Il dovere della verità  
~ Lutero contro Erasmo ~


Dr. Alberto Andronico 
assegnista di ricerca in Filosofia del diritto, 
Facoltà di Giurisprudenza, Università di Catania.


"Quel che m'interessava non era una filosofia dell'uomo libero - mi hanno sempre tediato tutti, quelli che vi si provavano - ma bensì una tecnica: volevo trovare una cerniera ove la nostra volontà s'articola al destino; ove la disciplina, anziché frenarla, asseconda la natura" (M. Yourcenar, Memorie di Adriano).

1. Ordini del discorso. Forse non ha senso chiedersi se la disputa tra Erasmo e Lutero appartenga alla teologia, alla filosofia, alla morale, alla politica o al diritto. Certo, sarebbe un modo di comprenderla, di ricondurla all'interno di una disciplina ed alle sue procedure di verità. O, perlomeno, di ritagliare un campo comune di discussione che permetterebbe di dare ragione all'uno o all'altro, di capire se l'uomo sia o no libero, se la sua volontà partecipi o meno al disegno divino della salvezza. Ma ho l'impressione che il suo senso sia altrove. Precisamente, nella assenza di un campo comune, nell'incommensurabilità dei loro discorsi.
È difficile sfuggire alla sensazione che Erasmo e Lutero parlino in modo talmente diverso da rendere impossibile qualsiasi confronto. Tanto che sembrano essere qui in gioco non dure diverse opinioni, ma due precisi ordini del discorso non riconducibili ad una chissà quale unità. Del resto, anche prima del contrasto aperto nel 1524 dalla pubblicazione della De libero arbitrio Diatribé sive Collatio di Erasmo, i loro discorsi sembravano destinati a non incontrarsi: come testimoniato dal fatto che Erasmo non ha mai dimostrato di gradire le prese di Lutero in suo favore, né pare che a Lutero siano mai piaciute le benevole intercessioni di Erasmo.
Rischia dunque di risultare vano chiedersi chi dei due abbia ragione, a meno di scegliere, più o meno arbitrariamente, uno dei due discorsi come criterio di valutazione dell'altro. I loro diversi stili di scrittura mettono in opera, infatti, due modi diversi di pensare, e di pensare sia il rapporto del pensiero con l'azione che la stessa verità e le sue procedure di accertamento: il dialogo da un lato, l'affermazione dall'altro. Si tratta, diremmo noi oggi, di due modi di intendere il rapporto tra teoresi e prassi e tra verità e giustizia: se per Erasmo è la conoscenza a fondare l'azione, per Lutero è solo nell'azione che la conoscenza si rivela ed assume il suo senso. Ed è per questo che l'uomo Erasmo è "libero", mentre quello di Lutero è "servo": la libertà di cui parla il primo si esercita proprio nello spazio che separa ciò che l'uomo sa da ciò che fa, spazio riempito dalla mediazione dell'istituzione, mentre la servitù del secondo si lega alla necessità dell'affermazione della verità, verità del solo nell'affermazione si costituisce come tale.
Sono due concezioni della verità a contendersi così il campo. La verità come risultato del dialogo, inteso come procedura di controllo razionale delle opinioni che prevede in quanto tale l'intervento del potere istituito, sostenuta da Erasmo, si contrappone alla verità come evento, che eccede qualsiasi ordine costituito, proclamata da Lutero. Con la conseguenza che se per Erasmo la verità riguarda ciò che è detto, e non il dire stesso, per Lutero è importante non tanto l'enunciato quanto il suo soggetto, l'uomo che parla e la sua vita, dunque la giustizia della sua azione. Ed è questo che rende questa disputa sul libero arbitrio una sorta di laboratorio in cui vengono intrecciate, in maniera esemplare, le vie ancora oggi percorse dal pensiero.

2. L'erudito. Questa sembra essere, dunque, la posta in gioco: non la questione della libertà, quanto il conflitto, forse irrisolvibile, tra due diversi ordini del discorso che mettono in opera diverse concezioni della verità. Del resto, è proprio in rapporto tra conoscenza ed azione a costituire la porta d'ingresso nella disputa.
