CORPO DI CRISTO ED EUCARISTIA
Xavier Léon-Dufour
 
(Gesuita, professore di Sacra Scrittura e direttore della collezione "Parola di Dio", Parigi)
Interpretazione della Cena del Signore contenuta nella Prima Lettera di Paolo ai Corinti
Congresso dell'ACFEB, Tarbes (1981)
[Adattamento e traduzione dal francese di Francesco Carpi]


In 1 Cor. 10,18, vi è scritto che «Coloro che mangiano le vittime immolate sono in comunione con l'altare» e che la «partecipazione» al pasto culturale origina «comunione». 
Su che cosa si fonda questa affermazione?


Questo effetto trova la sua origine in un principio ereditato da Israele. 
Un legame unisce insieme i convitati e la divinità alla quale vengono offerte le vittime.
 
In che cosa consiste tale «partecipazione», designata con i termini greci di «koinônìa» e di «mét-ékhô»? 
Si può estendere l'idea di «partecipazione» fino a quella di «comunione»?

Nel significato greco abituale, la parola koinônìa significa che esiste una certa relazione tra delle persone a proposito di qualche cosa, una comunione di interessi o di pensiero in grado di costituire un tipo di società. 
Impiegato da solo, nel Nuovo Testamento, il termine può anche designare la «comunità di fede e di beni» che unisce i primi cristiani (At. 2,42) (...) 
In Paolo, che usa il termine secondo il suo significato greco corrente, la comunione con il Cristo esprime la «koinônìa del Figlio», ovvero «koinônìa del sangue, del corpo di Cristo». 
L'espressione sembra allora andare al di là del significato di semplice partecipazione per designare un'unione molto intima, una comunione veramente personale tra il fedele e Gesù Cristo, sia immediata, sia attraverso il pane e il calice. 

Si è in grado di precisare quale sia la natura di questa comunione al corpo e al sangue di Cristo?
 
Innanzi tutto, bisogna guardarsi bene dal considerare il corpo e il sangue come delle sostanze destinate ad essere assimilate, in quanto ciò significherebbe intendere le parole di Paolo in senso ellenistico, anziché nel loro significato chiaramente semitico: corpo e sangue designano gli aspetti attraverso i quali il fedele entra in comunicazione con la persona stessa del Cristo, il Crocifisso-Resuscitato.
La stessa affermazione di Paolo che pone l'accento in modo diretto sull'atto del benedire il calice e il pane, sembra dare rilievo non tanto alla modificazione degli elementi quanto la relazione delle persone. 
Bisogna, perciò,  ricercare altrove, e non in una qualche «manducazione del Cristo», un principio che ci consenta di comprendere la nuova comunione stabilita dalla liturgia eucaristica. (...)
Paolo ci indica la strada che porta a un'autentica comprensione della «comunione». 
Egli suole ripetere che i credenti sono «morti con Cristo» (Rm. 6,8 - Col. 2,20), «co-crocifissi» (Rm. 6.6 - Ga. 2,19), «resuscitati con lui» (2 Cor. 4,14), che «noi viviamo con lui» (Rm 6,8 - 2 Cor. 13,4 - Col. 2,13 - 1 Ts. 5,10), di modo che la nostra vita, che ora sta «nascosta in Dio con Cristo», sarà «una vita per sempre con lui» (Fil. 1,23 - Col. 3,3 -1 Ts. 4,17).
Pur affermando la ricorrenza di una profonda comunione, la «mistica» paolina rispetta la differenza esistente tra le persone.
Questa realtà è ben descritta da Paolo quando, in nome di tutti i credenti, dichiara:
«Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me. Quanto alla mia vita presente, nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e si è dato per me» (Gal 2,20).
In questo famoso testo, Paolo contrappone non già la vita presente a quella futura ma, riferendosi alla sola vita presente, la vita prima e la vita dopo l'adesione a Cristo. 
La nuova vita non annulla l'«Io» sostituendogli la divinità; essa consiste in una irruzione continua della vita di Cristo in un «Io» che da quel momento, lungi dal dissolversi, si rinnova continuamente. Cristo è oramai l'unica fonte di vita e di esistenza del credente.
La comunione sacramentale, benché prodotta per mezzo di riti, appartiene allo stesso ordine. Ciò, però, esige una precisazione. 
Che non si tratta né di magia né di teofagia, lo conferma il riferimento di Paolo ad Israele nel deserto. 
Evidentemente, sia nell'uno che nell'altro caso si tratta di manducazione e, anche se ad un diverso livello, di «sacramenti»: 
«Tutti hanno mangiato lo stesso cibo spirituale e bevuto la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti alla stessa roccia spirituale che li accompagnava. Quella roccia era il Cristo» (1 Cor 10,3-4). Il mangiare di cui Paolo parla è un mangiare «pneumatico», che non ha niente da vedere con una qualche assunzione della divinità. 
La manna, nutrimento celeste, prefigura l'Eucaristia, come lascia intendere la menzione di Cristo, che non era - si noti - la bevanda, ma la roccia da cui questa scaturiva.
Il culto che il cristiano pratica è dunque «spirituale» nel senso che, lungi dall'essere di tipo magico, è un dono dello stesso Signore resuscitato. 
Se «tutti siamo stati dissetati dallo stesso Spirito» (1 Cor 12.13), ciò accade perché è il Signore resuscitato che dona lo Spirito a tutti coloro che partecipano all'atto eucaristico.
Tale è il senso della koinônìa che unisce il credente a Cristo, attraverso il pane e il calice eucaristici.
Nulla si dice riguardo ad una qualche trasformazione del pane e del calice nel corpo e nel sangue del Cristo. Tutto l'interesse di Paolo è concentrato sull'effetto del rito. Per l'Apostolo, l'essenziale si trova nella comunione personale che intensifica la liturgia sacramentale.

