Il giorno del mea culpa

Storica cerimonia in San Pietro, Wojtyla chiede perdono
Le scuse del Papa ai popoli oppressi, alle donne, alle altre religioni: "A nome del popolo cristiano"
Prendono la parola cardinali e vescovi che accendono le sette fiammelle, una per ogni peccato ammesso dalla Chiesa
Il rito del candelabro

(Marco Ippoliti, La Repubblica, 13 marzo 2000)

Sotto la cupola trionfante di San Pietro un Papa curvo implora il perdono "a nome dell'intero popolo cristiano". Sotto le colonne superbe del baldacchino di Bernini il pontefice di Roma si umilia in nome di Cristo ed esclama: "Mai più offese contro qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla logica della violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi". Mai più divisioni fra i cristiani, mai più ostilità verso le altre religioni.
Passa un brivido nella basilica, edificata per esaltare la potenza della Chiesa Romana. Ascoltano immobili i vescovi in paramenti viola e mitrie bianche. Sembrano pietrificati i cardinali in porpora rossa, colore del sangue dei martiri troppo spesso divenuto simbolo di potere. Tace in silenzio attonito la folla radunata in piazza San Pietro con gli occhi fissi sui megaschermi.
E' il dodici marzo dell'anno Duemila e succede l'indicibile. Il cattolicesimo trionfante chiede perdono, la Curia potente ammette i suoi peccati, il papa-monarca abbraccia le ginocchia del Cristo e confessa che i cristiani hanno sconfessato il Vangelo, hanno violato i diritti delle persone e dei popoli, hanno umiliato le donne, hanno chiuso gli occhi dinanzi alle ingiustizie, hanno fatto soffrire i fratelli ebrei, hanno preso le armi contro altri seguaci di Cristo. Non sempre, non tutti. O - se si vuole - soltanto in certi momento, soltanto certi cristiani.
Ma i distinguo in questa giornata memorabile non pesano niente. Conta solo la voce di quell'uomo fragile, coperto dai paramenti viola, la mano tremante aggrappata al pastorale, che spoglia di colpo il Vaticano dell'arroganza di una pretesa infallibilità e proclama coraggiosamente, gettandosi in ginocchio: "Dio, Padre nostro, ti chiediamo perdono, abbi pietà di noi e accogli il nostro pentimento".
Alle nove e mezza di mattina Wojtyla arriva già stanco in basilica. Da una porta laterale si affaccia sulla cappella della Pietà di Michelangelo. Bianca, splendente, perfetta. Un viatico intenso per un rito tutto inventato, creato per trascinare una gerarchia riluttante a confessare le colpe della Santa Istituzione.
La piattaforma mobile porta Wojtyla lentamente verso il suo trono. Il Papa piegato benedice stancamente. Come ci si abitua presto! In poche settimane il carrello ha già assunto la solennità di una sedia gestatoria.
Dinanzi all'altare va in scena una sacra rappresentazione. Uno dopo l'altro si avvicinano al pontefice sette rappresentanti della Curia, portando ognuno il suo carico di peccati. "Preghiamo perchè la nostra confessione e il nostro pentimento siano ispirati dallo Spirito Santo", esordisce il decano dei cardinali, l'africano Gantin. "Anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici", confessa il custode del Sant'Uffizio, il cardinale tedesco Ratzinger. E' stata "lacerata l'unità del corpo di Cristo", ammette il francese Etchegaray. Si riconoscano i peccati commessi contro gli ebrei, "popolo dell' Alleanza", annuncia l'australiano Cassidy. Anche i cristiani sono stati acquiescenti di fronte alle violazioni della dignità umana, afferma il nigeriano Arinze. I seguaci di Cristo si sono lasciati prendere dall'orgoglio, dall'odio, dalla volontà di dominio: che almeno sappiano adoperarsi per contrastare i mali di oggi, implorano il vescovo giapponese Hamao e il presule vietnamita Van Thuan. E' un coro di penitenza universale.
Giovanni Paolo II ascolta, ascoltano i fedeli stipati nella basilica, ascolta il mondo. E ogni volta tutti chinano la testa per una preghiera silenziosa, mentre i potenti della Curia vanno ad accendere una fiammella su un candelabro a sette braccia, segno del vincolo indissolubile fra Antico e Nuovo Testamento.
Ad ogni confessione di colpa Giovanni Paolo II prende la parola per gridare con più forza la richiesta di perdono. Nei testi letti dai cardinali si ritrovano qua e là tracce del freno, che i cardinali e i vescovi più conservatori hanno voluto mettere all'iniziativa di Wojtyla. Paroline messe per annacquare l'ardore del suo gesto e che si trovano abbondantemente disseminate nel documento redatto sotto la guida di Ratzinger. Le violenze - è scritto - sono avvenute "talora", gli antisemiti sono stati "non pochi", l'odio cristiano è esploso "a volte". Piccoli accorgimenti per attutire lo shock del mea culpa. Molti cattolici di antico stampo non riescono ancora a capacitarsi. Ma come, la Chiesa non ha sempre avuto ragione?
Wojtyla è vibrante e diretto. Chiede misericordia per i cristiani "peccatori". Ammette che i cristiani "si sono condannati e combattuti". Dichiara che hanno fatto "soffrire" i figli di Abramo e perciò devono sentirsi "profondamente addolorati". I cristiani, grida Giovanni Paolo II ritrovando la voce nel momento più drammatico del rito, sono stati colpevoli, permettendo discriminazioni contro razze ed etnie. E quante volte, incalza, "non hanno riconosciuto Cristo in chi ha fame e sete, in chi è perseguitato, incarcerato, privo di ogni possibilità di autodifesa".
Durante l'omelia il Papa spiega che non si tratta di giudicare individualmente i responsabili dell' una o dell'altra colpa, ma di assumersi la "responsabilità oggettiva" dei peccati, come membri della Chiesa. E' l'ora di un profondo esame di coscienza, annuncia. Riconoscere le colpe del passato "serve a risvegliare le nostre coscienze di fronte ai compromessi del presente". Apre la strada al perdono reciproco anche per i torti subiti. Rende i cristiani (e la Chiesa) testimoni più credibili.
Poi, zoppicando, il vecchio pontefice si avvicina ad un antico Crocifisso del Trecento, ne abbraccia le ginocchia, le bacia e in muta preghiera fissa il Nazareno con il costato cosparso di sangue. E' un pellegrinaggio di pochi metri, che concentra duemila anni di storia. Una richiesta di perdono, che marca per sempre il giubileo del papa mistico e sofferente.
Per una volta, la folla non turba l'attimo con applausi da stadio. Per un giorno, almeno, è cancellata l'atmosfera degli show mediatici. Uomini, donne, chierici e curiosi sanno che in San Pietro non vedranno mai più un pontefice battersi il petto per le "infedeltà al Vangelo" commesse dalla Chiesa.


