Appunti di viaggio è una sorta di album dove abbiamo collezionato, pur alla rinfusa, alcune tracce significative del nostro cammino: ritagli di giornali, lettere, estratti da depliant e volantini dei nostri spettacoli, progetti ecc. Ciascuna tessera, ordinata cronologicamente, racconta una specifica realtà che, se non sempre riesce a spiegare i fatti, può tradurli e rappresentarli metaforicamente.  Ognuna, assieme alle altre, costituisce la tessera di mosaico ancora più grande in cui si profila una sorta di autobiografia di gruppo. Rileggerla ogni tanto ci aiuta a riflettere per capire quali cose sono state importanti e quali no; ciò che è contato e la piega che hanno preso certi incontri, che rapporto hanno assunto non solo rispetto al caso ma anche alle scelte fondamentali che poi abbiamo fatto. E ci stimola,– cosa quanto mai incoraggiante, dopo più di vent’anni di attività – a voler fare altre esperienze.



APPUNTI DI VIAGGIO

Diari di Parigi 25/27 maggio 2007

 

 

PARIS THE DAYS AFTER

dedicato a IULCO, GUALTIERO, MIRCO, CATIA, DOMENICO, PIERLUIGI, ERMANNA, ROBERTO, GIORGIA (alias GIORGINA), NINO, ANGELA, GIANNI(alias GIOVANNI), GIANLUCA, GIUSEPPE, GILBERTO, GRAZIA, ALDO, ANTONIO, MARIO e a ME 

Di Lucia Mazzotti

Mi piace parlare di SAINT MAUR DES FOSSÈS  e di Parigi a distanza di tempo per conservare viva la carica emotiva e lo stupore del bambino che è rimasto dentro ognuno di noi.

L’avventura inizia non sull’aereo, ma nel momento in cui mi sono messa alla guida del mio Doblò per andare a prendere Pierluigi e Gianni. Non credo di essere partita in ritardo, però non ho avuto il coraggio di guardare l’orologio; qualche momento prima erano le 17,15 e lì mi sono fermata. Puntuale arriva la telefonata di Pier, il quale forse stava già pestando sulla stradina della “VILLA NORA”, mi fermo per rispondere, perché non trovavo il telefonino: “Dove sei, perdiamo l’aereo!!!!!!!!!”

Certo sono in strada, ma a complicarmi la vita ed attirarmi le ire di Pier ci pensa il passaggio a livello, CHIUSOOOOOOOOOO! Chiamo l’interessato e facendo sapere che sono a 300 metri da casa sua, ferma alle “sbarre”, lo invito a raggiungermi. Niente da fare, non mi resta che aspettare il fischio del treno, che sembra non arrivare mai: i minuti sono infiniti. Finalmente, come Sesamo, si aprono quelle barriere che mi hanno bloccato per non so quanto tempo, troppo per far tacere Pier che vedo già sul piede di guerra, però Lorella che è con lui, forse riesce a frenare la sua agitazione.

Lorella non può venire perché ha l’albergo aperto, un sottile velo di malinconia le incornicia il volto. Avverto un leggero senso di colpa e una sorta di solitudine non solo vocale; da quando cantiamo insieme ho scoperto in me una ritrovata passione ed una motivazione più vera. La saluto.

Ci siamo: Pier, dopo aver capovolto mezzo Paradiso (l’altro mezzo ci penserà dopo a buttarlo giù), carica la valigia, saluta la Lorella e sale al posto di guida, manca Gianni che non so per quale motivo non si sia fatto portare alla VILLA NORA. Tutto questo alimenta nel nostro amico la convinzione che non si arriverà in tempo per l’imbarco. Colpa mia, colpa di Gianni, colpa di tutti. Io, come qualcuno sa già, più di tanto non mi scompongo e ho i miei alibi: il passaggio a livello chiuso e Gianni che ci fa perdere preziosi minuti. Arriviamo da Gianni, saluto dal finestrino Daniela (guai a scendere!) mentre al volo vengono caricate la valigia, piccola, e la fisarmonica. Nessuno ancora si è reso conto delle dimensioni del mio bagaglio!

Ed eccoci in strada alla volta di Rimini.

Gianni comincia a dire di voler tornare indietro, perché ha dimenticato gli occhiali. Come si può ben immaginare, nessuno spazio viene dato alle sue richieste e la risposta è che gli occhiali non servono visto che le previsioni hanno messo pioggia, e poi è tardi, si perde l’aereo. (Della serie “MAMMA HO PERSO L’AEREO”).

Non provo neppure a ridere sotto i baffi, data la “melodrammaticità” del momento. Siamo a Rimini, il traffico non è intenso, ma neppure tanto fluido. La Ravenna appare ai nostri occhi un percorso ad ostacoli. C’è tutto il mondo che si frappone fra noi e l’aereo per Orly e poi il Doblò a metano va troppo piano.