È Erasmo che apre il suo testo, infatti, chiedendosi se sia opportuno o meno discutere pubblicamente questioni quali quella del libero arbitrio e lasciando intendere apertamente di aver accettato di malavoglia l'invito a farlo. "Ci son poi questioni fra quelle di questo genere che non conviene prostituire ad orecchie sprovvedute, anche se esse fossero vere e capaci di essere delucidate con certezza. È senza dubbio esatto, ad esempio, seguendo il detto dei sofisti, che Dio, conformemente alla sua natura non risieda maggiormente in cielo che nell'interno di uno scarabeo (per non usare un altro termine più osceno che essi non hanno il pudore, che ho io, di tacere): tuttavia mi sembra inutile discuterne davanti al popolo" [Erasmo da Rotterdam, Il libero arbitrio, in : Erasmo da Rotterdam, Il libero arbitrio (testo integrale)/Martin Lutero, Il servo arbitrio (passi scelti), Claudiana, Torino, 1969, p. 46].
Sembrano semplici considerazioni introduttive, quasi un modo retorico di entrare prudentemente nell'argomento. Ma non credo si tratti solo di questo. Quello che Erasmo sta mettendo in opera qui è un gesto tanto discreto quanto decisivo, destinato a caratterizzare la modernità: sta distinguendo ciò che l'uomo sa da ciò che deve fare, ritagliando il campo della conoscenza rispetto a quello dell'azione. Questo scrive, in definitiva, Erasmo: non è agendo che conosco, dato che la verità non dipende dall'azione, ma la precede e la fonda. "Paolo ha ben saputo distinguere ciò che è permesso di ciò che è opportuno. È, per esempio, permesso dire la verità ma non è opportuno dirla davanti a chiunque, dirla sempre e dirla in ogni modo. Se avessi la certezza che in un sinodo una verità è stata stabilita o definita in mondo errato, avrei il diritto di proclamare la verità, ma non sarebbe opportuno perché rischierebbe di dar occasione ai malvagi di disprezzare l'autorità dei Padri specialmente in quelle cose che essi hanno regolato con tanto spirito di devozione; preferirei dir loro che quella verità parve loro senza dubbio utile ai loro tempi, ma che ora l'utilità presente ne richiede l'abrogazione" [Ivi, pp. 46-47].
Solo distinguendo la conoscenza dall'azione, e facendo dipendere quest'ultima dalla prima, assume senso il problema dell'opportunità di dire o meno la verità. Solo se è l'azione a dipendere dalla conoscenza, dunque la giustizia dalla verità, e non viceversa, ha senso interrogarsi sull'opportunità di discutere pubblicamente. 
È qui che entra in gioco "l'erudito" quella figura del discorso, in qualche modo propria della modernità, per cui il sapere non dipende dalla vita, e che può, dunque, chiedersi se sia giusto dire la verità, raggiunta prima dell'azione. Ed è proprio l'erudito, per una strana torsione, solo apparentemente paradossale, a volere il dialogo, ritenendolo condizione per giungere alla conoscenza. "Certamente non penso che Lutero possa indignarsi se qualcuno dissente da lui, dato che egli stesso si permette di attaccare non solo tutti i dottori della Chiesa, ma anche le verità insegnante in tutte le scuole, in tutti i concili ed in tutti i decreti dei pontefici: infatti ciò che egli stesso confessa pubblicamente e vuole schiettamente fare, non deve essermi rimproverato come colpa presso i suoi amici se poi io stesso lo faccio" [Ivi, p. 39].
È il dissenso ad essere il motore della ricerca della verità. Ma, per l'appunto, Erasmo dissente, mentre Lutero attacca. E non sono semplicemente due caratteri che vengono messi in scena, o due atteggiamenti politici. Quanto meno non è su questo che si vuole ora portare l'attenzione. Qui non si tratta di leggere Erasmo come un codardo che, cedendo alle pressioni dell'istituzione, preferisce ritirarsi nell'ozio delle lettere e del dialogo colto e Lutero come il temerario eroe della Riforma che non ha paura di dire ciò che pensa. Ma di capire per altra via, che potremmo dire teoretica e non psicologica o politica, la ragione di questi due diversi atteggiamenti discorsivi.
