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Arianna diede un ultimo colpetto con la punta del ferro da stiro per far scomparire una minuscola piega all’altezza della spalla. Quindi prese la giacca con estrema cautela, quasi si trattasse di una preziosa reliquia, e la appoggiò delicatamente sull’appendiabiti adatto, quello fatto apposta per mantenere intatta la forma delle spalle senza farle penosamente cadere verso il basso. Agganciò l’appendiabiti a un’anta dell’armadio, in modo che la giacca appena stirata si rinfrescasse all’aria.
Tornò verso l’asse da stiro e prese con delicatezza la camicetta bianca. L’occhio si posò sullo stemma ricamato sul petto, dalla parte sinistra, all’altezza del cuore, dove di solito le magliette portano i marchi delle case di abbigliamento sportivo. Il fine stemma ricamato in blu aveva un disegno semplice ed elegante, identico a quello appuntato sul taschino della giacca. Era lo stemma di uno dei più antichi e prestigiosi circoli tennistici della città e di tutto il Paese, quasi un distintivo di nobiltà.
Arianna cominciò a stirare con cura la camicetta. Doveva fare un lavoro impeccabile, perché ci teneva moltissimo che suo fratello Rinaldo fosse perfettamente in ordine alla festa del circolo.
Il prestigioso club tennistico festeggiava infatti i cinquant’anni di vita del celebre torneo giovanile, riservato ai ragazzi sotto i sedici anni, che era il fiore all’occhiello dell’antico circolo e che aveva dato notorietà internazionale a questa gloriosa società sportiva. Rinaldo era un po’ la star dell’evento perché era stato lui, dodici anni prima, l’ultimo tennista italiano ad aggiudicarsi la vittoria nel torneo: un grande avvenimento, perché era raro che vincesse un tennista italiano e solo un’altra volta, nei primissimi anni, aveva trionfato un allievo del circolo.
Per questo Rinaldo doveva essere in perfetto ordine. Doveva essere bello ed elegante, visto che tutti gli occhi sarebbero stati per lui.
Era un grande giorno, e Arianna era commossa. Aveva quasi perdonato ai dirigenti del circolo di essersi dimenticati di Rinaldo per tanto tempo, anche perché comprendeva benissimo il motivo di questa dimenticanza, pur non potendolo giustificare.


Mentre rifiniva il colletto della camicetta, Arianna ricordò che anche lei, un tempo, aveva fatto parte del celebre circolo tennistico e che anche lei aveva indossato una maglietta leggermente scollata, elegantemente femminile, con lo stesso stemma.
Anche Arianna, che aveva solo un anno più di Rinaldo, era stata una discreta giocatrice. Non aveva raggiunto grandi risultati, ma se la cavava abbastanza bene e si divertiva molto a praticare questo sport; il fatto di non essere una grande promessa le permetteva di giocare con scioltezza, senza sentire quella pressione che condizionava le sue coetanee più promettenti.
Aveva smesso giovanissima, appena compiuti i quindici anni, quando in famiglia si erano resi conto che la vera grande speranza sportiva di casa era Aldo (così i genitori chiamavano, da sempre, suo fratello Rinaldo). Il ragazzo non era soltanto un buon giocatore, ma un vero talento: gli allenatori e i responsabili del circolo incoraggiarono i genitori a favorirne la carriera, a fare in modo che si potesse dedicare quasi esclusivamente al tennis, perché sostenevano che avrebbe potuto diventare uno dei primi dieci giocatori al mondo.
Appena Rinaldo ebbe concluso le medie, ci fu una riunione di famiglia. Tutti convennero che era opportuno che Arianna completasse gli studi, prendendo in fretta il diploma di ragioniera e lasciando perdere il tennis. Il sogno dei genitori era che Aldo diventasse un campione, ma ci tenevano a curarne personalmente la crescita e la carriera sportiva, evitando di mettersi in mano a manager e procuratori inutili e costosi, che i Botti (questo era il cognome della famiglia di Arianna e Rinaldo) giudicavano delle vere e proprie sanguisughe e dei parassiti.
Così, i genitori si erano limitati a ingaggiare un allenatore personale per Aldo, uno dei più quotati allevatori di futuri campioni, e per il resto si erano affidati ai programmi stabiliti dai dirigenti del circolo, che ricevevano i loro stipendi grazie alle quote pagate dai soci e ai contributi della federazione nazionale. Poiché tutta la famiglia Botti era associata al circolo, i genitori ritenevano di poter dire la loro circa le scelte dei dirigenti e la pianificazione della carriera di Aldo.
Era sembrata a tutti la scelta più logica, perché i Botti erano benestanti, ma non ricchi, e la luminosa ascesa del figlio, che si preannunciava irresistibile, rappresentava anche un investimento economico per tutta la famiglia.