“Chiama Gualltiero e digli che siamo in ritardo, che ci aspetti!“ 

Assecondo, ridacchiando (sempre dentro di me) la richiesta, chiamo Gualtiero, gli faccio sapere più o meno dove siamo e, pensando fosse già all’aeroporto, gli chiedo dove si trova lui. Incredibile, è ancora in macchina, e, tenetevi forte, addirittura quasi trecento metri dietro di noi. Non basta questa telefonata a consolare il nostro autista che non distende i suoi nervi ancora tirati come corde di violino. Intanto il traffico s’infittisce e si avvicinano le ore 18,30. Solamente per un attimo mi è venuto da pensare “E se avesse ragione?”. È un pensiero che m’abbandona quasi subito, perché siamo al sospirato aeroporto. Ci fanno da scorta altrettanti ritardatari con l’aria più pacifica.

Il rally è terminato, in fretta si parcheggia, si scende e qui Pier, aiutandomi a scaricare i bagagli, ha la sensazione che la mia valigia sia esagerata: ha ragione e non oso ribadire nulla, se non il fatto che ne ho una troppo piccola nella quale non ci sta la roba che mi serve. Non fa molto caso alle mie risposte, perché mi lancia le chiavi e prende la corsa, convinto ancora di essere in ritardo, per entrare ed assicurarsi che l’aereo non sia già partito.

Con la consueta calma che mi contraddistingue, trascino il mio pesante bagaglio e mi avvio anch’io verso l’entrata. Mi aspetta Gianni.

Una volta entrata, mi travolgono le festose chiacchiere dei nostri amici che sostano davanti al bar (qualcuno sta già fuori a fumare). Del check in ancora nessuno parla, eppure sono le 18,40. Non posso non dare una sbirciatina alle altre valige e, ahia, mi accorgo che quasi tutte hanno dimensioni molto ridotte rispetto alla mia. Faccio ovviamente orecchio da mercante a tutti i commenti all’unisono e mi appoggio ad una colonna rilassandomi dalle peripezie del viaggio. Penso però al peso della valigia ed all’eventuale imposta aggiuntiva sul carico. Faccio finta di nulla e quando mi tocca, appoggio sul tappeto rullante e ……….il verdetto; 17 KG (il limite è di 15 KG), l’hostess non fa una piega, io neppure, anzi con gran candore le chiedo se c’è qualcosa che non va e mi risponde che non c’è nessun problema:”TIÈ” a quelli che dicevano che non sarei passata.

Loro invece, quelli che dicevano che non sarei passata, hanno avuto qualche problemuccio con il nome proprio che non era quello proprio, ma di un altro. Un gioco di parole per dire che sul documento figurava un altro nome. La questione sembra farsi seria per qualche minuto, poi sfuma e possiamo tutti avviarci al nostro velivolo, chi si tiene stretto il basso, chi la chitarra, chi la fisarmonica, chi la borsetta colma di tutto un po’. La coda ci sembra lunga e ridendo e scherzando si fanno le 20,30. Qualcuno telefona per l’ultimo saluto italiano, qualcun altro scatta le prime fotografie che documentano la nostra partenza. Io, assai esausta, non tengo la forza di mettermi a fotografare.

È proprio vero, stiamo partendo! Cellulari spenti, uno sguardo al posto, il mio è il n. 16 fila D. Le file sono tre, alla mia destra una coppia di francesi, alla mia sinistra Gianni. Ci guardiamo tutti e lievemente rapiti ci lasciamo trasportare da pensieri ancora incompiuti. È fatta, si vola. Allaccio le cinture, aspetto il decollo, sto dieci minuti, un quarto d’ora buona ad assaporarmi l’ebbrezza del cielo. Non resisto più, devo cercare la mia Canon nella borsetta zeppa e cominciare a raccontare il viaggio. 

Sono felice e con un filo di voce.

 

IL VOLO

Mi giro per scrutare le facce dei passeggeri, avrei quasi voglia di immortalarle per fermare qualche fugace espressione, ma ci rinuncio è un’invasione che posso fare solo agli amici non a chicchessia. Mi soffermo su Gianluca che guarda il mondo sotto di lui, vicino l’inseparabile basso; ho il clic pronto, però non scatto, non so perché, ma avverto una sorta di pudore e dirigo altrove il mio piccolo obiettivo. L’Uva Grisa è sparpagliata su tutto l’aereo, nei paraggi c‘è anche Nino che ha l’aria di divertirsi molto. Gianni dorme, Gilberto è serio, ancora, si guarda attorno e tace, ancora.

Serbiamo lo spirito dei liceali indisciplinati, in gita per la prima volta, senza professori. Comincio a scattare ma con parsimonia, sperando di cogliere qualche bricconata; aspetto momenti più significativi, a terra. Dopo mezzora noto qualche spostamento, i passeggeri più inquieti, i Nostri, cambiano posto destando qualche preoccupazione nel personale di bordo che tempestivamente si prodiga nello sciorinare inviti ad allacciare le cinture e soprattutto a restare ai propri posti.

Sento freddo e la mia gola già provata si sta chiudendo, la voce è così strozzata, ma domani andrà meglio, penso tra me e me.

