Il plof di Fatima

(ROSSANA ROSSANDA, "Il Manifesto, 29 giugno 2000)


E' comprensibile che il cardinale Ratzinger, cui non mancano né cultura né abilità nella gestione del dogma, si sia preso un mese abbondante prima di rendere pubblico, in una cornice di gigli e rose, quel terzo messaggio di Fatima che l'ostinazione di Giovanni Paolo II ha tirato fuori dal silenzio nel quale lo avevano saggiamente lasciato Giovanni XXIII e Paolo VI. E abbia dovuto impacchettare le paginette d'una vecchia donna, che chissà come è vissuta con se stessa dopo quel 1917 che ne aveva fatto un'interlocutrice privilegiata della Madonna, e nel 1944 aveva steso in bella calligrafia una storia di visioni simile a quelle che avevano alimentato, dopo la Rivoluzione francese, le campagne della Francia. Un secolo prima, non la Madonna ma gli angeli, soprattutto l'arcangelo Raffaele, apparivano qua e là nelle terre contadine ammonendo il popolo che aveva decapitato il re e invitandolo alla penitenza, penitenza, penitenza.
Un secolo dopo suor Lucia aveva alle spalle la guerra civile spagnola, con il suo seguito di preti e monache trafitti e lo spettro dei rossi che perseguitavano la chiesa. Con buon senso e rispetto per quella creatura e per la chiesa, Giovanni XXIII, appena lette quelle righe, aveva detto qualcosa tipo "mettiamole via", e così Paolo VI. Ci voleva Karol Wojtyla, proveniente dall'oscurantista e mariologa chiesa polacca, per identificarsi con la bianca figura della visione e sentirsi particolarmente benvoluto dalla vergine per essere scampato a una morte già profetizzata, spedire un messo a Fatima, beatificare quei ragazzini e far incastonare il profanatissimo proiettile di Alì Agca nel diadema della Bianca Signora. Obbligando quindi Ratzinger a cavarsela, come ricorda Filippo Gentiloni, con l'insolita elevazione d'una visione o di un sogno privato a una sacralità che la chiesa abitualmente evita.
Il cristianesimo ne ha viste di altre e sopravviverà anche al plof di suor Lucia. E' Karol Wojtyla il fenomeno più sconcertante di questi anni secolarizzati: il più mobile dei pontefici, il più interventista, il più oscillante fra benedire Pinochet e rimproverare il capitale egoista, fra un anticomunismo elementare e la pietà per i poveri. E poi cultore della femminilità come icona della madre e della sposa, sessuofobo, rigido nel dogma, incapace di cogliere il senso non solo del rigore protestante ma della Teologia della liberazione e di "Siamo chiesa". E ancora meno sfiorato dal dubbio che in uno stato democratico la chiesa abbia dei limiti. Infine araldo di una vaticanolatria che ha pochi precedenti.
Ma così è, curiosa figura, toccherà ai cattolici giudicarlo. Quel che possiamo giudicare noi è il servilismo della stampa e della Rai prosternati davanti a una vicenda più affine alla superstizione che alla fede, commossi e inneggianti al mistero e al sacro che tanto ci mancherebbero. Mancheranno a loro: forse non è un caso che sia parte della generazione sessantottina, ora ben collocata nei media, a far prova di riverenza al peggio del cattolicesimo. Saltata dal "vogliamo tutto" al mercato, la proprietà, il profitto e la speculazione in Borsa come uniche norme nella vita in terra, hanno manifestamente bisogno dell'aldilà per respirare. E' rimasto solo Paolo Flores D'Arcais a usare il ben dell'intelletto, non senza mietere di passaggio un bel successo di vendita sull'attuale moda di Dio. L'arrivo del genoma ha salvato gli altri editorialisti dalla tentazione di un'autocritica: abbiamo esagerato. La grazia essendo senza fine, poteva succedere


              Ikthys