informazioni attraverso cui sviluppare un nuovo universo fantastico. In Boccaccio mediatore di generi, Paolo Orvieto osserva acutamente che ‘‘Boccaccio, più o meno coscientemente, avrebbe utilizzato, per realizzare poeticamente un mistero iniziatico... più generi, fondendoli e confondendoli in un amalgama solo parzialmente composito...’’ È sorprendente notare come tali parole si applichino perfettamente sia all’autore dell’Hypnerotomachia, sia a Giovanni Pico. Il trio stravagante che così si viene a formare tenta di rispondere ad un’esigenza comune: usare la sapienza e la cultura per creare un orizzonte immaginario degno di questo nome. Infatti, l’interpretazione della realtà è tanto radicata nel nostro paese da non riuscire di solito a diventare avventura di largo respiro; allora, i due aspetti del lirismo estremo e del racconto minimo si dividono, senza combinarsi nelle vaste narrazioni o nelle rappresentazioni drammatiche in cui altre nazioni eccellono.

Ripetiamo un concetto già accennato in precedenza: l’Hypnerotomachia Poliphili è l’unico consistente abbozzo di romanzo rinascimentale di cui disponiamo. Pico, a sua volta, cercò nella prima parte della vita di riportare in luce gli antichi dei, nelle vesti di idee, pensieri e passioni. In tal modo avrebbe ricostruito quel panorama di scelte molteplici che ogni personaggio di romanzo deve attraversare e che fatalmente il credo cattolico tende ad appiattire. Quindi, lo scacco di cui egli rimase vittima riguarda sia il versante dell’approfondimento filosofico che il libero manifestarsi della fantasia, e trova puntuale corrispondenza nel rapido languire del genere pastorale e arcadico. Alla fine del quindicesimo secolo l’italiano prende altre strade, arretrando nella sublime grazia dell’Orlando Furioso; non si compirà nelle nostre terre il miracolo che altrove, mediante Rabelais, avrebbe donato robusta linfa al desiderio di parlare della realtà attraversando il mito e contribuendo alla nascita di miti moderni. Le ninfe e le divinità vengono di nuovo scacciate, e nello spazio favolistico da loro lasciato libero non si insinua alcuna presenza determinante, così che da Ariosto presto scivoleremo verso Tasso e la sua controriformistica malinconia.

Il viaggio del pellegrino amoroso era un’alternativa credibile? Forse no, se l’Amorosa Visione si perde nelle troppe allucinazioni che infiammano il cammino del protagonista. Eppure, proprio da qui può iniziare la nostra ricognizione dei temi che il Polifilo deriva da Boccaccio. Nella Visione, quindi, oltre all’acrostico ricordiamo la processione dei Trionfi, la commistione fra arte figurativa e intreccio letterario, la generale atmosfera di sogno allegorico che lo scrittore toscano aveva senza dubbio tratto dal Roman de la Rose e da altri testi minori della Francia a lui tanto prossima. Ma già nella Caccia di Diana del 1334 veniva introdotto il motivo fondamentale del conflitto tra Venere e Diana, tra Amore e Castità. Nel Filocolo, poi, oltre all’appellativo derivante da una combinazione di termini greci (ma si tenga presente come fonte originaria dei numerosi titoli similari anche il poemetto franco-latino Panfilo, volgarizzato in Italia; Panfilo si chiama inoltre uno dei narratori del Decameron), troviamo il motivo del picciolo libretto, il munuscolo polifiliano, e la nascita dell’eroina Biancifiore da un Quinto Lelio Africano. Vistosissimi gli apporti della Commedia delle Ninfe Fiorentine, ovvero l’Ameto: la stessa Lia, la ninfa di cui Ameto si innamora quando l’incontra al bagno insieme ad altre compagne, è assai prossima nel nome e nell’atteggiamento a Polia. Così, in entrambe le opere è simile lo sprigionarsi di una sensualità inattesa e il vezzo di chiamare le belle giovinette in modo spesso astruso, combinando vocaboli greci; caratteristica risulta nel poemetto boccaccesco la figura di Pomena (equivalente a Pomona) e la rassegna del suo orto di delizie, vero e proprio erbario tra il paradisiaco e il naturalistico. Nell’Elegia di Madonna Fiammetta l’idea stessa del monologo femminile richiama la seconda parte dell’Hypnerotomachia, in cui d’altronde si riconoscono facilmente spunti dalla celebre novella di Nastagio degli Onesti contenuta nel Decameron. Quanto al Ninfale Fiesolano, oltre alla consueta presenza delle ninfe, di Venere e di Diana spicca la partecipe descrizione del paesaggio, ricco di fiumi; due ruscelli riceveranno il loro nome da Africo, suicida per amore, e da Mensola, che si tramuta in acqua.