"Solo retorica deludente
nomini i papi colpevoli"

Küng: cerimonia vuota e barocca
La provocazione del teologo tedesco: in Vaticano ci vuole un Gorbaciov

 (La Repubblica, 13 marzo 2000 )

"E' una deludente cerimonia pomposa e barocca. Nel suo confiteor deplora ma non chiama niente per nome".
Così parla il professor Hans Küng, teologo e docente a Tubinga, massima voce del pensiero critico nella cultura cattolica europea.
Professore, molti elogiano la presa di posizione come "Pietra miliare". E' d'accordo o no?
"Che per la prima volta da Alessandro VI un Papa pronunci una vera confessione di colpa è lodevole. Ma sarebbe una pietra miliare solo se non fosse pronunciata in modo così troppo generico e senza trarre conseguenze. Se per esempio si denuncia solo l'Inquisizione ma senza abrogarla, è come un pentimento senza riparazione. Anche secondo il Nuovo Catechismo Romano alla confessione deve seguire la riparazione, per esempio restaurare la buona fama dei calunniati".
Dunque è deluso?
"Sì. Come moltissimi cattolici. Da tre anni una commissione di teologi era al lavoro, l'aspettativa era enorme. Se avesse detto cose concrete avrebbe potuto essere un passo importantissimo come fu il riconoscimento dei peccati della Chiesa, da parte di papa Adriano VI il quale, ai tempi di Lutero, affermò chiaramente le responsabilità centrali del papato e della Curia. Ma questo confiteor che omette la colpa dei papi e della Curia romana è per molti cattolici una delusione immensa".
Cosa avrebbe dovuto dire con più chiarezza?
"Un confiteor retorico non parla al cuore e non può liberare la coscienza. Questo riconoscimento delle colpe è vago, nulla viene chiamato per nome: né lo scisma d'Oriente né la riforma, né gli eretici e i roghi delle streghe né l'Inquisizione, né, purtroppo, l'Olocausto. Né si parla delle grandi voci critiche".
Perché secondo Lei la Chiesa sceglie tale vaghezza?
"Sarebbe stato nell'interesse della Chiesa e del papa fornire un franco, chiaro riconoscimento delle colpe. Ma sullo sfondo c'è un'assunzione teologica errata: solo alcuni membri della Chiesa, solo figli e figlie della Chiesa avrebbero sbagliato. Non la Chiesa come istituzione, che resta santa e innocente. I papi erano i responsabili principali di scelte erronee".
Quali, per esempio?
"Urbano II lanciò la prima Crociata, Innocenzo III creò l'Inquisizione e scatenò guerre contro altri cristiani, Innocenzo IV legittimò la tortura, Innocenzo VIII giustificò il rogo per le streghe, Leo X promulgò la Bolla contro Lutero che giustifica il rogo per gli eretici, Gregorio XIII celebrò con un Te Deum la strage della notte di San Bartolomeo, Pio XII tacque sull'Olocausto ed epurò i teologi critici. Davvero sono solo "errori di alcuni"?".
Il Papa però deplora e denuncia i cristiani che tradirono il Vangelo, scelsero violenza e intolleranza...
"Giusto. Ma perché non si chiede se anche egli stesso ha fatto errori? Ad esempio con la predica "crescete e moltiplicatevi" davanti agli slum di Nairobi, con l'intransigenza contro la contraccezione, la direzione autoritaria e centralistica della Chiesa in spregio della collegialità affermata solennemente dal Concilio Vaticano II".
Il problema resta l'assunto dell'infallibilità papale?
"E' lo sfondo. E invece proprio alla luce di una simile Storia di colpe bisognerebbe riflettere sull'infallibilità di quelli che si mostrarono così fallibili".
Paul Spiegel, capo degli ebrei tedeschi, loda il papa ma deplora la mancanza di parole chiare sull'Olocausto. Che ne pensa?
"Sono d'accordo. Primo, perché l'Olocausto che fu il maggior crimine della Storia umana non viene nemmeno nominato a chiare lettere. Secondo perché non si parla del silenzio di Pio XII sull'Olocausto".
Cosa dovrebbe dire la Chiesa?
"Nulla giustifica quel silenzio sul piano diplomatico. E non è giusto sostenere che i nazisti sarebbero stati ancor più crudeli se il papa avesse parlato. Si sarebbe prodotto un effetto enorme se Pio XII avesse scomunicato i responsabili dell'Olocausto, alcuni dei quali erano cattolici: Hitler, Goebbels... Perché non li scomunicò?".
Per paura del comunismo?
"E' chiaro: Pio XII riteneva il comunismo un pericolo maggiore del nazismo. Ma neanche questo può giustificare il silenzio del Vaticano sui mostruosi crimini dei nazisti. E sullo sfondo si staglia l'antiebraismo ben chiaro in Pio XII. Dopo la guerra si guardò bene dal riconoscere lo Stato d'Israele".
Questa Chiesa è capace di superare l'antisemitismo?
"Sarebbe possibile se si prendesse sul serio la verità storica e si lasciasse parlare il cuore".
Il sistema della Curia è impossibile a riformabile come il comunismo sovietico?
"Molti lo pensano, io credo che invece riforme siano possibili. Ma solo con un papa che dall'inizio imprima alla Chiesa un altro corso. Da noi e in altri paesi vocazioni e partecipazione alla messa da noi sono crollati. E' un segnale d'allarme".
Fa pensare all'Urss tra il Rapporto di Krusciov al Ventesimo congresso e di dopo... ci vuole un Gorbaciov a San Pietro?
"L'esempio è fuorviante. Però è vero, il Vaticano ha bisogno urgente di un Gorbaciov che introduca glasnost e perestrojka nel pietrificato sistema vaticano. Si può solo sperare di trovarne uno tra i cardinali".