Arianna terminò di stirare la camicetta e la appese a prendere aria accanto alla giacca. Era ancora presto per cambiarsi e indossare il completino che avrebbe sfoggiato alla festa del cinquantenario.
Continuò allora a inseguire il filo dei ricordi. Quasi meccanicamente aprì un cassetto, estrasse alcuni album di fotografie, aprì il più vecchio e si fermò a guardare.
Erano le immagini di dodici anni prima, che immortalavano tutte le tappe di Rinaldo verso la vittoria nel prestigioso torneo giovanile: lo si vedeva in azioni di gioco, mentre accordava la racchetta, mentre salutava gli avversari sconfitti e, infine, mentre levava al cielo la coppa.
Le fotografie ritraevano un ragazzo alto e muscoloso, e Arianna notò subito che già a quell’epoca Aldo era molto cambiato ed era assai diverso dal ragazzino che alla fine delle medie si era dedicato anima e corpo al tennis.
In piena adolescenza Aldo era uno spilungone secco secco, dal fisico quasi sgraziato. Con la racchetta in mano, si trasformava in un airone elegantissimo: aveva finezza nel tocco, grazia nei piegamenti, agilità negli spostamenti; per giunta, aveva uno splendido senso tattico e, durante gli scambi di gioco, sapeva sempre trovare la soluzione migliore.
Certo, era soprattutto in giocatore dotato di grande tecnica, mentre, magro com’era, non poteva farsi valere sul piano atletico. L’allenatore e i dirigenti del circolo dicevano che aveva poca esplosività nello scatto, che non aveva nerbo nelle gambe, che le spalle strette erano troppo gracili e non gli permettevano di farsi valere nel servizio non abbastanza potente.
Così, verso i quindici anni, i dirigenti avevano convinto Rinaldo a sottoporsi ad alcune “cure ricostituenti”, come le chiamavano loro. Naturalmente, avendo a che fare con un minorenne, avevano puntualmente informato la famiglia. Il ragazzo iniziò una cura ormonale e prese a consumare una gran quantità di integratori di tutti i tipi: tutte sostanze lecite, almeno stando a quanto dicevano i medici e l’allenatore, ma assunte in dosi che ad Arianna fecero davvero impressione.
Effettivamente, nel giro di qualche mese, Aldo aveva cambiato aspetto. Come rammentavano le foto, al grande torneo era arrivato in splendida forma, più solido, più piantato sulle gambe, più potente nei colpi. E, sfoggiando la sua grande tecnica naturale e la nuova vigoria fisica, aveva dominato gli avversari.


Secondo tutti gli esperti, la vittoria nel prestigioso torneo giovanile avrebbe lanciato Rinaldo verso una trionfale carriera costellata di successi. Invece – come avrebbe scritto qualche tempo dopo un giornalista di una rivista specializzata, in vena di slanci poetici – fu soltanto “una sfolgorante alba cui non seguì una lunga giornata radiosa, ma un repentino e imprevedibile tramonto”.
Compiuti i sedici anni e passato fra gli Juniores, Aldo non riuscì a emergere come tutti si aspettavano. Giocò moltissimi tornei, quasi tutti sui campi in terra battuta dell’Italia, della Spagna, della Francia meridionale e di qualche altro Paese mediterraneo. I lunghi scambi, tipici delle partite su questa superficie, richiedevano una resistenza fisica e una potenza che Aldo, nonostante tutto, non aveva.
Di conseguenza, allenatore e staff medico decisero di intensificare le cure, aumentando ulteriormente le dosi di ormoni e di integratori. Aldo sviluppò una grande massa muscolare, che però faticava a mettere in moto; inoltre, si appesantì e i suoi movimenti persero scioltezza e naturalezza.
Arianna, che di tennis ne capiva, riteneva che sarebbe stato più opportuno cambiare programmazione e mandare Aldo in America o nel Nord Europa a giocare su superfici sintetiche più veloci, dove la rapidità e la tecnica contano più della potenza e della resistenza. Ma né i dirigenti del circolo né la famiglia ritennero utile investire denaro per mandare il ragazzo lontano da casa per lunghi periodi.
Lentamente, Rinaldo Botti si avviò una carriera mediocre: qualche successo parziale, nessuna vittoria importante, poche e infruttuose partecipazioni ai tonei di maggior prestigio. E il talento tanto promettente cominciò in breve tempo a sfiorire.


