Storia di un grande . . . tragico amore napoletano

Più vera della storia di Giulietta e Romeo,
più violenta di quella di Paolo e Francesca,
più moderna di quella di Tristano ed Isotta,
ma drammatica quanto la storia di Ginevra e Lancillotto,
è la tragica storia d'Amore di
FABRIZIO e MARIA
Ancora oggi nelle notti senza luna, quando la città dei vivi si addormenta,
il fantasma di Maria D'Avalos si aggira senza pace
a quella vetusta dimora che fu teatro d'amore e di passione, di vendetta e di morte.
Sono in tanti ad averla vista. Bellissima ed evanescente, lunghe vesti discinte, capelli scarmigliati.
Con il terrore dipinto sul volto, quello splendido volto che, né quattrocento anni,
né l'oltraggio di una morte infamante, sono riusciti a segnare.
Vaga tra l'obelisco di S. Domenico Maggiore e il portale del palazzo di S. Severo a Napoli.

(***)

17 ottobre 1590, Maria D'Avalos e Fabrizio Carafa,
in una delle stanze del celebre palazzo S. Severo,
rinnovano, ancora una volta, l'eterno incantesimo dell'amore.
Sono giovani, belli, innamorati. Sono felici, tra quelle mura discrete che celano,
agli occhi del mondo, l'estasi e la paura di una relazione clandestina.
Il desiderio, colpevole per quanti non conoscano le tempeste dei sentimenti, li ha vinti.
Una volta, due, tre e ancora. Dimentichi degli obblighi. Dimentichi di un marito,
Carlo Gesualdo, principe di Venosa, legittimo consorte di Maria,
troppo orgoglioso per tollerare l'onta di tradimento,
troppo innamorato per invocare la giustizia della legge.
Il nobile Carlo, famoso madrigalista, non sa rinunciare a quella donna splendida e irrequieta,
ma non può accettare di dividerla con altri.
Uomo appassionato e sensibile, grande amico del Tasso,
Carlo Gesualdo "illustra musica". Ore e ore chino su grigi spartiti a trasfondere, in struggenti madrigali,
il sentimento prepotente che lo lega alla sua dama.
Nella camera ornata di affreschi e di stucchi,
tentando di tacitare il desiderio imperioso di una donna che gli sfugge,
il principe di Venosa fa ascoltare, all'amico poeta, sublimi note.
La sua anima dolce e ardente, l'amore immenso e disperato che lo avvince,
si squaderna tutto in quelle sue composizioni dolenti.
Quei malinconici madrigali, scritti al tempo delle vane illusioni e delle puntuali delusioni,
nei giorni in cui ancora non disperava di poter riconquistare sua moglie,
pur sentendola ogni minuto più lontana,
sono gli unici testimoni delle crudelissime pene da cui fu agitato il cuore di quell'uomo,
dell'acerbo dolore che avrebbe trasformato un felice innamorato in spietato assassino.
Tutta Napoli conosceva la tresca della bella Maria con Fabrizio Carafa.
La nobiltà ne parla a bassa voce, i popolani commentano, con divertita indulgenza,
l'audacia dei clandestini amati. Ma l'amore rende ciechi.
Don Carlo per qualche tempo non vede o non vuole vedere quel che succede intorno a lui.
Scrive d'amore pensando alla sua donna, le dedica malinconiche melodie,
e chiude gli occhi su una verità troppo dura da accettare.
La passione dei due giovani amanti, però, cresce ogni giorno.
Presto anche la prudenza viene accantonata. Insieme, contro tutto, malgrado tutto.
Nemmeno sull'uscio della camera nuziale di Maria sa arrestarsi il desiderio.
I mormorii della città si trasformano in un coro indignato.
Tutti vedono. Tutti sanno. Tutti parlano.
Solo il legittimo consorte della "donna senza ritegno", continua a non vedere, a non sapere, a non parlare.
Fino a quando la benda, che per qualche mese, ha coperto gli occhi di Carlo viene brutalmente strappata via.
È un amico "premuroso", che si assume l'onore e l'onere di informarlo,
con spietata dovizia di particolari, dell'infamia.
Pazzo di dolore e di gelosia, l'uomo tenta ancora di non arrendersi alla dolorosa verità.
Concede all'adorata moglie l'ultimo, delirante, atto di fiducia: il beneficio del dubbio.
Finge di partire per ritornare, a notte fonda, nella segreta speranza di trovare,
sola e casta, la donna che ama. Vano desiderio. Estrema e impossibile speranza.
Spalancata la porta di casa, ogni illusione si infrange miseramente
contro l'immagine dei due amanti avvinti sul talamo.
L'ira e la disperazione, troppo a lungo represse, impongono le loro crudeli ragioni.
Il principe di Venosa si getta su quei due corpi nudi, brandendo un pugnale,
e colpisce con cieco furore, ancora, ancora, e ancora. Fino ad uccidere.
Folle di dolore, sporco di sangue, cammina per ore lungo le vie del centro, piangendo.
Poi fugge via. Il palazzo resta abbandonato.
Chiuse quelle stanze insanguinate, pare alla gente del vicinato di udire
ogni notte un grido alto e angoscioso e pare ancora che si aggiri, per l'oscurità della viuzze circostanti,
il bianco fantasma di Maria. Quello spettro, di certo, non abbandona la mente dell'omicida.
Quel corpo stupendo e insanguinato continua a danzargli davanti agli occhi.
E così, quei madrigali malinconici si trasformano in un disperato pianto melodico,
che narra singhiozzante, la funebre storia della bella Maria, vittima della passione.
Per anni, l'urlo agghiacciante della splendida e sfortunata dama, ha raggelato il quartiere.
Fino al 1889, quando il crollo dell'ala maledetta del palazzo
sembra restituire un po' di pace allo spirito errante di Maria D'Avalos.
Da allora, nelle notti senza luna, l'ombra evanescente riappare muta.
Si aggira silenziosa, dolente e il suo incidere spettrale
sembra riecheggiare i versi ispirati al Tasso dalla sua tragica vicenda:
FABRIZIO E MARIA