Rassegna stampa
 sul documento vaticano «Noi ricordiamo: una Riflessione sulla Shoa» del 12 marzo 1998

Sorpresa, delusione, amarezza.
La storia ha dimostrato al contrario che il genocidio nazifascista è accaduto proprio nel cuore della cristianità, da cui emana un profondo e atavico antisemitismo. Non dimentichiamoci che i carnefici erano tutti battezzati. La verità è che la maggior parte dei cristiani non hanno mosso un dito perché nelle loro parrocchie sentivano ripetere ogni giorno che gli ebrei sono perfidi ammazza-Cristo.
(Elie Wiesel, premio Nobel per la pace, Corriere della Sera, 17 marzo 2000)

In nome di quale disprezzo della verità la Chiesa ha potuto aspettare così tanto prima di riconoscere che i giudizi passati sul popolo ebraico, gli stereotipi trasmessi di generazione in generazione hanno aperto la strada alla discriminazione e all'orrore indicibile dei lager?
(Le Monde, 17 marzo 2000)

Se io sapessi che qui in Campania, nell'ambito del territorio della mia diocesi di Acerra, ci fossero dei massacri e io facessi finta di non saperlo, sarei colpevole. Io devo parlare. Per amore del mio popolo non tacerò.
Bisognava, forse, fare e rischiare di più.
(Antonio Riboldi, sacerdote, L'Unità, 17 marzo 2000)

Il papa, che essendo di Cracovia senza dubbio è impregnato degli orrori di Auschwitz, ha tuttavia lasciato ben poco spazio alla confessione: non la Chiesa in quanto tale si è macchiata di una colpa, ma singoli cristiani. Ciò ricorda in modo sorprendente la formula amata in Germania di non ammissione della colpa che nel nome tedesco sono stati perpetrati enormi delitti.
In entrambi i casi la responsabilità viene addossata su singole persone.
E per una confessione così insufficiente ci è voluto così tanto tempo?
Peccato.
(Frankfurter Rundschau, 17 marzo 2000)


A me sembra un modo per dire non è colpa nostra, è colpa degli altri. Un po' tutto il documento mi sembra improntato alla ricerca di scusanti, piuttosto che ad un mea culpa.
Insomma, questo documento mi sembra proprio molto insoddisfacente.
(Ignatz Bubis, rabbino, L'Unità, 17 marzo 2000)

 Il perdono non è un'assoluzione. Questa può darla soltanto Dio, oppure un tribunale, celeste o terrestre che sia. Noi possiamo perdonare chi ci ha fatto del male, ma il male resta. L'accusa che ci è stata rivolta dopo la shoa, quella di non essere in grado di perdonare, di essere animati da uno spirito vendicativo, è assolutamente infondata. Io posso abbonare un debito solo a chi mi ha fatto direttamente del male, non a chi l'ha fatto ad altri. Se i morti potessero rinascere e volessero perdonare, andrebbe bene, ma ciò che noi possiamo fare è soltanto chiedere giustizia. Per questo deve esserci un tribunale terrestre: Dio ci ha dato il libero arbitrio come pure delle leggi che vanno rispettate.
Anche perché il perdono, come il pentimento, senza una reale presa di coscienza porta al ripetersi del male già fatto.
(Giacoma Limentani, scrittrice, Il Manifesto, 17 marzo 2000)