Passa l’hostess con il carrello e una frugale cena fa scivolare il tempo che quassù sembra avere un’altra dimensione. Sento parlare Gilberto che si destreggia con gli involucri del suo rancio. Tutto sommato, buono. È la fame ci fa dire, questo, però ci crediamo e mangiamo. Non posso dire cosa succede in giro, visto che sono impegnata a non fare rotolare per il corridoio quello che, a fatica, ho cercato di assestare sul precario tavolino.

Ho due vicini che devo assolutamente interpellare: sono una coppia parigina reduce da una vacanza a Rimini e così dò una lubrificatina al mio francese. C’è però un particolare: lui è sordo e capisce dal movimento delle labbra, la moglie parla volentieri con me, ma si trova al posto sbagliato, perché per farmi sentire devo sforzare la voce. Con lui è una tragedia: devo urlare come un’aquila agonizzante col rischio che non capisca ugualmente, e stare attenta a come muovo le labbra; non potevo sperare di meglio.

Siamo a Orly, l’Aigle Azur atterra. I francesi mi salutano. Noi ci aspettiamo e ci incamminiamo frastornati a ritirare i bagagli. Casali ha ritrovato la parola, io l’ho perduta. Percorriamo qualche tunnel, saliamo e scendiamo scalinate, fino a quando non intravediamo due cartelli con su scritto UVA GRISA sostenuti da due uomini distinti: sono loro, i nostri interlocutori. Ci adattiamo, in men che non si dica, all’ambiente francese stemperando vocaboli e frasi più o meno di circostanza, ma abbiamo i nostri traduttori ufficiali: sguinzagliamo Catia e Domenico verso i due accompagnatori, Giuseppe supplente effettivo si tiene a rispettosa vicinanza, tutti gli altri nelle retroguardie. Raccogliamo i bagagli e ci dirigiamo all’uscita. Non tengo, quando mi si affianca uno dei due, Georges, chiedo a quale distanza si trova Parigi. La domanda è faziosa, lo so, è rigorosamente in francese, esige una risposta che non si fa aspettare “PARIS? C’EST LOIN, COMME LONDRE !“ Spero che scherzi!

Primo messaggio in codice: a Parigi non si va, perché Parigi? Voi siete venuti a SAINT MAUR! Insisto dando tutte le mie informazioni sulla distanza, che ho trovato su Internet poi lascio perdere pensando alla replica del giorno successivo.

All’uscita ci viene incontro un pullman. Lo chauffeur è un uomo di colore, servizievole, ci aiuta a sistemare i bagagli, soprattutto carica il mio e ci accompagna all’hotel “ETAP”, località SUCY en Brie, una cittadina che ha chiuso i battenti e ritirata nei propri appartamenti. Non sembra affatto avvezza alla vita notturna. Attorno vi è il deserto della notte; non me l’aspettavo, pensavo tra me e me, già sintonizzata con i bagliori parigini! Speriamo nella cena. Siamo stanchi, abbiamo voglia di una doccia, abbiamo fame.

Vediamo profilarsi le sagome tutte uguali di sacchetti per una successiva cena frugale. Sacchetti da riempire davanti ai nostri occhi. Mele, sandwich, acqua e per fortuna tante ciliegie. Cominciamo bene!!!!!!! Attendiamo il seguito che non arriva. Tutto lì, dentro il sacchetto. I più perspicaci sognano champagne, caviale e magari anche cotillon. La prima notte francese deve essere per forza peccaminosa, trasgressiva. La sobrietà troppo provinciale!

 

Inizia il rito dell’assegnazione delle camere, con qualche variabile. Forse non ci sono stanze per tutti, ma essendo un po’ lontana dagli accompagnatori non riesco a seguire bene la vicenda ed entro nella cosiddetta hall. So già di essere con Ermanna in camera, ma ci vuole il codice e in poco tempo lo assegnano. Quando tutto è a posto, Jacques e Georges si congedano: l’appuntamento per l’indomani mattina alle 8,30.

 

Non può finire così: occorre dare un tocco di classe alla notte e mentre fioccano le intenzioni più indicibili da parte dei più temerari, mi ritiro nel “mio appartamento”. Gli altri vanno in esplorazione sperando in qualche Pub aperto, ma ritornano delusi. Dove sono i luoghi del peccato? Questo angolo di mondo non porta alla perdizione, porta piuttosto a rassegnarsi ad una notte tranquilla, senza colpi di capa.

Mi lacrimano gli occhi e mi pizzica la gola. Scolo la bottiglietta di erisimo, sperando nel miracolo. Per il momento cerco di disegnarmi i canti e ripassare le parole, nell’attesa di addormentarmi.

Sogni d’oro, d’argento, di latta. Bonne nuit.

 

Non ci posso credere, non mi sento la gola stretta da un nodo, non si è aperta alla inondazione di erisimo della sera; ci provo ancora con questa pianta dai poteri miracolosi, stavolta addirittura la prendo senza aggiunta di acqua e a parte il bruciore, non avverto nessun cambiamento.

Che faccio? Starò zitta e mi diletterò a scattare foto; semmai mi infilerò in qualche danza, ballerini permettendo (non è vero, scherzo).

Così, infatti, è stato.