L'effetto della comunione che si realizza a livello individuale, si estende a tutta la comunità considerata nel suo insieme?

L'azione unificante di Cristo trasforma non soltanto l'esistenza individuale ma anche quella della comunità tutta intera. Di conseguenza, ciò che fonda questa comunità, non è tanto la circostanza di trovarsi riuniti ad una stessa tavola, quanto il carattere unico del Pane che in essa si riceve e il fatto che attraverso questo dono, si riceve il Cristo Signore in persona. 
Tale è la funzione dell'Eucaristia che Paolo sottolinea.

Se l'Eucaristia è caratterizzata da questa funzione unificante e costituente, che cosa la distingue dal battesimo?

Il battesimo ha formato il corpo di Cristo, l'Eucaristia ne costituisce l'alimento. Nel celebrarla con fede, i credenti intrattengono e consolidano la loro unione personale con Cristo e divengono insieme, per ciò stesso, la comunità che appartiene a lui, e solo a lui, per sempre. 
Questo è il doppio frutto dell'Eucaristia: un'intima unione con il Signore resuscitato, e la realtà vivente di una Chiesa-comunità il cui principio di coesione è costituito dalla persona dell'unico Signore, vivente per sempre.

L'unione personale che si realizza con il Signore attraverso l'Eucaristia, non può, dunque, prescindere dal sentimento di unione che deve esistere tra i singoli che compongono la comunità...

Una cosa è certa: se non si rispettano gli altri, si mangia il pane e si beve il calice del Signore indegnamente, rendendosi con ciò colpevoli verso il corpo e il sangue del Signore. 
L'Eucaristia presuppone e implica uno «stare insieme», un «fare corpo» dell'assemblea. 
Si realizza così il senso di quel «mangiare e bere» che, lungi dall'essere semplice alimentazione, è incontro con il Signore e con i fratelli.

Che cosa rappresenta la Croce per Paolo?

Il fatto che egli non parli della «morte di Gesù», ma della «morte del Signore», evidenzia il suo intendimento di non sottolineare l'aspetto doloroso della Passione. 
Nella Croce egli vede, infatti, il trionfo di Dio sulla morte, per il fatto che Cristo, che ha offerto la sua vita per l'amore che nutre per noi, è stato resuscitato, quale primizia di un moltitudine di fratelli. Con l'espressione «morte del Signore», l'Apostolo esprime in modo sintetico la salvezza che Gesù ha donato a tutti gli uomini, tenendosi perfettamente fedele alla sua missione. 
Nello stesso modo, il rito battesimale simbolizza, agli occhi di Paolo, sia la morte all'universo del peccato quanto la resurrezione alla vita.