Denunciare Pio XII avrebbe significato sconfessare il dogma dell'infallibilità del Papa, cosa che non si poteva chiedere neppure a un pontefice rivoluzionario e coraggioso come Giovanni Paolo II.
Chi chiede questo, non comprende la natura della Chiesa cattolica.
(David Rosen, rabbino, La Repubblica, 18 marzo 2000)

In una rilettura sostanzialmente revisionistica e in chiave apologetica del comportamento della Chiesa dinanzi al III Reich, si è preferito rimuovere la questione dei silenzi di Pio XII, ricordandone l'azione di salvataggio sviluppata a favore degli ebrei perseguitati. Alcuni circoli della curia romana avevano fatto valere il timore che un'ammissione di responsabilità nel processo che ha portato all'Olocausto avrebbe gettato un'ombra ingiustificabile sui predecessori.
Perciò i pregiudizi antigiudaici sono addebitati solo ad alcuni cristiani.
(Giancarlo Zizola, vaticanista, "Il Sole-24 Ore, 17 marzo 2000)

Non si trattava di chiedere delle scuse. Ma di fare una sorta di mea culpa su un piano preciso. Il fatto è che lo sterminio degli ebrei è avvenuto in terra cristiana, in Europa. Ed è avvenuto mentre la Chiesa e il papa d'allora, che era Pio XII, restavano in silenzio. Non hanno scomunicato Hitler.
Non risulta nemmeno che gli abbiano mandato a dire di non farlo.
(Joe Golan, scrittore, L'Unità, 18 marzo 2000)

Da un punto di vista storico l'incontestabile azione di papa Pio XII durante la Seconda guerra mondiale fu il silenzio.
Lui scelse il silenzio per evitare la fine della Chiesa.
(George Mosse, storico, La Stampa, 17 marzo 2000)

E' anche erroneo, storicamente, negare le responsabilità di Pio XII, la spiegazione classica che abbia taciuto per cercare di non fare di peggio è minimale ed anche prevaricatoria. Ed è un peccato che la denuncia del silenzio di chi vide e non agì in difesa del suo vicino, non vada più a fondo nell'indicare anche la complicità di popoli ferventemente cattolici come, prima di tutto, i polacchi.
Ma non ci si può aspettare che un papa condanni un altro papa.
 (Fiamma Nirenstein, giornalista, La Stampa, 17 marzo 2000)



MEA CULPA, 
ATTO DI FORZA

(CLAUDIO MAGRIS, Corriere della Sera, 13 marzo 2000)