D’altra parte, esiste una sostanziale continuità tra il Boccaccio minore e il Poliziano delle Stanze, come giustamente sottolinea a più riprese Paolo Orvieto, evidenziando i legami che uniscono le peripezie di questo amante ancora medioevale ai più compiuti scritti di Ficino, Benivieni, Pico: ‘‘Le Stanze si inseriscono a pieno diritto nel macrogenere boccaccesco, quasi portando alle estreme conseguenze e concludendo splendidamente un ciclo iniziato dal Roman de la Rose...’’ Né mancano riferimenti puntuali, come l’immagine della cerva, presente nel Ninfale (in questi poggi vidi una cerbietta), ripresa da Angelo (l’imagin d’una cervia altera e bella) e ricordata in un sonetto del mirandolano (una Cerva che avea d’argento i vanni).

Che nel catalogo della biblioteca pichiana non siano comprese le opere in volgare di Boccaccio non significa molto, vista la loro ampia circolazione nel milieu nobiliare del settentrione in cui Giovanni era cresciuto. Basterà citare lo stupendo codice del Filocolo eseguito e miniato a Mantova per conto di Ludovico Gonzaga (Oxford, Bodleian Library, Canoniciano it. 85).

Così, siamo certi di poter tracciare un parallelo credibile tra Giovanni Pico, intellettuale, umanista, vagabondo e Giovanni Boccaccio, intellettuale, umanista, vagabondo. In tale prospettiva, l’Hypnerotomachia si rivela come lo sforzo sovrumano di superare il dettato del maestro, convogliando una mole immensa di dati e aggiornandoli secondo le nuove acquisizioni concettuali del secondo Quattrocento, pur conservando lo schema essenziale di un’Amorosa Visione, congiunto all’intrico polisemico della Genealogia. Quanto alla complessità della scrittura, Boccaccio affermava proprio nella Genealogia che è compito ineludibile dell’autore conservare una forte obscuritas, per non dare in pasto al volgo la veneranda maestà di Dio.

I sacri velami

‘‘Noi non abbiamo scritto per il volgo... Non diversamente gli antichi allontanavano con gli enigmi e con le favole i profani dai loro misteri; così appunto anche noi siamo soliti usare l’amara scorza delle parole per tenerli lungi dalle nostre vivande, che essi non potrebbero non corrompere...’’ Così parla Giovanni nella lettera ad Ermolao Barbaro del 3 giugno 1485, uno scritto fondamentale, un manifesto poetico e letterario di primario interesse. Come al solito, il mirandolano gioca sull’ambiguità. Infatti, se da un lato il suo intervento appare una difesa dei filosofi francesi, che si esprimono in modo rozzo e in stile disadorno, dall’altro la missiva si risolve nell’elogio della lingua e delle sue infinite possibilità, corrispondenti agli infiniti meandri dell’universo. Poiché vi è un contatto indistruttibile fra lingua e natura (‘‘E se invece la proprietà dei nomi - nominum rectitudo - dipende da natura, andremo a consultare i retori, o non piuttosto i filosofi, che soli hanno esaminato e chiarito la natura di tutte le cose?’’), scrivere significa cercare la verità attraverso i nomi. Allora, il vero ostacolo nel cammino verso il sapere è l’orgoglio del retore, ovvero colui che inanella proposizioni al solo scopo di costruire un narcisistico doppio di se stesso (‘‘abbandonarsi alla voluttà dei traslati’’). Consultare i Francesi, gli Arabi, gli Egizi equivale invece a ritrovare la comunanza ideale fra gli uomini. Così, in questa lettera l’Umanesimo raggiunge una delle sue vette più alte, là dove si intravedono la fine tragica dell’avventura intellettuale del rinascimento e l’inizio dell’epoca moderna, un periodo di crisi incessante per chi intenda muoversi all’interno del labirinto dei termini.