Erasmo dialoga perché per lui la verità è un affare della ragione, non della volontà, e la ragione è tale in quanto è comune, dunque comunicabile, al contrario della volontà, per suo statuto soggettiva, quindi abbandonata all'impeto delle passioni se non fondata sulla conoscenza. Ma, e questo non dovremmo fare fatica a capirlo oggi, la comunicazione può (e forse non può che) essere anche il luogo del potere. La comunicazione può (e forse non può che) richiedere delle condizioni di accesso, una fra tutte: la competenza discorsiva. Competenza che si risolve facilmente in questa prescrizione tautologica: possono parlare solo quelli che possono parlare. Prescrizione che, se le regole della comunicazione sono fissate dall'istituzione, rischia di tradursi in un tono terroristico: possono entrare nel dialogo solo quelli che l'istituzione riconosce come competenti a parlare, coloro, appunto, le cui orecchie non sono "sprovvedute".
Insomma: sembra quasi che, una volta presa la via del dialogo, sia difficile sfuggire alla tentazione di delegare all'istituzione il compito di ricucire la frattura fra la conoscenza è la volontà dicendomi cosa è giusto che io faccia. "E d'altra parte ho così poca inclinazione a rompere in affermazioni dogmaticamente assertorie che più facilmente verterei su posizioni scettiche ogni volta che ciò mi fosse concesso dall'autorità della Sacra Scrittura o dalle decisioni della Chiesa, alle quali sottometto sempre volentieri in mio sentimento che capisca o non capisca ciò che esse mi ordinano" [Ivi, p. 40].
E se non è l'istituzione sarà quella sua forma culturale rappresentanza dalla tradizione, dall'autorità di ciò che è stato detto. Tradizione cui, non a caso, Erasmo continua a fare riferimento quando si interroga sul criterio che consente di stabilire la verità di una affermazione riguardante la comprensione delle sacre scritture di fronte ad argomentazioni contrastanti, ma comunque plausibili. "Infine, supponendo che lo spirito di Cristo abbia potuto lasciare sbagliare il suo popolo su qualche punto secondario senza immediate ripercussioni per la salvezza dei gli uomini, come possiamo ammettere che Egli abbia lasciato per 1300 anni la Sua Chiesa nell'errore e che in tutta la schiera dei santi non ne abbia trovato uno solo degno di ricevere da Lui quella verità che i nostri ultimi venuti pretendono che costituisca in fondamento di tutta la dottrina evangelica?" (Ivi, p. 57].
L'interrogativo di Erasmo è puramente epistemologico: si tratta di capire come è possibile riconoscere la verità di un'affermazione. Ci si chiede, in altri termini, quale sia l'enunciato vero e come sia possibile riconoscerlo. La risposta in ultima analisi, è questa: è vero ciò che è confermato dalla tradizione, tradizione che sono le regole del discorso ad individuare attribuendo competenze. Ed è chiaro che, all'interno di questo ordine del discorso, la posizione di Lutero, e di quelli come lui, non può che apparire inaccettabile, o, per meglio dire, folle.

3. Il militante. Erasmo capisce che non può parlare con Lutero, così come non si può dialogare con un folle. Ed il motivo è semplice: il folle è colui che non accetta regole del discorso istituito, ed è lo stesso discorso che ne istituisce la figura nel momento in cui si chiude fondando in maniera performativa le sue regole. "Se si chiede loro qual è il criterio per stabilire la vera interpretazione della scrittura dato che da tutte e due le parti non ci sono che uomini, invocano la rivelazione dello Spirito" [Ivi, p. 56].
Lutero non accetta le regole del discorso di Erasmo. Il suo non è interrogativo epistemologico, ma, potremmo dire, etico: non si tratta più della verità di un'affermazione, ma della vita di colui che parla. È questo lo slittamento messo in opera: dell'enunciato al suo autore. Il che conduce ad una figura soggettiva diversa da quella dell'erudito: quella del "militante". Figura messa in opera da un ordine del discorso in cui il fulcro non è più il discorso, ma l'affermazione. "Che bisogno c'è di molte parole? Nulla per i cristiani è di un noto e familiare dell'affermazione. Togli le affermazioni e hai tolto il cristianesimo" [M. Lutero, Il servo arbitrio, in: M. Lutero, Opere scelte, vol. 6, a cura di F. De Michelis Pintacuda, Claudiana, Torino, 1993, pp. 79].