Chiedere perdono è più difficile che perdonare. Chi perdona si colloca al di sopra di chi gli ha fatto torto, si sente ed è più grande e ciò l'aiuta a superare il rancore per la violenza subita. Chi chiede perdono si pone in qualche modo al di sotto di colui cui si rivolge; riconosce, almeno per quel che riguarda il fatto cui si riferisce, una propria inferiorità umana e morale nei suoi confronti.
Forse per questo il perdono chiesto dal Papa per le colpe e gli errori della Chiesa desta perplessità, incertezza e persino sconcerto fra alcuni fedeli e anche fra alcuni alti rappresentanti della gerarchia cattolica e non certo solo fra personalità ottusamente tronfie di potere e di monopolio della verità.
Tale sgomento, tuttavia, non dovrebbe aver ragion d'essere per chi crede nella Chiesa e nella sua verità. Il gesto di Giovanni Paolo II non ha nulla di scandaloso, tranne il coraggio, quel coraggio che, nel bene e nel male, gli permette di attraversare la vita senza timorose cautele e dunque libero, senza preoccuparsi di piacere o dispiacere, di risultare simpatico o antipatico.
Egli non ha messo in discussione alcuna di quelle che per il cattolico credente e praticante costituiscono le verità della Chiesa e attestano l'infallibilità del suo magistero in materia di fede e di morale.
Nel suo pontificato egli ha riaffermato le verità della fede, i suoi dogmi, princìpi e valori con una fermezza e un'intransigenza ortodossa che gli ha spesso attirato accuse di conservazione, autoritarismo e rigido tradizionalismo. Fedeli e pastori avrebbero motivo di sentirsi turbati se il Papa mettesse in dubbio articoli di fede, se cominciasse a dire che la Trinità, la Resurrezione di Cristo o l'Immacolata Concezione di Maria sono discutibili o sono interpretabili quali simboli o metafore della condizione umana e delle sue verità esistenziali, come talora hanno suggerito alcuni teologi eterodossi o usciti dalla Chiesa. Ma Giovanni Paolo II ha condannato, pure con durezza, ogni deviazione teologica e anche ora non mette in discussione neppure una virgola dell'ortodossia più rigorosa, neppure un codicillo del catechismo. Egli denuncia semplicemente le colpe commesse dalla Chiesa non solo attraverso i peccati dei suoi singoli anche altissimi membri (colpe sempre riconosciute), ma pure quale istituzione nella sua azione mondana. Ma la fede non ha mai garantito alla Chiesa quale istituzione (e quale istituzione, dal punto di vista della Chiesa medesima, necessaria pure nel suo agire mondano) alcuna infallibilità. La Chiesa, scrive un teologo gesuita alieno da ogni eterodossia come Karl Rahner, non è ancora neppure veramente cattolica bensì in cammino verso l'autentica cattolicità, ossia universalità, e il cristiano, scrive ancora Karl Rahner, deve «sopportarla con pazienza» e venirne sopportato, nei reciproci momenti di caduta.
Nulla di scandaloso, dunque, nel chiedere perdono per le colpe commesse dalla Chiesa che non scalfiscono (ovviamente per chi crede in essa) la sua autorità quando enuncia verità di fede o di morale e afferma ad esempio la resurrezione della carne o si pronuncia contro la clonazione umana. Il mistero che la Chiesa rivendica, e che riguarda ovviamente solo chi crede in essa, è quest'autorità in materia di fede e di morale; chi non accetta il suo magistero deve aver la coerenza di uscirne. Per un cattolico non è lecito rifiutare l'insegnamento della Chiesa sull'immortalità dell'anima o sull'aborto, ma è più che lecito rifiutare le colpe della Chiesa in materia di antisemitismo o le violenze praticate da essa. Anche (forse soprattutto) in questo suo chiedere perdono il Pontefice, come ha scritto Indro Montanelli (sul Corriere del 9 marzo; ndr), riafferma la funzione guida della Chiesa, con un'intensità accentuata dalla consapevolezza del poco tempo che gli rimane.
Con questo suo gesto Giovanni Paolo II ha rivendicato, ancora una volta, una assoluta ortodossia. Quel suo gesto può piacere o non piacere; può essere pure considerato contraddittorio, come ha scritto ieri Vittorio Messori, rispetto ad altre sue iniziative, secondo quell'altalena di comportamenti contrastanti, di aperture e chiusure, che caratterizza il suo pontificato; può irritare tremebondi gerarchi che si credono erroneamente custodi della tradizione. In ogni caso questa richiesta di perdono non ha nulla di debole, d'incerto, di vagamente sentimentale, di teologicamente confuso; è espressione di ruvida forza, non di debolezza. Solo la forza consente di chiedere autenticamente perdono; è falso o patetico porgere l'altra guancia a un avversario più forte, e lo si può fare schiettamente solo quando si è in grado, volendo, di dargli invece una sberla. Giovanni Paolo II può permettersi questa coraggiosa umiltà che un Pontefice più debole e irresoluto dinanzi alla complessità del mondo e della storia non potrebbe osare senza scatenare un processo di dissoluzione.
Non è una novità; De Gaulle ha potuto cedere l'Algeria senza ledere la sua grandeur né quella della Francia, cosa che un governante debole non avrebbe potuto fare. Giovanni Paolo II può, e quindi deve, ammettere le colpe anche infami di cui si è macchiata la Chiesa. Certamente gesti simili procurano spesso amarezze, perché il mondo è ingrato e finché non chiediamo scusa nessuno pretende che lo facciamo, ma appena la chiediamo non è mai abbastanza e tutti ci saltano addosso, così come nessuno si arrabbia se non lo invitiamo a pranzo ma se lo invitiamo esige anche la cena. Ma questo è appunto il meccanismo del mondo e Giovanni Paolo II, che pure ha dimostrato di saperlo manovrare con consumata e disinvolta abilità, sembra sapersene anche infischiare. È vero che la Chiesa ne ha fatte di peggio e che il mea culpa non è completo, ma sarebbe ingiusto rinfacciarlo proprio ora a chi ha cominciato a farlo.
I non credenti o non praticanti possono giudicare positivamente o negativamente il gesto del Papa, queste sue sortite di vecchio tremante per il morbo di Parkinson ma duro come un pugile o un pescatore di Hemingway; possono anche attribuire questa insistenza ostinata al precipitare della vecchiaia. La mano trema e il corpo dice una grande stanchezza, ma lo sguardo è spesso vivo e malizioso e sembra talora beffarsi dell'occhiuta sorveglianza di chi gli sta intorno. La sua richiesta di perdono ha una indiscutibile grandezza, fa capire la forza della fede e merita ammirazione; in ogni caso i fedeli, almeno così sembrerebbe, lo dovrebbero ringraziare per un gesto che rende più dignitosa l'obbedienza al loro pastore.


SUGGERIMENTI...

Il Papa dovrebbe chiedere perdono per la contro-testimonianza data dalla Chiesa, in quanto istituzione, al messaggio evangelico: potere, danaro, menzogne...
Le parole del Pontefice apparirebbero più credibili se il Vaticano rinunciasse al fasto, aprisse a tutti le sue biblioteche e vivesse come faceva Gesù.

                                   Marie-Madaleine Meuret, France
 


COERENZA EVANGELICA

La Chiesa ha chiesto perdono per tante cose, non per Karol Wojtyla che si affaccia da un balcone insieme a Pinochet. 
Dove era, in quell'atto, la coerenza evangelica di stare dalla parte degli ultimi? 
E non voglio discutere le responsabilità penali del card. Giordano. E' certo però che ha favorito i nipoti. Nepotismo, insomma. 
Dovrebbe bastare questo a far scattare nel cattolico una indignazione di cui non ho trovato traccia. 
Paolo Flores d'Arcais, direttore di MicroMega


           Mea Culpa per conto terzi?