Ecco il punto cruciale della nostra tesi. Occorre decidere se l’Hypnerotomachia è semplicemente il bizzarro esperimento di un ingegno periferico, una delle tante curiose novelle gonfiate ad arte da un ego ipertrofico, una danza macabra di apparizioni paganeggianti, o se al contrario essa è una specie di diario di bordo, in cui un grande pensatore mette alla prova se stesso e la cultura che lo ha nutrito. Il discrimine sta evidentemente nella vacuità o meno del tentativo. L’Oratio de hominis dignitate mette in scena un Supremo artefice che proclama, rivolto alla sua dilettta creatura: ‘‘O Adamo, non ti ho dato una sede determinata, né un volto che sia veramente tuo, né alcun dono a te peculiare; ho fatto questo affinché la tua sede, il tuo volto e i tuoi doni, tu li voglia, tu li abbia, tu li possieda secondo il tuo desiderio e la tua volontà. La natura imprigiona le altre specie secondo leggi da me stabilite. Ma tu, che non sei costretto da alcun limite, grazie al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho posto, puoi definire da solo la tua stessa natura. Ti ho messo al centro del mondo affinché tu possa meglio contemplare cosa il mondo contiene...’’

L’appello divino è tuttavia drammatico, perché libera e condanna l’uomo al tempo stesso. Immensa è la vastità di ciò che l’individuo scorge, profondissime sono le intenzioni del Maestro, innumerevoli i dettagli, innumerevoli le possibilità di scelta. Questo costruisce il labirinto moderno, in cui si muove un uomo dalle sembianze di camaleonte. ‘‘Chi non ammirerebbe il camaleonte che noi siamo? Asclepio ha giustamente detto che questo camaleonte - versipellis - era rappresentato nei misteri dalla figura di Proteo...’’ Il problema nasce nel momento in cui ogni individuo, essendo la più alta espressione del creato, deve diventare mimesi del creato medesimo. Cosa è infatti una scelta, se non la ricezione di un’alternativa assoluta, che sarà interiorizzata e assorbita con la massima cura, fino al rischio di una scissione interna al soggetto stesso? Parallelamente, il linguaggio umano, il più affilato strumento di cui disponiamo, si farà mimetico, trasformandosi in specchio dell’intera realtà. Ma uno specchio tanto esteso comporta certamente una deformazione. Il barocco è ormai vicino, pur nella particolare accezione di una sapienza che ancora tende al catalogo.

Il Sogno di Polifilo incarna appunto queste esigenze, queste contraddizioni. Addormentandosi, il nostro sognatore non si limita a incontrare l’amata, incrociando cortei di personaggi illustri. La sua fantasia deve sopportare il peso dell’Antichità, ovvero dei modi in cui la Storia ha proclamato l’esercizio del libero arbitrio, il peso della Passione, ovvero l’impatto doloroso con i sentimenti, il peso della Religione, ovvero il confronto con la potenza insuperabile del sacro. Diverso era il viaggio della Divina Commedia, faticoso riconoscimento delle radici, temperato tuttavia dalla guida di presenze opportunamente ispirate da una divinità attenta ad ammaestrare i propri discepoli, riducendo al minimo le vertigini e gli smarrimenti. Perduto l’Inferno, purtroppo viene smarrito anche il Paradiso, e Polifilo vaga fra graziose erbette che rappresentano solo l’aspetto decorativo di ben più gravosi marmi. Infine, Beatrice non si dilegua, al contrario di Polia. Se molti studiosi hanno ecceduto, ravvisando nella donna-ninfa desiderata dal giovane un richiamo stringente al passato antiquario, tale identificazione ci consente comunque di precisare un dato essenziale. Lo pseudo-Colonna concepisce l’universo del sapere come uno sfuggente dominio. Dominio, perché dal reticolo dei nomi l’uomo non può assolutamente prescindere, trovandosi gettato nel mondo delle creature. Sfuggente, perché ogni parola nasconde un gruppo di parole, ogni citazione racchiude la sua deriva, ogni aggancio ai testi latini sovverte il significato originario; infine, l’elenco esotico dei materiali intravisti da Polifilo serve solo a ricordarci l’insopprimibile magnificenza divina, così come le architetture in rovina sono i pallidi frammenti del sogno del Grande Architetto.