Il vero cristiano non può che affermare la verità, perché è la stessa verità del cristianesimo a costituirsi nel momento in cui viene affermata. Qui non si tratta di trovare qualcosa, ad esempio la verità della Resurrezione, ma di affermarla costituendo la sua verità la verità appartiene dunque alla prassi: si costituisce nell'atto del dire. Bisogna testimoniarla in ogni modo, per essere veri cristiani, e non interrogarsi sull'opportunità di dirla. "È (...) indegno di un cuore cristiano non essere attratto dalle affermazioni; un cristiano vede al contrario compiacersene, oppure non sarà un vero cristiano [1 Pietro 3, 15; Colossesi 4, 6]. Ora, per affermazione (tanto per non giocare con le parole) intendo l'aderire costantemente a una dottrina, affermarla, confessarla, difenderla e sostenerla fino in fondo con perseveranza; né, credo, quel termine ha altro significato nei classici latini o nel nostro uso odierno. Inoltre mi riferisco a quelle cose che devono essere affermate, ovvero che ci sono state tramandate per via divina nella sacra Scrittura" [Ivi, pp. 77-78].
Ci sono cose che "devono essere affermate" per la semplice ragione che non esisterebbero se non fossero affermate. Nell'ordine del discorso di Erasmo questa posizione non può che essere letta come eretica, anzi come il paradigma stesso dell'eresia: il cristianesimo sarebbe un'invenzione, una costruzione dell'uomo, qualora la sua verità si costituisse solo all'interno del suo discorso. Ma per Lutero è l'esatto contrario: è solo sostenendo tenacemente la necessità di testimoniarla sempre ed in ogni luogo, che non si sottomette la verità del cristianesimo a capricciose opzioni di opportunità, dunque al discorso, questo sì, umano troppo umano della politica, o della ragione stessa. "Rispondo: queste sono argomentazioni della ragione umana, la quale è solita profondersi in simili prove di saggezza. Per cui ci tocca discutere non già con il passo dell'Ecclesiastico, bensì con la ragione umana; è lei infatti che interpreta la Scrittura di Dio in base alle proprie deduzioni e ai propri sillogismi, e la conduce dove le pare. E noi faremo volentieri e con fiducia, poiché sappiamo che dalla sua bocca non escono che idiozie e assurdità, soprattutto quando comincia a esibire la propria saggezza nelle cose divine" [Ivi, p. 88].
Proprio questo è, per Lutero, l'errore di Erasmo: sottoporre al vaglio della ragione umana le cose divine. È la ragione umana infatti che si interroga sull'opportunità di discuterne pubblicamente. Ma qui non si tratta di scegliere, il vero cristiano non è colui che sceglie, ma con lui che rende testimonianza dando seguito al dono dello Spirito. Cosa rimane, però, una volta messa tra parentesi la ragione umana? Si potrebbe dire: la volontà; una volontà fondata solo se stessa, dunque assolutamente irrazionale. Non sembra che rimangano aperte altre vie, rispetto a questa che conduce ad abbandonare la prassi all'arbitrio soggettivistico. Ma forse non è così, quantomeno se si legge Lutero non con gli occhi di Erasmo, ma rispettando le leggi interne al suo discorso. Non va dimenticato che per Lutero è l'atto del dire la verità che costituisce la "vera" soggettività di colui che parla. Il che vuol dire: solo nel momento in cui afferma la verità, l'uomo diventa un "vero cristiano", dunque un "soggetto", ossia un ente razionale capace di conoscere e di volere. Non è certo, dunque, la verità del cristianesimo ad essere inventata da colui che la afferma. Semmai, è vero il contrario: è colui che afferma la verità che, come "soggetto", è inventato dal cristianesimo. Salta così la stessa distinzione tra conoscenza e volontà, almeno nei termini in cui ne parla Erasmo: non ha senso parlare di un'affermazione che, una volta sganciata dalla conoscenza, risulterebbe fondata semplicemente sulla volontà arbitraria, per il semplice motivo che in questa volontà non esiste prima dell'affermazione stessa, visto che senza affermazione non vi è soggetto. E, sia detto per inciso, è questa la ragione per cui può risultare vanno il tentativo di ricondurre la disputa all'interno dei binari del rapporto tra fede e ragione.