E' "la Chiesa in quanto tale" colpevole di qualcosa, o solo si fa generosamente e maternamente carico di peccati non suoi, ma dei suoi figli? Si tratta di una Chiesa disincarnata, di un’idea platonica di Chiesa, immune dai difetti e dalle virtù concrete degli esseri umani che la compongono? Eppure il Concilio Vaticano II ha sancito o, diciamo meglio, constatato che la Chiesa è costituita, concretamente e spiritualmente, dalle donne e dagli uomini che vi partecipano.
[...] Quando in Noi ricordiamo si afferma che "come membri della Chiesa condividiamo sia i peccati sia i meriti dei suoi figli", constatiamo che questa condivisione non è simmetrica: la Chiesa evoca a sé le virtù, scarica i vizi sui figli in nome dei quali chiede scusa come se questi fossero sfuggiti alla sua tutela e insegnamento (al suo "costante insegnamento [...] circa l’unità del genere umano e l’uguale dignità di tutte le razze e di tutti i popoli"; cap. IV).
La Chiesa si scusa accusando i suoi figli. Quando si tratta di vantare virtù, è allora "la Chiesa in quanto tale" a farsi avanti; quando si tratta di vizi o colpe la Chiesa prende le distanze, distingue sé "in quanto tale" dai suoi figli e figlie, e magari anche dai suoi padri.

            Stefano Levi della Torre, Morasha


LE REAZIONI A UN GESTO EPOCALE

In San Pietro lo storico pentimento della Chiesa
(Marco Tosatti, La Stampa,13 marzo 2000)

«Mai più»: è rivolto all'oggi e al futuro il «mea culpa» di Giovanni Paolo II, il più discusso e clamoroso gesto di questo pontificato. Una cerimonia solenne nella basilica vaticana, con alcuni momenti di grande emozione. La processione di monsignori e cardinali in violetto quaresimale, chiusa dal Papa zoppicante, aggrappato al pastorale, curvo come un albero antico, si arresta e medita davanti alla «Pietà» di Michelangelo; e non c'è bisogno di didascalia per quest'icona. Poi, la messa. Sin dalle prime parole Giovanni Paolo II spiega: la Chiesa vuole purificare la sua memoria dalle colpe e dalle omissioni; quelle di oggi, e quelle dei cristiani di ieri. Precisa: «non si tratta di un giudizio sulla responsabilità soggettiva dei fratelli che ci hanno preceduto: questo compete a Dio solo, il quale, a differenza di noi, esseri umani - è in grado di scrutare il cuore e la mente». L'ala «meoculpista» e autoflagellante della chiesa cattolica leggerà in queste parole un cedimento del pontefice a chi dentro e fuori le mura vaticane nutriva perplessità sui modi e opportunità del clamoroso gesto pontificio; che resta coraggioso e inedito nella storia passata e presente delle religioni, anche se ovviamente il Papa non poteva fare un elenco di tutte le situazioni storiche.
Niente di nuovo dunque nei contenuti della richiesta di perdono, rispetto al documento preparato dai teologi, e alle dichiarazioni e interviste concesse dai consiglieri del Pontefice. Ma è stato interessante l'accento, molto forte, posto da Giovanni Paolo II al presente, più che al passato. «Confessiamo, a maggior ragione - ha detto nell'omelia - le nostre responsabilità di cristiani per i mali di oggi. Dinanzi all'ateismo, all'indifferenza religiosa, al secolarismo, al relativismo etico, alle violazioni del diritto alla vita, al disinteresse verso la povertà di molti paesi, non possiamo non chiederci quali sono le nostre responsabilità» .
E' seguita la parte più emozionante della cerimonia. Sette cardinali, uno dopo l'altro, hanno pronunciato i capi di autoaccusa; accendendo ciascuno, al termine della sua breve orazione una delle sette lampade poste su un candeliere che ricordava una «menorah» ebraica. Giovanni Paolo II riprendeva ogni accusa, in una dialogo diretto con Dio, ampliandola, e arricchendola di una promessa o un impegno verso il futuro; e chiedendo perdono. Come nel caso della violenza usata in questioni di fede: «Promuovere la verità nella dolcezza della carità ben sapendo che la verità non si impone che in virtù della verità stessa».
E infine ha concluso pronunciando cinque promesse solenni, con voce tremante come la mano che sorreggeva il pastorale: «mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla logica della violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Un applauso composto ha accolto la fine della preghiera. Il Pontefice si è poi avvicinato lentamente al grande crocifisso ligneo, un'opera del quattordicesimo secolo, l'ha abbracciato e baciato. Testimoni silenziosi migliaia di presenti, il corpo diplomatico al gran completo, religiose, religiosi e semplici fedeli. Un rito importantissimo, per il Pontefice, il reale preludio alla Pasqua dell'Anno Santo, e al passaggio della Chiesa al 2001: la porta santa del Duemila - aveva scritto nella lettera apostolica «Tertio millennio adveniente»,- non potrà non essere varcata dalla Chiesa con una maggiore consapevolezza delle sue colpe storiche.
Con una puntualizzazione, in onore della storia, soprattutto quella di questo secolo, ma non solo e della verità. «In pari tempo, mentre confessiamo le nostre colpe, perdoniamo le colpe commesse dagli altri nei nostri confronti. Nel corso della storia innumerevoli volte i cristiani h anno subito angherie, prepotenze, persecuzioni a motivo della loro fede. Come perdonarono le vittime di tali soprusi, così perdoniamo anche noi. La Chiesa di oggi e di sempre si sente impegnata a purificare la memoria di quelle tristi vicende da ogni sentimento di rancore o rivalsa». Durante uno dei suoi viaggi, quando ancora conversava con i giornalisti, Giovanni Paolo II ricordò che la Chiesa cattolica è sempre l'unica a chiedere scusa per il passato. «Ma forse è giusto così» aggiunse sorridendo. «Dopo secoli segnati da violenze e distruzioni e dopo l'ultimo quanto mai drammatico, - ha concluso ieri il Pontefice - la Chiesa offre all'umanità incamminata sulla soglia del terzo millennio il Vangelo del perdono e della riconciliazione, quale presupposto per costruire l'autentica pace». Senza chiedere che gli altri compiano gesti analoghi, per quanto doverosi.