Come mai Paolo riprende in extenso il racconto dell'Istituzione?

Senza dubbio non soltanto per imporre ai Corinti la semplice prescrizione dell'ultimo pasto di Gesù, inquadrata dalle azioni riguardanti il pane e il calice; ma più verosimilmente per stabilire la differenza tra il fatto di riunirsi per mangiare e bere e l'esigenza che ciò deve realizzarsi in memoria di Gesù. 
Infine, se Paolo chiede ai Corinti che in occasione della celebrazione della Cena venga effettivamente proclamata la morte del Signore e che l'assemblea sia cosciente che tale è il senso dell'incontro eucaristico, ciò non è solo per ricordare l'atto passato della salvezza, ma altresì, per invitare a lasciare agire in sé la morte al peccato, questa dimensione «mortifera» che deve manifestarsi nella vita del credente. 
Per Paolo, come per la tradizione, il pasto eucaristico fa costantemente «passare» dalla morte alla vita, realizzando nel tempo il mistero inaugurato dal battesimo.

In che senso si può affermare una identificazione tra il pane e il corpo di Cristo?

Designando il pane che distribuisce con «Questo», Gesù non considera il pane in quanto tale, in quanto materia, ma il pane preso, offerto a Dio e spezzato. Tale interpretazione viene chiaramente suggerita dal fatto che «questo» non è la traduzione di un pronome maschile - che sarebbe stato usato se si fosse strettamente trattato del pane in sé (houtos ho artos), -, ma un neutro, destinato a ricapitolare l'azione antecedente. 
Il neutro greco «touto», usato in luogo del maschile «houtos», non consente di identificare il corpo di Gesù con la stessa materia del pane; il neutro ha come funzione quella di riassumere l'azione precedente e di qualificare così il pane in un contesto speciale. 
Si tratta, dunque, del pane già sottratto al mondo profano e simbolizzante, alla maniera ebraica, la comunità dei convitati.
Con l'espressione «questo», la comunità, unendosi in una comune azione, riceve da Gesù il medesimo nutrimento.
Dicendo «il mio corpo», Gesù non intende semplicemente parlare del corpo che egli ha, ma del corpo che egli è: conformemente all'antropologia biblica, egli considera la propria persona vista nel rapporto che essa assume nei confronti degli altri e con l'intera creazione. 
L'espressione il mio corpo offerto «per voi», infine, non deve necessariamente essere interpretata come «sacrificio di espiazione»
L'interpretazione cultuale-sacrificale della morte di Gesù è la meno frequente in Paolo; è l'amore che rende conto del dono di sé fatto da Gesù: «Gesù Cristo mi ha amato e volle morire per me»
(Gal 2,20 - Rm 5,8 - Gv 15,13 - Gv 17,19). 
Nel dire «il mio corpo... per voi», Gesù non esprime, dunque, in modo immediato che il suo corpo sta per essere offerto in sacrificio d'espiazione, come «unica» vittima  per «tutti». 
Certo, considerato il contesto della morte in cui essa si trova, la formula può assumere questo significato; ma la simbologia del nutrimento impone un'altra interpretazione: l'espressione significa immediatamente: «Io mi offro in nutrimento perché voi viviate»; tale è il senso di «in vostro favore», perché se si mangia, è per vivere. 
Gesù dichiara che, attraverso la sua morte, accettata secondo il disegno di Dio e per amore di noi tutti, ha il potere di continuare a restare il nostro nutrimento di vita nell'universo della nuova Alleanza.

Di che natura è l'affermata identificazione tra il pane e il corpo di Gesù? 
Si tratta di una semplice comparazione, ovvero di una vera identificazione, e di che genere?