E' qui che risiede la verità intesa come evento. L'evento è ciò che accade indipendentemente da ogni orizzonte d'attesa e che è capace di trasformare la vita: è la discesa dello Spirito Santo, è l'illuminazione di Paolo, è, innanzitutto, la Rivelazione, e la testimonianza che la ripete. L'evento modifica la vita perché rende gli uomini "soggetti", rendendoli capaci di comprendere le sacre Scritture. "In breve, la chiarezza della Scrittura è duplice, così com'è duplice è anche la sua oscurità: una esterna posta nel ministro della Parola, l'altra collocata nella coscienza del cuore. Se hai inteso parlare della chiarezza interna, nessun uomo può scorgere neppure uno iota nelle Scritture, se non possiede lo Spirito di Dio; tutti hanno il cuore oscurato, sicché, per quanto dicano e imparino a citare ogni passo della Scrittura, tuttavia nulla ne comprendo o conoscono veramente; non credono all'esistenza di Dio, né di essere sue creature, né ad alcun altra cosa, come è detto nel Salmo 13: - Lo stolto ha detto nel suo cuore: non c'è Dio - [Salmo 14, 1). Infatti, per comprendere l'intera Scrittura così come una qualsiasi sua parte, è richiesto lo Spirito. Se invece hai inteso parlare della chiarezza esterna, allora proprio nulla è stato lasciato oscuro o ambiguo, ma tutto ciò che è contenuto nelle Scritture è stato presentato mediante la Parola sotto la luce più chiara e annunciato al mondo intero" [Ivi, p. 203].
Andamento circolare, certo: solo lo Spirito consente di comprendere le Scritture, e solo la comprensione delle Scritture permette di comprendere lo Spirito. Ma questo circolo è interrotto, o confermato, dallo statuto paradossale dell'evento, che eccede qualsiasi ordine del discorso testimoniando così il carattere rivoluzionario della verità: "(...) questa è la sorte costante della parola di Dio: che a causa sua il mondo sia turbato" [Ivi, p. 107].
L'evento è rivoluzionario, scandaloso, proprio in quanto paradossale, ossia proprio in quanto disarma la ragione umana: comprenderlo razionalmente, ad esempio provare la verità della Resurrezione, significa infatti inevitabilmente tradirlo. Ma l'evento non è nemmeno, semplicemente, ciò che fugge alla ragione, la follia dell'insensato, perché è ciò che anticipa e rende possibile la stessa destinzione fra ragione e follia, tra il ragionevole e l'insensato. E, se è così, non si fa fatica a capire perché può solo essere subìto. È questo suo statuto paradossale che rende l'uomo "sub-jectum": libero, in quanto vero cristiano, solo nel momento in cui si afferma servo.
Quella frattura tra conoscenza e volontà che per Erasmo può essere ricucita grazie all'intervento dell'istituzione, è dunque per Lutero destinata a rimanere aperta. All'interno dell'ordine del suo discorso, non si tratta fondare la volontà sulla ragione, ma testimoniare lo statuto paradossale di una verità che anticipa le opposizioni del pensiero, tra cui quella tra ragione e volontà (o tra fede e sapere), ed il cui unico criterio è l'assenza di criterio, di una giustizia cui compito è quello di eccedere l'ordine dato costituendone la zona cieca, e di un soggetto teorico che si costituisce come tale solo nel momento in cui agisce bene.

4. L'altro. A differenza di quel vecchio ebreo dell'est che sosteneva di parlare diciassette lingue: tutte in yiddish, Erasmo e Lutero sembrano quindi parlare la stessa lingua, ma in modo diverso. Ed in modo talmente diverso da non potersi incontrare. La via più facile, ma non per questo scorretta, sembra così essere quella di leggere i loro ordini del discorso come poli di un'opposizione destinata a non poter essere risolta. Come se, in altre parole, il senso della disputa risiedesse nell'assenza di una lingua comune. Può essere interessante tuttavia come questa strada conduca a dare ragione a Lutero: affermare l'incommensurabilità dei due ordini del discorso significa infatti sottolineare l'assenza di una mediazione che consenta il loro confronto, ed è proprio intorno alla critica della categoria della mediazione che si organizza l'ordine del suo discorso.