Così la memoria è stata purificata
(Francesco Margiotta Broglio, Corriere della Sera, 13 marzo 2000)


E nel nome della Verità storica tornano Bruno, Copernico e gli altri «eretici»

I «Mai più!» con i quali il Pontefice ha scandito il rito penitenziale nella Giornata del perdono sono un impegno per il futuro della Chiesa che dà spessore e contenuto alla richiesta di perdono delle colpe del passato e alla confessione delle responsabilità dei cristiani per i mali dell’oggi. Partendo da Paolo, Wojtyla, come successore di Pietro, «implora il perdono divino per le colpe di tutti i credenti» e perdona le colpe degli altri verso la Chiesa.
La «purificazione della memoria» è la strada per riconciliare i figli con il padre. Alla base, lo studio della Commissione teologica internazionale che permette al Papa di fondare la richiesta di perdono sulla responsabilità oggettiva che «accomuna i cristiani» e li spinge a riconoscere «insieme con le proprie, le colpe dei cristiani di ieri», le infedeltà al Vangelo, i compromessi del presente. Anche se non si tratta di giudizi sulla «responsabilità soggettiva dei fratelli», l’atto del Pontefice è un solenne e sincero «riconoscimento delle colpe commesse dai figli della Chiesa».
Diversamente dai suoi predecessori il Papa non ha paura del «vero» storico, confortato dai presupposti sintetizzati nel documento dei teologi. Nessun tentativo di giustificare o spiegare, ma ammissione di colpe per entrare nel terzo millennio come «testimoni della speranza» e per favorire la riconciliazione e il dialogo con le religioni ed essere d’esempio a governi e nazioni. Ma, in primo luogo, è la Chiesa di oggi che, come ha detto il cardinale Ratzinger, non può, confessando quelli del passato, esimersi «dal riconoscere i peccati del presente».
Quanto ai contenuti dello «studio» alla base della richiesta di perdono basta leggere le oltre cento note per rendersi conto che la gran parte dei «mea culpa» era già stata pronunciata da Giovanni Paolo II nel corso del pontificato.
Quanto ai predecessori, invece, è il documento stesso a sottolineare la rarità con cui concili, papi e vescovi «hanno riconosciuto apertamente le colpe o gli abusi»: da Adriano VI del 1522 si passa a Paolo VI che riapre il dialogo con i cristiani orientali, e al Vaticano II che ammette e deplora una serie di colpe, senza, però, associarvi una «richiesta di perdono».
Venendo ai «peccati» è possibile raggrupparli in tre categorie: peccati di «divisione», peccati contro l’uomo e la società, peccati contro gli ebrei «fratelli maggiori». Secondo il documento i primi, essenzialmente le «guerre sante», dalla prima Crociata a Lepanto, dallo sterminio degli Albigesi alle guerre religiose di Francia non possono essere letti, secondo lo «studio», se non nel quadro di quell'uso della violenza «nel servizio della Verità» (forse, meglio, al servizio di una male intesa «potenza» di Roma) che ha caratterizzato la storia della Chiesa fino a quando gli Stati le hanno fornito il loro braccio armato per combattere infedeli ed eretici, streghe e scienziati (Huss e Bruno, Copernico e Galileo...).
Lo scisma d'Oriente all'inizio del secondo millennio, la lacerazione della cristianità con la Riforma protestante e la Controriforma cattolica (che non viene però evocata), i roghi delle persone (l'ultima strega fu bruciata nel 1793 proprio in Polonia) e quelli dei libri, la miope guerra al progresso scientifico e al libero pensiero (qualche riferimento ai valori dell'Illuminismo o al ruolo dei Modernisti non guasterebbe) sono le molte facce di una intolleranza alla cui base, si riconosce ora, è stata la mancanza di «amore soprannaturale», di carità.
Lasciano perplessi, invece, la correlazione tra giudizio storico e giudizio teologico, se si è accertato che la Chiesa sarebbe disposta «a riconoscere gli sbagli là dove sono accertati», come pure il tentativo di distinguere tra azioni della Chiesa e azioni della società «nei tempi di osmosi». L'esame di coscienza dei peccati «storici» che la Chiesa di Roma si propone di compiere all'inizio del terzo millennio dinnanzi al suo Dio e agli uomini non può essere affidato ad artificiose distinzioni o a risultanze scientifiche che, proprio in quanto tali, sono sempre e comunque da rimettere in discussione. Le Crociate e l'Inquisizione, le divisioni della cristianità, le conversioni forzate nel Nuovo Mondo (ma anche il supporto al colonialismo che non viene esplicitato) sono contro-testimonianze il cui valore teologico, nel riconoscimento degli errori, va ben al di là delle risultanze di un congresso di storici su questi argomenti.
Il valore del documento per l'unità dei cristiani sta nella condanna di quei «cattolici che si compiacciono di rimanere legati alle separazioni del passato», perseverando nel «peccato della divisione», e nella rivendicata «esemplarità» dell'onesta ammissione delle colpe che, nell'obbedienza, per i credenti, alla Verità, può decisamente contribuire a quel rispetto della dignità e dei diritti degli altri di cui Giovanni Paolo II ha fatto l'asse portante del suo insegnamento.