Gli esegeti sono d'accordo nell'inserire l'azione globale di Gesù sul pane e sul calice in un tipo di comportamento proprio ai profeti ricorrente nella Bibbia. 
Sovente essi esprimono i loro annunci con dei gesti che sono nello stesso tempo figura e figura efficace
(Atti 21,11 - Ez 5,5 - 2 Re 13,19).
Da questa dimensione profetica, deriva che il verbo «essere», riferito alla parola pane, non stabilisce una corrispondenza materiale immediata fra il pane e il corpo. 
Secondo l'esegeta cattolico J. Dupont «In base al modo di pensare di un semita e della Bibbia, il senso più naturale di tale espressione riguardante il pane dovrebbe essere: «Questo significa il mio corpo», «Questo rappresenta il mio corpo».

Ma allora, si può ancora parlare di «presenza reale»?

Per giustificare e fondare questa dottrina tradizionale, lo stesso autore ricorre a Paolo, secondo il quale il pane è «comunione al corpo di Cristo» (1 Cor 10,10), ed a Giovanni che afferma «Il mio corpo è vero cibo» (Gv 6,55).

D'accordo, ma questo contributo esterno alle parole dell'istituzione è in grado di spiegare in che cosa consista la «conversione» del pane in corpo?

L'assunto che precede non è sbagliato, ma solamente incompleto. La parola e l'azione di Gesù si inseriscono bene nel genere del mimo profetico e ne condividono le caratteristiche in termini di efficacia: mangiando questo pane i discepoli si uniscono al «corpo» di Gesù. 
Il segno pane produce la comunione con Gesù.

Per quanto riguarda il «pane», inteso come significante, che cosa si può esattamente dire?

Per rispondere alla domanda bisogna tener conto della situazione dialogale nella quale viene proferita la parola di Gesù. 
Per rendere conto di ciò, bisogna premettere qualche nozione di linguistica e di semantica. 
Una parola viene pronunciata da un «locutore» all'indirizzo di un «interlocutore». 
Essa presenta due poli, uno di determinazione, l'altro di significazione. 
Quando dico: «Questo è il mio pane», esprimo un giudizio informativo o constativo, cioè la constatazione che questo è un pane e non una pietra; il mio linguaggio è anche «performativo», cioè io invito il mio interlocutore a riconoscere che questo pane è mio e non di un altro. 
Per un verso, «determino» la natura di questo oggetto che si chiama «pane»; per un altro, «significo» al mio interlocutore che esso mi appartiene. 
Nel racconto della Cena, il dialogo è esplicito: le parole «prendete» (in Mc e Mt) e «per voi» (in Lc e Paolo) riguardano coloro ai quali si rivolge la parola di Gesù: essa non intende soltanto definire un qualche nuovo stato del pane che i discepoli dovrebbero riconoscere; essa invita gli stessi a fare qualcosa: a prendere,  ad accogliere. 
La parola di Gesù non costituisce una proclamazione in sé, ma un appello a ricevere questo pane, e dunque a diventare attori nella realizzazione dello stesso segno. 
In Luca e Paolo, la frase che segue immediatamente («Fate ciò in memoria di me»), indica come questa manducazione dovrà essere reiterata più tardi, dopo la morte di Gesù.

La situazione dialogale del testo paolino mostra che Gesù invita i discepoli a un nutrimento speciale, costituito dal suo corpo. 
Che cosa ciò significa?

E' in questo momento che il ruolo di significazione diviene preponderante nel linguaggio. 
In effetti, la stessa parola «pane» può essere caricata di diversi significati. 
Se io dico: «Ecco il pane della vita», conferisco al significante «pane» un'accezione che va al di là del suo significato naturale di nutrimento fisico, un valore percettibile soltanto da alcuni interlocutori che si riportano ad un certo modo di pensare, nel mondo della fede o in quello della Bibbia. 
Il termine si apre allora ad una molteplicità di interpretazioni e il suo significato non è più unico come nella frase «Questo è il mio pane». 
Il locutore conferisce al significante «pane» una portata non appartenente all'ordine naturale, invitando il suo interlocutore a riconoscerla ed ad entrare in comunione di pensiero con lui. 
Tutto questo ci aiuta a riconoscere il carattere «performativo» del linguaggio di Gesù: egli opera ciò che dice all'uditore.

In che cosa consiste in definitiva la trasformazione del pane in corpo?