 

I mercati in Francia sono qualcosa di molto pittoresco; colori, odori, rumori, l’intenso vociare, il richiamo dei venditori ti inebriano la vista e ti tolgono la dimensione del tempo. Questa però è una giornata speciale: oltre ai venditori e compratori, è spuntata una terza categoria. Canterini, suonatori, ballerini irrompono prepotentemente in quel concitato sabato, aggiungendo colore al colore, suono e canto al rumore, passi di danza al frenetico via vai dei cittadini. Il pubblico ha reazioni diverse; chi si ferma per un attimo, chi imperterrito continua per i propri acquisti, chi venendo a sapere della nostra italianità, improvvisamente sente un rigurgito del DNA e sbandiera le sue origini. Un attimo, poi la vita riprende e ci si allontana ad incontrare altre voci, altri volti da esplorare. Io in silenzio provo a catturare sguardi incuriositi, distaccati, compiaciuti che compongono la vita di un sabato di fine maggio a SAINT MAUR, consumato su variegate bancarelle. All’interno echeggiano le note di “Bella sei nata femmina………” una dolce serenata esaltata dalla voce di Gianni.

 

Fuori si canta ugualmente e soprattutto si danza invitando i passanti che osservano e rimangono esterrefatti se solo qualcuno di noi accenna ad un invito. Le passanti invece sono meno imbalsamate e sembrano cedere più in fretta alle lusinghe dei cavalieri senza macchia e senza peccato…. Senza esagerare.

Non potendo cantare, mi butto nel ballo; mi segue un bambino che guarda divertito le danze e le scene che i Nostri improvvisano sul loro percorso. Anche Jacques e Georges silenziosamente annuiscono facendo trapelare la loro soddisfazione. Non ci mollano e controllano l’orologio. Distribuiscono anche volantini per la festa del giorno successivo.

Bisogna andare da un’altra parte: infatti ci conducono in una piazzetta apparentemente priva di interesse, ma dal nome grandioso: è dedicata a Tati il grande cineasta. È doveroso un intervento se non altro per onorarne il nome. Lo spiazzo è un’area circondata da due strade laterali e lo spazio risulta assai ridotto, troppo per coinvolgere i passanti.

La mattinata sta per volgere al termine, si avvicina mezzogiorno e il desiderio di mettere i piedi attorno ad un tavolo prende forma.

Gli amici Georges e Jacques ci hanno riservato un ristorante con un giardino, nel quale impera il verde delle piante, dove l’atmosfera è rilassante, familiare, romantica. Un pittoresco quadretto che avrebbe ispirato Renoir.

Qui il tempo ha abbandonato i ritmi suoi consueti, oscilla indolente come una pigra onda a riva. Gli strumenti danno anima alle serenate alle più o meno fanciulle di quell’ angolo di mondo. È stata anche la giornata in cui Pierrick si è aperto, divenendo uno di noi.  Lo ricordo in piedi sullo stipite dell’ entrata del giardino. Sembrava timoroso, intimidito, ma un invito a sedersi di Pier, gli ha aperto, forse, il cuore. In fondo basta poco per farsi un amico. Da quel momento non ci abbandonerà più. Il piccolo Eden cancella i cattivi pensieri della sera precedente originati dalla cena al sacco. I cellulari e le sigarette ci riportano violentemente nel terzo millennio. Ci sono familiari da salutare, raccomandazioni da rivolgere a mille miglia di distanza. Il discreto richiamo dei due accompagnatori ci aggiorna sugli impegni pomeridiani: museo e Artothèque, quest’ultima una sorta di ARTE a NOLEGGIO: si possono affittare quadri e tenerli per un mese a casa, come un libro preso in prestito alla biblioteca.

 

Gualtiero ha fumato un sigaro di troppo e nel parco del museo ha un crollo, le crocerossine di turno Angela e Lucia cercano di renderlo attivo e energico, ma a nulla valgono le cure e i vari tentativi di rilassamento. Alla visita mancherà dunque Gualtiero che lascio alle caresses di Angela. La guida sta già aspettando, la raggiungiamo sperando in tanta clemenza da parte sua: siamo pieni di attenzioni nei suoi confronti: vogliamo addirittura risparmiarle la fatica di tradurre le descrizioni dei quadri che incontriamo. È MOLTO PREPARATA la guida, peccato che la nostra mente esplori le bouquineries di Parigi, les bateaux sur la Seine, Nôtre Dame …..

Un’auto irrompe nel giardino di Villa Medicis: riconosco il sindaco della città di Rimini, Ravaioli e consorte seguiti dall’interprete. Dobbiamo a lui il merito di averci consentito di vivere un’esperienza così forte! Si uniscono a noi e la visita continua con la guida e l’interprete che non disdegnano di aggiungere particolari e dettagli che non fanno proprio la nostra felicità: ci sentiamo come bambini a cui sono stati promessi dei regali e non vedono l’ora di scartocciare il pacco che li contiene. Paris, Paris!!!!!

La verve della signora Ravaioli tiene svegli i pochi sopravissuti che hanno resistito alla visita (le retrovie, non faccio nomi, se la sono defilata con gran maestria).