Potremmo riproporre i medesimi concetti analizzando l’opera di Pico. Nell’Oratio, il mistero dei vocaboli è metafora del mistero della verità: ‘‘A questi iniziati, una volta purificati attraverso le arti che abbiamo chiamato espiatorie, la morale e la dialettica, toccava l’assunzione dei misteri. E cosa può essere questa iniziazione, se non l’interpretazione attraverso la filosofia dei più profondi segreti della natura?’’ Ma la filosofia è lo studio dei nomi, la dissezione sacra della natura e la sua ricomposizione. ‘‘Quando avremo acquisito questa conoscenza con l’arte del discorso e del ragionamento... penetrando tutte le cose dal centro al centro, talora noi discenderemo frantumando l’uno in molti come Osiride, con la forza di un Titano, talora risaliremo riunendo i molti in uno, come le membra di Osiride, con la forza di un Apollo...’’ Si tratta di un brano sorprendente, sia per l’appello alla tradizione egizia, sia per l’evidente volontà di procedere ad una trasmutazione del naturale mediante l’alchimia del Verbo, sia per la nitida affermazione di un modernissimo procedimento di frantumazione e riassemblaggio, profondamente polifiliano. Quindi, ‘‘Mi sono ripromesso di non giurare sulla parola di alcuno, ma di fondarmi su tutti i maestri della filosofia, esaminando tutte le posizioni e conoscendo tutte le scuole.’’ Inevitabile è allora il riferimento ai greci: ‘‘... Omero, di cui un giorno dimostreremo nella nostra Theologia poetica come abbia nascosto nelle peregrinazioni di Ulisse questa scienza e tutte le altre...’’; ‘‘... Orfeo ha tanto avvolto i misteri dei suoi dogmi nelle pieghe del mito, li ha tanto nascosti sotto un velo poetico che, se si leggono i suoi inni, si potrebbe credere che essi contengano solo delle leggende e delle assolute sciocchezze. Questo ho voluto dirlo perché si sappia quanto sia stato difficile estrarre dalla voluta oscurità dell’enigma e dalle tenebre delle favole il senso di una filosofia segreta che là si nascondeva...’’ Sembra di leggere una dichiarazione letteraria di intenti, che delinea un personaggio vicino all’astuto Ulisse, condannato a vagare nel Mediterraneo dei fantasmi, ma simile anche al dolce Orfeo, perennemente alla ricerca di un’Euridice sprofondata negli inferi della non conoscenza, e da qui risvegliata grazie alla melodia di un cantore-filosofo.

Infine, il palazzo delle lingue e dei linguaggi evoca l’enigma che in modo arcano si erge a difesa dei segreti. ‘‘Sopra i templi egizi, le statue delle sfingi ammonivano a proteggere gli insegnamenti mistici dalla folla dei profani attraverso i nodi dell’enigma.’’ Così, i vocaboli e le frasi che costellano il Sogno di Polifilo si dimostrano continuamente altre, componendo astrusi rebus dove, più del significato, conta la forza combinatoria delle immagini geroglifiche, sorgente antichissima dei vocaboli di cui il sapiente si ciba.

Alla seconda parte