Arianna prese un album più recente e continuò a sfogliare lentamente le pagine. Le foto mostravano ora un giovane robusto, ben sviluppato, ma dall’aria triste. Alcune non le dicevano nulla, di altre riconosceva l’ambientazione e indovinava a quale torneo si riferivano.
Le immagini ripercorrevano i primi passi di Aldo nel circuito professionistico, che aveva cominciato a frequentare appena compiuti i vent’anni. I grandi sogni erano ormai tramontati, e il giovane era considerato dagli addetti ai lavori un giocatore di seconda fascia. Molti suoi coetanei, che da adolescente batteva regolarmente, si erano già installati ai vertici delle classifiche mondiali, mentre lui aveva irrimediabilmente perso il treno verso il successo.
In quasi tutte le fotografie si vedevano anonimi campetti in terra battuta, che richiamavano alla memoria di Arianna il lungo e infruttuoso pellegrinaggio fra tornei minori, alla ricerca di qualche successo che potesse rilanciare il promettente Rinaldo Botti tra le speranze del tennis italiano. Ogni tanto, sullo sfondo, appariva qualche particolare che consentiva di riconoscere una sede più prestigiosa: Montecarlo, Kitzbuhel, Barcellona...
Le cose non erano andate bene: Aldo perdeva quasi sempre nei primi turni e la sua classifica non migliorava. La ragazza ricordava bene alcune sfortunate partite cui aveva assistito, con il fratello inutilmente impegnato a rincorrere in ogni angolo del campo le palle lente e precise scagliate da avversari infinitamente meno dotati dal punto di vista tecnico, ma capaci di correre senza mai fermarsi e palleggiare per ore rimandando invariabilmente la palla al di là della rete.
La famiglia, su pressione di Arianna, aveva fatto un estremo tentativo, mandando a proprie spese il ragazzo per un mese in America, dove aveva giocato un paio di tornei di medio livello e le qualificazioni per accedere al tabellone principale dell’Open degli Stati Uniti. Ma Aldo, da solo oltreoceano, si era smarrito e, nonostante la superficie di gioco fosse più adatta ai suoi mezzi, aveva fallito anche questo tentativo.
Durante il primo anno da professionista, Rinaldo era stato ancora costantemente seguito dallo staff medico e dai dirigenti del circolo in cui era cresciuto. Avevano continuato con le cure e il potenziamento muscolare, ma senza ottenere altro effetto che quello di fare del giovane un giocatore sempre più sgraziato e impacciato nei movimenti. Alla fine, vista la mancanza di risultati, Rinaldo Botti era stato escluso dalla lista dei giocatori seguiti dalla federazione nazionale; così, dirigenti e medici avevano smesso di occuparsi di lui, abbandonandolo al suo destino quando aveva da poco superato i ventun anni.


L’ultimo album di fotografie si apriva con le immagini di un giovane sorridente, un po’ smagrito, dall’aria più rilassata. Arianna passò con leggerezza l’indice su un ritratto del fratello, come a volerlo accarezzare.
Abbandonato dai tecnici federali, Aldo si era sentito di colpo liberato dalla grande pressione che lo aveva sempre circondato. Per molti anni tutti avevano atteso con ansia l’esplosione della grande promessa del tennis nazionale, caricandolo di attese. Poi, era arrivato il momento in cui nessuno più credeva in lui.
A quel punto Aldo ricominciò a giocare con serenità, e i suoi risultati migliorarono. Non fece nulla di eccezionale, a dire la verità, ma programmando con intelligenza l’attività, partecipando solo ai tornei in cui si sentiva competitivo, allenandosi soprattutto a migliorare la tecnica, riprese a vincere qualche partita, a superare qualche turno, a giocare persino qualche bel match in tornei di una certa importanza e contro avversari di valore.
Non diventò un campione, ma riusciva a vincere quanto bastava per intascare un po’ dei premi minori destinati a chi superava i primi turni dei vari tornei; in questo modo riusciva a pagare il suo allenatore, a coprire i costi delle trasferte e ad avanzare qualcosa per sé. In famiglia si erano dovuti rassegnare: non si sarebbero mai arricchiti grazie al figlio, ma almeno lui si sarebbe divertito e avrebbe vissuto fino in fondo la sua passione sportiva togliendosi anche qualche discreta soddisfazione.
Le cose erano andate in questo modo per quasi un paio d’anni, ed era stato un periodo tutto sommato felice, come ben ricordava Arianna che seguiva il fratello quando giocava non troppo lontano da casa.
Arianna era quasi arrivata alla fine dell’album. Osservò mestamente una foto che la ritraeva insieme al fratello al torneo di Palermo, che riconobbe perché sullo sfondo si stagliava la sagoma del Monte Pellegrino. In quell’immagine Arianna era bellissima e sorridente, mentre Aldo aveva un sorriso triste ed enigmatico.
Era proprio in quel periodo che il giovane aveva incominciato ad avvertire strani disturbi, sia quando giocava sia quando se ne stava tranquillamente a riposare. A volte gli girava la testa e gli sembrava di perdere i sensi. Altre volte era ben presente a se stesso, ma sembrava che gli arti non fossero in grado di rispondere ai comandi del cervello: non riusciva a distendere o piegare il braccio, tentava di fare un passo ed era come se gli venisse meno la terra sotto i piedi. Capitava anche che davanti ai suoi occhi si levasse un velo nero, oppure che gli oggetti e le persone gli apparissero sfuocati e dai contorni incerti.
Nella vita di ogni giorno Aldo cercava di mascherare questi momenti di difficoltà, per non allarmare chi gli stava vicino. Ma se queste sensazioni lo coglievano mentre era in campo, allora non poteva fare nulla per nasconderle: allungava in ritardo la racchetta, colpiva con forza l’aria quando la palla era già passata o doveva ancora arrivare a tiro, correva in senso opposto a quello richiesto dal gioco, si accovacciava seduto sui talloni come se dovesse riprendere fiato dopo uno sforzo immane.
Non stava bene, ed era inutile continuare a far finta di niente. A ventitré anni l’ex grande promessa Rinaldo Botti era ormai un giocatore finito, che preparava il suo definitivo ritiro.
In un primo momento, mentre ancora stava meditando se smettere o continuare a giocare, Aldo non sembrava tanto preoccupato del futuro. Non aveva studiato, perché si era sempre dedicato esclusivamente al tennis, ma era un tipo sveglio, che sapeva parlare, piuttosto brillante, ed era un intenditore dello sport che praticava. Pensava che non gli sarebbe stato difficile, chiusa la carriera di giocatore, ottenere un posto di commentatore presso qualche giornale o tv.
L’ultima foto dell’album, non per caso, ritraeva Rinaldo mentre rispondeva, dopo una delle sue ultime partite, alle domande di una nota intervistatrice televisiva. E sembrava quasi che non stessero parlando dell’incontro appena terminato, quanto piuttosto del futuro professionale dell’ex tennista.