Gli ultimi quadri sono quelli che più mi colpiscono, come se rinnovassero una suggestione vissuta. Una Stazione ferroviaria con persone che si allontanano verso un binario ed una località senza nome: sagome senza volti, vicine nello spazio, ma così lontane negli affetti. Quante volte ho incontrato quei volti, davanti al binario in attesa del treno.

Ci spostiamo all’Artothèque e l’obiettivo si fissa su giochi di bimbi che qualcuno ha già proposto come immagine per il prossimo album dell’UVA GRISA.

Usciamo dal parco del Museo “VILLA MEDICIS” per salire nuovamente sul pullman con Pierrick, meta Parigi.

 

PARIS

Sono emozionata fino all’inverosimile, è proprio vero, ci stiamo dirigendo a Parigi, un giro panoramico, un mordi e fuggi, ma possiamo ben dire che siamo stati a Parigi. Tredici KM ci separano da questo sogno. Nel frattempo, sul pullman Aldo si fa una pennichella sulle spalle di Antonio; naturalmente viene immortalato dai vari obiettivi come falchi sulla preda. È bello scoprire come le piccole cose riescano a farci divertire, a stupirci pur essendo così semplici. Riesumano quel bambino rimasto dentro ognuno di noi.

Intanto Georges si affanna ad illustrarci questa Parigi di passaggio.

Entriamo finalmente a Parigi e cerchiamo di svegliare Aldo, mentre ci fanno da corona le spiegazioni di Georges o forse Jacques (sono in fondo al pullman presa a non perdere un’immagine): la riva della Senna, Nôtre Dame i battelli con ristorante  (Bateaux-Muches), i bouquinistes, il complesso degli Invalidi, l’Opera (avrà un seguito nella nostra storia), museo d'Orsay. E poi? La Tour Eiffel. I nostri accompagnatori decidono di fermarsi e di farci scendere. E qui inizia la straordinarietà della nostra storia. Siamo paralizzati dallo stupore, dall’ immensità di questo intreccio di ferro battuto, dalla sua imponenza sensuale: una guepière che ammutolisce le migliaia di persone che perdono il loro sguardo per cercare l’ultima trave con i bulloni che tengono salda la struttura. Di fronte a tanta immensità non sappiamo che fare; fotografare? È riduttivo. Ballare, suonare, coinvolgere le persone in un cerchio multicolore che prende per mano tutti i volti del mondo. I curiosi non mancano ai primi accordi di chitarra e alle vibrazioni del violino. Venturelli cerca una nonchalance che non trova, Julko cammina lentamente assaporando ogni cm quadrato di quella terra dove rivoluzione e slancio conservatore si rincorrono, tutti siamo con il naso all’insù, in ammirazione esplorando i bulloni più nascosti. Si improvvisa la vinchia e non c’è bisogno di implorare il pubblico per ballare. Ci riescono i giovani a stupire e a stupirsi, e la spontaneità induce il gruppo dei musicisti a proseguire il repertorio di danze. È il tripudio della meraviglia, delle cose che avvengono così come te le sei immaginate, la magia dell’incontro, il contrario del quadro alla VILLA MEDICIS, nello stesso spazio volti sconosciuti in un abbraccio di sorrisi, di suoni, di intenti. Si danza senza il disagio di non saper ballare, sotto l’emblema della GRANDEUR et HAUTEUR françaises.

 

È il nostro più grande orgoglio.

Il tempo ha subito un arresto anche qui. Nino s’è accaparrato una giovin donzella e fatica a mollarla, Giuseppe si sta sgolando per spiegare alcune figure di danza (a volte la parole sono degli optional), io mi butto nel saltarello, prendendo tirannicamente il posto di una dama, sottraendola così al cavaliere di turno che deve rassegnarsi a ballare con me. Ma fa parte del gioco della trasgressione, mai mi sono vista così disinibita.

 

Avevo un’altra idea del visitatore - tipo della torre Eiffel: distaccato, aristocratico, snob diverso dall’artista di Montmartre o del quartiere latino. Parigi ama i giovani, le idee della rivoluzione, ma ogni tanto rispolvera il suo Napoleone. 

“Chaque revolution élève son Napoléon” recita un detto, riportatomi non ricordo da chi.

Non era quello un luogo snob.

Un sano protagonismo si impadronisce di noi, senza che ce ne rendiamo conto guidiamo la piazza di Parigi, ancora una volta la danza e la musica si svelano nel loro linguaggio universale. In loro è racchiuso il segreto dell’armonia e della bellezza.

Il tempo questo sconosciuto si fa vivo sotto le sembianze di Jacques che ci raduna per raggiungere il pullman.  C’è tempo per una passeggiata e per una foto di gruppo, per un guizzo finale e per una foto a richiesta insieme a passanti doverosamente documentata. Dovevamo avere proprio l’aria da Trovatori. Si suona e si danza anche durante l’attesa del pullman.

Mentre usciamo dall’area della torre Eiffel, Domenico mi dice:- Non fare gesti strani che quei parà ci guardano! Non ho fatto gesti strani, ma al momento non capivo il motivo di questa raccomandazione. Col senno di poi, come sempre, ci sono arrivata. I signori della sicurezza ci avevano osservato e tenuto sotto controllo da un po’ di tempo, scambiandoci per un gruppo di disperati in cerca di soldi.