Per rispondere a questa domanda bisogna inserire il significante «pane» del nostro testo nella categoria del simbolo
A tale proposito, bisogna innanzi tutto considerare che la parola «simbolico» non si oppone per nulla a «reale», a dispetto delle mentalità abituate ad una presentazione ontologica del mondo. Bisogna compiere una vera e propria conversione mentale cercando di cogliere ciò che distingue il simbolo dal segno. 
Qual'è dunque la natura del segno? 
Partiamo dal livello inferiore, quello del «segnale»: il significante «fumo» invita a percepire il significato «fuoco». Il fumo è segno del fuoco; fumo e fuoco sono due realtà appartenenti allo stesso ordine, esistenti indipendentemente dalla mente che li percepisce; ciò spiega perché non si può dire che il fumo «simboleggia» il fuoco.
In altri casi, il significante evoca immediatamente qualcosa di diverso, una realtà che appartiene ad un altro ordine che non può essere colta che dalla mente dell'uomo. 
Attraverso il significante «pane», posso riferirmi anziché al nutrimento ordinario ad una realtà appartenente ad un altro ordine, segreto, che io voglio «manifestare» attraverso di esso; il pane-saggezza, il pane di vita... 
Lo stesso significante mette insieme, unisce, «simbolizza» due realtà che non appartengono allo stesso livello.
Applichiamo ora queste considerazioni all'espressione concernente il pane. 
Pronunciandola, Gesù conferisce alla funzione del pane un valore supplementare. 
Questo pane continua ad essere un nutrimento terrestre dato da Dio, esso costituisce però anche un nutrimento rientrante in un altro ordine, poiché esso è indicato come corpo di Gesù. 
Il pane acquista così un valore nuovo che proviene dalla parola di Gesù, e così pure dall'accoglimento che gli viene riservato. 

E' lo spirito di Gesù che conferisce consistenza alla parola; è la mente del discepolo che, accogliendo la parola di Gesù, ne riconosce l'efficacia. 
Il pane conserva la sua funzione di pane, e in questo senso esso non è il corpo di Gesù; il pane diventa il corpo di Gesù, e in questo senso esso non è più pane ordinario.
Per Gesù come per il credente - diciamolo con una formula paradossale -, il pane eucaristico è e non è pane, è e non è il corpo di Gesù.
Il doppio valore attribuito all'unico pane, ci fa capire come in questo caso non si tratti della semplice materia che chiamiamo pane, ma di una realtà trasformata non soltanto dalla benedizione, ma più esattamente dalla parola di Gesù: «Questo è il mio corpo». 
Il senso che Gesù dà a questa parola e che il discepolo percepisce è che «il pane è il suo corpo». Nello stesso tempo, però, da un altro punto di vista, quello dei sensi e della ragione non illuminata dalla fede, il pane non è il corpo di Gesù.
Questa lunga digressione ha per effetto di sfumare il senso del verbo «essere». 
Ogni qual volta, come sovente accade, lo interpretiamo come ciò che identifica su uno stesso piano delle cose visibili, dovremmo anche ammettere che la mente dell'uomo ha la possibilità di esprimere con lo stesso verbo «essere» una identificazione con una realtà appartenente ad un altro ordine. 
Nel nostro caso si tratta del «corpo» di Gesù. 
E' chiaro che Gesù non vuole dare da mangiare il suo corpo fisico, e ciò in quanto il «corpo» non può che essere la realtà spirituale, celeste, del Resuscitato. 
Riassumendo, possiamo qualificare la parola di Gesù come una parola simboleggiante inserita in un dialogo destinato a costituire una comunità, al di là della morte del locutore.

Non vi è dunque nulla che distingua la parola eucaristica dalle altre parole simboliche?

In primo luogo, il pane eucaristico non è ridotto ad essere un simbolo tra gli altri simboli, ma esprime un aspetto del mistero della Parola di Dio che ha preso forma. 
Il secondo elemento che differenzia dalle altre la relazione simbolica eucaristica deriva dall'azione richiesta ai destinatari. 
Il fidanzato che offre un mazzo di fiori alla propria fidanzata simboleggia il suo amore attraverso questo dono; Gesù che dà da mangiare il pane simboleggia il suo amore, non con un dono che si trova al di fuori della sua persona, ma donando se stesso sotto forma di nutrimento; egli raggiunge così il livello più profondo dell'incontro: dando questo pane, egli si dà.
 