Arianna richiuse il libro dei ricordi e ripose gli album nel cassetto.
Era venuto il momento di portare ad Aldo la camicetta e la giacca, poi sarebbe andata a farsi una doccia e si sarebbe anche lei agghindata per l’appuntamento mondano che li attendeva.
Prima di pensare a se stessa, però, avrebbe dovuto aiutare il fratello a vestirsi, come faceva ormai da tre anni. Davvero, infatti, aveva dovuto dedicare gran parte della propria vita a Aldo, ma non facendogli da manager come avevano sognato i loro genitori quando i due ragazzi erano ancora adolescenti.
Dopo il ritiro, la salute di Aldo aveva continuato a peggiorare. I sintomi erano sempre gli stessi, ma si presentavano con maggior frequenza man mano che il tempo passava. Questo gli aveva tra l’altro impedito di intraprendere la professione giornalistica, cui aveva dovuto rinunciare dopo alcuni penosi tentativi: a volte non riusciva a parlare e si impappinava, se doveva scrivere veniva assalito dal panico e non riusciva a dare un filo logico ai pensieri, faticava a battere correttamente sulla tastiera, non riusciva a tenere fermamente in mano una biro.
Erano stati due anni terribili, durante i quali i medici avevano intuito il male che affliggeva Aldo, ma avevano esitato a pronunciarsi. Alla fine, si erano rassegnati a diagnosticargli apertamente quella sindrome che tra gli sportivi è nota come “morbo di Lou Gehrig”, causata dall’abuso di integratori e di cure ormonali.
Apppena diagnosticato il male, le condizioni di Aldo si aggravarono progressivamente: paralisi totale delle gambe e parziale delle braccia, incapacità di parlare, perdita di controllo delle funzioni corporali.
Ormai da tre anni Aldo era inchiodato sulla carrozzella, incapace di muoversi da solo. E nessuno era in grado di stabilire con certezza quali fossero le sue condizioni cerebrali, di che cosa avesse percezione e coscienza.
Arianna entrò nella stanza del fratello, che stava seduto sulla sua carrozzella e piegò leggermente il capo in direzione della porta.
Per un attimo ad Arianna parve che Aldo le sorridesse, ma poi si rese conto che sul viso del giovane era disegnata la solita smorfia inespressiva, con quell’angolo destro del labbro superiore innaturalmente rialzato che poteva essere scambiato per un sorriso come per un cenno di disgusto.
Arianna si avvicinò per aiutare Aldo a indossare la camicetta e la giacca, impeccabilmente stirate. Lui la guardò a lungo, e Arianna ebbe la certezza che qualcosa, nella mente del fratello, ancora funzionava. Perché, quando videro gli abiti con lo stemma del prestigioso circolo tennistico, gli occhi di Aldo si riempirono silenziosamente di lacrime.  


   

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