Ci siamo, arriva Pierrick ci si avvia verso altri simboli della storia francese: l’arco di Trionfo, dove ogni giorno si fa una cerimonia, la piramide di vetro nell’area del Louvre. E poi Place de la Bastille. Il simbolo della rivolta contro lo strapotere dell’ineguaglianza. La Francia è anche questo, ma della rivoluzione del 14 luglio c’è solo il ricordo e al posto della Bastille una colonna e una rotonda trafficata, niente più! Un po’ deludente visto che non c’è nulla che ricordi l’era di liberté, égalité, fraternité, se non tre date dedicate ai caduti della seconda rivoluzione sulla Colonna de Juillet, sulla quale svetta lo Spirito della Libertà. 

Ci si può rifare però con incontri d’altri tempi; tre gitane (riesumazioni del terzo stato?) ammiccanti sono pronte a sorprenderti con un invito, un sorriso, una lusinga. Le puoi incontrare a rimirar bancarelle nel parco adiacente la Bastiglia. Non ti fidare, possono farti volare!

 

Noi, lasciate le tre agli sguardi in pasto agli sguardi, ci sediamo in un cafè nei pressi della piazza e anche qui i due amici ci mostrano tutta la loro gratitudine offrendoci per l’ennesima volta la consumazione.

 

Ciao Parigi, è l’ora di raccogliere il sacco e rientrare.

Grazie per la tua attenzione: ci stavamo abituando alle tue coccole, alle armonie delle tue illusioni. On reviendra.

Una lunga notte ci attende, le gratificazioni parigine ci hanno regalato un’energia insolita, che non è affatto il caso di lasciare spegnere nelle segrete delle nostre camere.

 

Prima però la cena, un rito che volentieri celebriamo, questa volta in un locale che ha la sala migliore in un seminterrato dai colori del sole. Non manca il tocco italiano sul pannello che raffigura le maschere del carnevale di Venezia.

 

Mi accontento della pizza, gli altri invece non rinunciano alla bistecca.

Non demordono i cavalieri che trovano sempre il bandolo per attaccar bottone con la scusa delle serenate. È sabato e ragazzi e ragazze si concedono una serata in compagnia. Qualche ragazza si trova proprio lì al Gourmet, ignara di quello che le sta per accadere.  Partono il solista e i cori “ Se dormi, svegliati”.

Il più abbacchiato resta comunque Gualtiero che, riavutosi dal malessere del primo pomeriggio, non vede l’ora di toccar letto.

Non dovrà attendere molto per vedere esauditi i suoi desideri. A lui un sereno sonno, codici delle stanze permettendo (ce la siamo vista brutta, quando i vecchi codici non aprivano più le nostre camere), agli altri invece la verifica di quelle capacità da tempo declamate, ma mai esibite.

 

I cosiddetti altri sono nientemeno che Gianni e Pierluigi; quest’ultimo ce la mette proprio tutta per recitare la parte del tombeur de femmes, ma non sa che alcuni orecchi memorizzano, come i computer.

 

Acquisiti i nuovi codici, prendiamo possesso delle camere. Tutto sembra tranquillo; in realtà nella camera 106 si trama contro il meritato riposo del combattente Pier, il tombeur.

 

Una lunga notte ci attende, le gratificazioni parigine ci hanno regalato un’energia insolita, che non è affatto il caso di lasciare spegnere nelle segrete delle nostre camere.

 

Tutte le donne, ANGELA, Giorgia, Grazia, Ermanna, Lucia sono pronte all’attacco, ognuna ha un ruolo specifico, a me è toccato, ad honorem, quello del cameraman. Provo a protestare, ma le parole mi muoiono in gola e, in men che non si dica, mi ritrovo con la telecamera di Angela in mano. Faccio un ultimo tentativo, biascicando mozziconi di parole del tipo “non la so usare”, ma sono sprecate. Il tutto perché temo di non riprendere bene la scena!!!!!!!

Gianni candidamente ci ha fornito il codice ed è andato a fare un giro: è fatta. Usciamo dalla camera e guizziamo sulla scia buia del corridoio cercando di soffocare le risa gaudenti. Si compone il codice, lentamente si apre la porta e chi ci appare? Un guerriero in pensione, che invece della spada sguainata, si lascia cullare dalla TV accesa. Di fronte a tante grazie o dis-grazie ha un attimo di smarrimento, fino a quando non inizia a rendersi conto della situazione, soccorso forse dalla memoria delle sue affermazioni.

“Aiuto, Lorella aiuto”. La notte (dei sensi) è calata su Pier le séducteur, le tombeur.

Con allegata documentazione.

Il guerriero scopertosi disarmato, può godersi il suo riposo, più che meritato. Alle dame non resta che tornare nei propri giacigli e lasciar trascorrere la notte senza colpi di scena.

E infatti la notte trascorre tranquilla, per tutti o quasi, ma non vogliamo approfondire.