Il pane eucaristico produce l'effetto inverso della natura: se è il credente che mangia il pane, è il corpo di Gesù che assimila il credente. 
Accogliere il pane eucaristico, significa riconoscere il mistero stesso di Gesù Cristo.

E' corretto parlare di «corpo eucaristico»? 

Da un punto di vista esegetico, è meglio non parlare di «corpo eucaristico». 
Il corpo del Signore di cui si parla in 1 Cor 10-11 è il corpo personale del Resuscitato, di colui che ha attraversato la morte e che dà la vita. 
Conformemente all'antropologia biblica, il «corpo» designa la stessa persona di Gesù, il suo «io» di Signore e di Salvatore. 
Da esso distinto (a causa della doppia parola sul pane e il calice), il «sangue» intende precisare che da questo «io» discende il principio vitale comunicato ai credenti attraverso colui che ha accettato di morire per loro. 
Mai, comunque, il corpo e il sangue sono considerati come parti componenti dell'uomo Gesù.
Di fatto, però, la parola sul pane è stata sovente interpretata in modo cosificante da certi fedeli i quali, vedendo nel «corpo» la complessione materiale dell'uomo, non hanno avuto timore di identificare il pane con il corpo fisico di Gesù. 
Questo modo di vedere ha condotto in passato all'interpretazione detta «stercoraria», che faceva dell'ostia una vera «impanazione« di Gesù Cristo; che comportava nel comunicante una digestione fisica dell'organismo fisico di Gesù. E' interessante notare come i due testi paolini mettano in guardia contro tali eccessi.
In 1 Cor 11,26, il versetto che conclude il racconto dell'istituzione:
«Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi proclamate la morte del Signore...» si trovano i verbi «mangiare» e «bere». In luogo di «mangiare questo corpo» e «bere la nuova alleanza», come ci si potrebbe attendere da una lettura oggettivante di ciò che precede, si legge: «mangiare questo pane» e «bere questo calice». 
Certo si tratta del pane e del calice che sono stati eucaristizzati, ma il mangiare e il bere restano riferiti all'atto umano concernente il nutrimento naturale. Concludendo la sua frase, inoltre, Paolo non dice: «Voi divenite uno con il Signore», ma: «Voi proclamate la morte del Signore». L'Apostolo non esprime l'idea della comunione con una persona, e ancora meno quella di una assimilazione, attraverso la manducazione, ad un essere presente materialmente; egli dichiara che condividere il pasto (pane e calice) del Signore significa partecipare alla salvezza che il Cristo ci ha procurato con la sua morte.
In 1 Cor 10,16, la situazione è invertita dal punto di vista linguistico:
«Il calice sul quale pronunciamo la benedizione non è comunione al sangue di Cristo? Il pane che spezziamo non è comunione al corpo di Cristo?».
Ancora una volta si tratta del pane e del calice, ma inversamente, sono i termini «mangiare» e «bere» che risultano qui assenti: si tratta del calice «che benediciamo» e del pane «che spezziamo»; i verbi si riferiscono gesti propriamente rituali.
Paolo evita, insomma, ogni formulazione che condurrebbe ad una identificazione materializzante delle specie con il corpo e il sangue del Cristo.
 Tutto ciò non ha impedito gli eccessi «cosificanti» che, per reazione, hanno poi condotto ad altri eccessi di segno contrario.
Si può concludere affermando che il riferimento al pane apre il discepolo ad una comunione piena con Gesù e con i credenti: in quanto nutrimento, il pane conserva la sua funzione ordinaria, ma attraverso la parola di Gesù esso acquista la funzione di nutrimento celeste che alimenta la Chiesa.


Il testo che precede è stato estratto da « LE CORPS ET LE CORPS DU CHRIST DANS LA PREMIÈRE ÉPÎTRE AUX CORINTHIENS », Congrès de l'ACFEB, Tarbes, 1981 ~ Les Éditions du Cerf ~ 29, bd Latour-Maubourg, Paris, 1983 ~


Ikthys