FANTASMI

MISTERI

STREGHE

GP club

STORIA

MUSICA E MORTE

PALAZZO SANSEVERO

(***)

Il principe Carlo da Venosa, nel 1586, sposa la cugina Maria D'Avalos di stirpe reale spagnola, molto bella e famosa per le sue capacità amatorie.

Dal matrimonio nasce Emanuele e la vita scorre tranquilla finchè Maria non incontra al ballo del Viceré il duca d'Andria Fabrizio Carafa. E' amore a prima vista.

Tra i due nasce una passione così forte da annullare ogni sguardo indiscreto, da vivere solo per quell'attimo trascorso insieme. Si amano alla follia né si ritengono colpevoli, perché pensano che il loro amore vada al di là della vita, superi la morte stessa.

Aiutati dalla fedele dama di compagnia di Maria, si incontrano dovunque e arrivano a vedersi perfino in casa Gesualdo.

Sanno che Carlo sa, sono coscienti del pericolo ma si sentono talmente sublimati dal loro amore che nemmeno la vendetta li spaventa. Immolarsi per amore vuol dire, per loro, purificarsi, destinare il loro amore all'eternità.

Carlo, avvertito della tresca, escogita un piano; finge di partire per la caccia e, nella notte fra martedì 16 e mercoledì 17 ottobre 1590, coglie i due amanti in flagrante nella sua stessa camera da letto, dove vengono trucidati.

Il principe, aiutato da alcuni suoi servi, dà il colpo finale ma, trafiggendo il cuore di Maria, trafigge il suo cuore che, da quel momento, non troverà più pace.

Il suo casato è salvo ma il rimorso "per aver reciso il più bel fiore del suo giardino", per aver spezzato il suo unico e vero amore, lo accompagnerà per tutta la vita.