Al mattino ci aspettano gli altri mercati, sembra una situazione nella quale scorre più vita, c’è sicuramente una tensione diversa rispetto al giorno prima, i nostri canti e balli fra le bancarelle sono seguiti da distribuzioni di depliant per l’elezione dei deputati del parlamento francese. Dappertutto c’è fibrillazione e movimento; è un passaggio importante per il futuro francese, la posta in gioco è alta e le parti politicamente interessate non intendono perdere l’occasione di far sentire la loro voce.

« Les droits humanitaires vous les connaissez! » mi sollecita una ragazza al mio rifiuto di prendere il volantino, perché non mi interessa il voto. Mi vergogno un po’ e cercando di farmi perdonare ho accetto il volantino che non è per questo o quel deputato, ma semplicemente una riflessione sui diritti umani, proprio come aveva cercato di spiegarmi la giovane alla mia esitazione, di fronte al suo materiale pubblicitario.

La passeggiata in mezzo alla gente, che ci osserva divertita, ha il suo momento culminante in un androne con una sfera ruotante, un universo in una galassia di acqua. Il cerchio dei musicisti avvolge il globo di marmo, mentre i ballerini si intromettono tra i passanti chiudendo così il girotondo intorno a questo  piccolo mondo che lentamente si incammina verso la destinazione di sempre: il negozio, il caffè, la propria casa. Sarebbe bello potersi illudere di aver reso diversa questa giornata.

È l’ora del pranzo; come al solito siamo affamati, come al solito siamo trattati da re. Sarà difficile abbandonare lo stile di vita acquisito in appena due giorni. Ancora si mangia. Con noi, ma in un altro tavolo, il sindaco di Rimini, Ravaioli con signora, promotore del gemellaggio insieme alla provincia, attorniato dalle autorità locali. Noi siamo con i nostri due accompagnatori, Georges e Jacques, che non ci mollano e si preoccupano che tutto fili a puntino. Ancora si balla, si canta. Io non ho recuperato pienamente la voce, ma mi fanno esibire ugualmente con il canto “LA MONACA” abbassato di 2 toni, forse. Il coro degli uomini cancella le crepitazioni della voce ancora traballante e malconcia.

Riusciamo a creare un’atmosfera conviviale e in poco tempo le danze e il canto ci fanno ritrovare seduti in un unico cerchio ad ascoltarci. Emoziona Pierre con la sua serenata; a tutti sembra di ascoltarla sempre per la prima volta.

L’orologio torna scandirci l’appuntamento pomeridiano delle celebrazioni del 40° del gemellaggio Rimini Saint Maur; è un momento importante, ma la pioggia costringe ad una modifica del calendario delle manifestazioni. Io temo di avere la febbre, sento freddo e la voce è ripiombata nel buio. Decido di rimanere sul pullman per non aggravare la situazione. Georges, molto amorevolmente mi porge una coperta. Riesco ugualmente ad ascoltare le musiche delle danze e la voce di Gianni che echeggia nell’aria melodiosa e squillante.

Gli ombrelli variopinti regalano squarci di colore che sovrastano il grigiore della pioggia: questo vedo dall’alto del finestrino.

Grondanti, e carichi rientrano gli artisti sul pullman. Si  parte per l’hotel.

   

E’ l’ora della cena, questa volta in un ristorante marocchino dalle luci soffuse e dai colori caldi, sensuali; la richiesta di anticipare l’orario già preannunciata con una telefonata mette un po’ in crisi il proprietario. Jacques gli contesta la mancata promessa, ma non riesce ad ottenere granché: sorge un battibecco e in ogni caso si aspetta. Nell’attesa mi godo l’atmosfera orientaleggiante del locale immaginando in qualche angolo Sharazade e le storie che la tengono viva.

La fame all’inizio non è tanta, la curiosità di sapori a cui non si è abituati è tentatrice e alla fine ha il sopravvento. Il rito del the versato con maestria alla maniera araba è il saluto e l’omaggio finale del proprietario.

All’ultimo minuto mi sono resa conto che Pierrik ci avrebbe riportato a Parigi. Il ritorno in metrò.

 

Parigi val bene un metrò!!!!!!!!!  Paris vaut bien un  « metro »

 

Qualcuno ha detto: « Parigi val bene una messa » Per Parigi si è disposti a tutto, pur di immergerci nell’incantesimo delle sue notti, nella magia dei suoi vicoli, nella poesia che si respira nel surrealismo pittoresco di personaggi che appaiono, scompaiono e ricompaiono in scena, come in un teatro, nei silenzi peccaminosi di amanti. Eh sì, sono a Montmartre con Yulko ed Ermanna. Maestosa la cattedrale si staglia contro la parete blu della notte, il vento implacabile, tagliente ferisce i volti, mentre la tenera immagine di Amélie tiene viva la commozione di Yulko che la segue mentre restituisce il libro e se ne va, ignara della bellezza che sta per sorprenderla. È lì che Amélie incontra l’amore, quell’amore di cui è sempre stata portatrice e che si manifestava nella meraviglia per le piccole e semplici cose.

Lo stupore si accende, quando ci avviciniamo alla piazzetta brulicante nella quale tanti bohémien hanno offerto lo spunto a pittori, musicisti e poeti.