Questo punto merita attenzione. Per la semplice ragione che non è qui in gioco semplicemente la vittoria della disputa, ma una questione ben più generale che riguarda il modo di pensare la relazione con l'altro. La critica del concetto di mediazione portata avanti da Lutero conduce, a ben vedere, ad un esito apparentemente paradossale: l'unico modo di comprendere l'altro risiede nella testimonianza dell'impossibilità di comprenderlo. Il che vuol dire: l'altro è ciò che non può essere compreso, e che in questa radicale eccedenza rispetto a qualsiasi comprensione trova il suo senso. La relazione autentica non si costituisce quindi nelle trame del dialogo, ma nella presa d'atto della radicale assenza di qualsiasi incontro.
È questa, del resto, la struttura portante della giustificazione per fede. Non c'è modo di comprendere le ragioni della salvezza, perché questo vorrebbe dire ridurre a compenso ciò che nel suo concetto non può essere pensato se non come dono, ridurre ciò che è radicalmente altro ad elemento calcolabile dell'azione, a suo risultato. Lo scarto tra l'universalità del dovere e la singolarità dell'azione è destinato invece a rimanere incolmabile: non c'è azione umana che possa meritare la salvezza. L'etica luterana assume in tal modo una connotazione tragica, fondandosi su un'ingiunzione paradossale: si deve fare ciò che non si può fare. Il caso del dovere di dire la verità è paradigmatico: devo dire la verità, perché solo così mi costituisco come "vero" soggetto, ma la verità non potrò mai dirla, per la semplice ragione che essa è per statuto logico sempre eccedente rispetto alla mia azione. Rimane solo lo spazio per una responsabilità infinita e per la testimonianza della mia finitezza rispetto all'onnipotenza divina.
Certo è facile leggere tutto questo, secondo un'abitudine peraltro consolidata, come una radicale umiliazione della ragione di fronte alla potenza della fede. Questo discorso potrebbe infatti suonare così: solo la fede salva, mentre la ragione conduce alla perdizione. Ma è anche difficile sfuggire alla sensazione che questa lettura nasconda qualcosa di più profondo. Quantomeno, anche stavolta può essere interessante rideclinarla fuori dalle strettoie di una qualsiasi disciplina. È vero che quando Lutero parla della salvezza parla di Dio, o, per meglio dire, del rapporto dell'uomo con Dio. Ma è anche vero che, ridotta alla sua struttura logica, la giustificazione per fede affronta in generale il tema della relazione con ciò che è altro da me, e che, proprio in quanto altro, eccede la possibilità di essere compreso.
Non è difficile infatti notare che la giustificazione attraverso le opere, contro cui Lutero si scaglia, fa tutt'uno con una concezione della verità come risultato del dialogo: si tratta sempre di ritenere che la relazione con l'altro rientri, attraverso la mediazione di una lingua comune, nell'ordine di ciò che è calcolabile. Ed è proprio questo che Lutero intende mettere in discussione quando avanza l'idea che la verità risieda non nel dialogo, ma nell'affermazione, o, per meglio dire, nella testimonianza che la mette in opera. Mentre il dialogo rappresenta il luogo di conciliazione delle differenze, la testimonianza le inaugura, proprio perché costituisce il momento in cui il radicalmente altro, ciò che non può essere in alcun modo compreso, entra nella frase.
Come la salvezza, anche la verità costituisce quindi, per Lutero, presupposto e non obiettivo dell'azione, rientrando così nella logica del dono: non si tratta di raggiungerla attraversando chissà quale cammino, ma di lasciare aperto lo spazio della sua venuta. Qui risiede una possibile chiave per intendere il suo contrasto con Erasmo: l'uomo Erasmo è libero perché può scegliere di raggiungere o meno la salvezza, in quanto la salvezza è pensata come risultato calcolabile dell'azione, mentre quello di Lutero è servo perché, paradossalmente, è già da sempre salvato.
Detto in una battuta: l'uomo di Lutero è servo del dono della salvezza, perché non ha modo di compensarlo. Ed in ciò risiede la sua strutturale responsabilità, destinata a rimanere aperta sull'abisso di un'eccedenza. Discorso certo difficile da accettare, perché si tratta di pensare ad una relazione che faccia a meno della mediazione, ma che forse conserva oggi un fascino particolare. In un momento in cui la ragione comunicativa sembra aver prestato il fianco alla pervasiva logica dell'efficienza tecnica, Lutero richiama l'esigenza di pensare l'altro come ciò che non è in alcun modo riconducibile ad essa, e lo fa, peraltro, segnalando il luogo di un'evidenza: la nostra radicale finitezza.


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