I ritrattisti, api al miele, si avvicinano a quei volti, espressioni che meritano di essere immortalate in tratti con carboncino. Convincono. Ed ecco Gianni, Giuseppe ed Angela con i loro lineamenti, nero su bianco. A Gianni sono persino spuntati i capelli. Licenza d’artista, s’intende.

Il freddo induce la maggior parte della compagnia a ritirarsi in un bar dalle pareti di cellophane. Io e Catia preferiamo affrontare il freddo ed esplorare la piazza.  Abbiamo una rosa in mano, un gentile omaggio di Yulko, direttamente e rigorosamente da Montmartre, Place du Tertre. Ci inoltriamo in questo angolo di Paradiso dove il piacere, la precarietà e la libertà sono valori e scelte di vita. Ci distrae un cameriere all’ingresso: ci fa cenno di non entrare. La rosa che teniamo in mano ci dona un’aria gitana. Non ci scomponiamo e continuiamo il nostro giro. Vedo la soffitta di Mimì, il cafè dove Musetta, donna dai facili costumi, seducente e civettuola intona: “Quando m’en vo, quando m’en vo soletta per la via, tutta la gente sosta e mira  e la bellezza mia tutta ricerca in me da capo a piè…..”

Non puoi stare a Montmartre  senza ascoltare la Boheme. Dall’attico di Mimì scendono le note e camminano con te nelle vie, negli angoli più intimi, nei cafè più libertini <<Vivo sola, soletta là in una bianca cameretta:
guardo sui tetti e in cielo; Ma quando vien lo sgelo il primo sole è mio, il primo bacio dell'aprile è mio!.......>>. Ci sentiamo tutti poeti, pittori, attori.

 

Alle 24 passa l’ultimo metrò: è sempre l’orologio che ci tarpa le ali. Dobbiamo ripartire in fretta, Jacques offre a tutti un passaggio con la sua auto, ma può far salire solo quattro persone alla volta. Altri parlano di prendere un taxi. È il turno mio, di Ermanna, di Yulko, di Nino e Domenico. La magia continua con il passaggio dell’auto davanti al Moulin Rouge, il simbolo della passione, della trasgressione, del peccato. La ruota rossa del mulino lentamente si allontana dalla nostra visuale, ma rimane impressa la sua immagine sfarzosa, ammiccante, licenziosa.

Eccoci alla stazione, non ci resta che aspettare gli altri. Mentre attendiamo l’ultimo gruppo, Nino e Domenico vanno a cercare l’ingresso e non sembrano preoccupi quando tornano; in realtà hanno trovato chiuso. Per guadagnare tempo si acquistano i biglietti per tutti.

Perché tarda ad arrivare il gruppo di Giuseppe? Che è successo? Nel vortice di telefonate concitate, corse all’uno e l’altro capo della stazione metropolitana, ci rendiamo conto che non facciamo in tempo ad aspettare l’ultimo gruppo e ci avviamo ai binari.

Dietro abbiamo il teatro dell’Opera. Non troviamo l’ingresso. Saliamo, scendiamo, prendiamo l’ascensore, usciamo, risaliamo, troviamo un’altra rampa di scale, ma niente da fare, i binari non si vedono. Yulko zoppicante trova il tempo di scattare le foto. Non so come, riusciamo a raggiungere il famoso binario, ma il metrò, l’ultimo, è partito un minuto prima, con il gruppo che l’ha fatto perdere: Giuseppe & company. Eppure non c’è niente di più facile che girare Parigi in metrò. Il resto è storia nota.

Cominciamo a realizzare sul rischio che stiamo correndo: vedere l’alba parigina! Pierre non ha ancora smesso di ridere.

 

La fortezza illuminata di Vincennes, dove ci ha portato e lasciato il metrò successivo, assiste alla nostra esilarante capacità di saperci divertire con la prospettiva di una notte all’addiaccio, scongiurata però dall’arrivo di tre taxi, chiamati ormai senza speranza, dopo il passaggio del pullman di linea, l’ultimo. Uno dei taxisti mi ricorda il film “C’era una volta in America”: stesso portamento, stesso cappellino, stesso taxi, forse. Comunque salgo su un altro. Dritti, dritti e in fila indiana i tre ci conducono all’hotel Etap, poi, lentamente, svaniscono nella notte. Parigi val bene un metrò…….perso.

Mi viene un flash: durante uno dei nostri viaggi col pullman ho osservato una via: Rue des Américains. Un riferimento che il taxista ha apprezzato, facilitando la ricerca di SUCY en Brie.

È finita e siamo felicemente a casa, chiassosi con la smania di raccontare in anteprima l’accaduto e le nostre versioni sulle colpe e responsabilità, degli altri, naturalmente. Il nostro baccano richiama l’attenzione della polizia del luogo. Tutto a posto, italiani in vista.

 

Lunedì 28 maggio

Non amo gli addii, c’è sempre qualcosa che ti manca, qualcosa che avresti voluto fare, ma ti è sfuggito, allora mi congedo con un augurio “JE ME SOUHAITE  DE TE RENCONTRER ! “      

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