Il Papa recita il mea culpa
"Mai più abusi e violenze"

 
Tra gli errori citati, quelli nei rapporti con l'ebraismo
  ma senza menzionare le persecuzioni legate all'Olocausto
  (La Repubblica,12 marzo 2000)

Un Papa affaticato ma molto determinato e partecipe, la curia quasi al completo, rappresentanti del corpo diplomatico e una folla di fedeli e religiosi, hanno vissuto oggi, nella basilica di San Pietro, uno degli eventi centrali del Giubileo del Duemila: la pubblica richiesta di perdono a Dio per gli errori commessi dalla Chiesa nel passato e nel presente - da quelli nei rapporti con l'ebraismo alla violazione dei diritti dei popoli - e l'impegno a non ripeterli più.
Sul piano concreto, la liturgia ha concesso poco alle attese di quanti si aspettavano dal Papa un gesto o parole più decise di quelle del documento teologico pubblicato dal Vaticano martedì scorso. E questo vale per tutte le colpe confessate, dai rapporti con Israele (non è mai stato citato l'Olocausto) alle ferite alla dignità delle donne e delle etnie. E non è mancato il riferimento anche alle persecuzioni subite dai seguaci di Cristo; da qui il desiderio, ridadito da Giovanni Paolo II, di perdonare, oltre che di essere perdonato.
E vediamo allora quale sono state, le parole pronunciate oggi. Ha cominciato il decano del collegio cardinalizio Bernardin Gantin, ricordando i "metodi non evangelici", come colpa commessa a volte "nel servizio della verità". E il Papa ha invitato in futuro a "cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità". Per le colpe nei rapporti con Israele, il Pontefice si è impegnato a una "autentica fraternità con il popolo dell'alleanza". A proposito degli errori commessi contro i diritti di popoli, culture e religioni, Giovanni Paolo II ha ammesso come "molte volte i cristiani hanno sconfessato il Vangelo e cedendo alla logica della forza, hanno violato i diritti di etnie e di popoli, disprezzando le loro culture e tradizioni religiose".
Ancora, il Papa ha ricordato i peccati contro la dignità della donna, invitando Dio ad aiutare a "guarire le ferite". Ha pregato anche per i minorenni vittime di abusi sessuali, i poveri, gli emarginati. La folla che gremiva la basilica ha seguito le preghiere e le risposte del Papa in un silenzio assoluto.
E il Papa ha concluso il rito con cinque "mai più" per il futuro della Chiesa. "Mai più - ha detto nell'orazione conclusiva - contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla logica della violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi". La preghiera è stata accolta da un applauso composto, al termine del quale il Papa si è inchinato davanti al crocifisso, ha benedetto tutti i presenti e si è congedato.


Austria:  

 la Chiesa protestante confessa
 di essere stata complice dell'Olocausto

 (da Riforma)

 

La Chiesa protestante austriaca ha confessato di essere stata complice dell'olocausto.
La risoluzione approvata dal Sinodo generale della chiesa (63 voti favorevoli, 3 contrari e 3 astensioni) ha un duplice obiettivo, ha dichiarato uno dei deputati al Sinodo, Johannes Dantine: «Da un lato, essa chiarisce in che modo la Chiesa protestante si è resa complice dell'Olocausto». 
D'altra parte, le questioni teologiche dovrebbero porsi diversamente per tutta una parte della popolazione dopo questi crimini. « E’ con vergogna che costatiamo che le nostre chiese si sono mostrate insensibili nei confronti del destino degli ebrei e di altri innumerevoli perseguitati » afferma la risoluzione. «Con questo testo - ha aggiunto Dantine - ci rivolgiamo alla comunità ebraica con un nuovo intento: vogliamo avvicinarci all'interpretazione ebraica della Bibbia ebraica». 
Le prime reazioni della comunità israelitica sono state «straordinariamente positive». Si sono svolti colloqui preliminari in vista di un incontro pubblico tra la Chiesa protestante e la comunità israelitica.
 


Interrogativi su un Pontefice.
Colpe della Chiesa, sacrificio di Wojtyla
(Indro Montanelli, Corriere della Sera, 9 marzo 2000)

In un colloquio avuto qualche anno fa a cena con lui nel suo appartamento privato […] capii, o credetti di capire, che quel Papa intenso e inteso a frugare dentro se stesso avrebbe lasciato dietro di sé un cumulo di macerie: quelle della struttura autoritaria e piramidale della curia romana. 
Ora mi sembra di capire che quella intuizione vagamente catastrofica peccava, sì, ma per difetto: quelle che papa Wojtyla si lascerà dietro non sono le macerie soltanto della curia, ma della Chiesa, o almeno di quella che da duemila anni siamo abituati a considerare tale e ci portiamo, anche noi laici, nel sangue.


Il pentimento debole e incompleto del papa

 Luigi Sandri
( Il Manifesto, 8 marzo 2000)

Il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, approntato dalla Commissione teologica internazionale (Cti), ecclesialmente e politicamente è uno dei fatti più importanti del lungo pontificato wojtyliano. Tanto importante che il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (il dicastero della Curia romana che vigila sulla "ortodossia" del miliardo e 45 milioni di cattolici sparsi nel mondo), ed anche presidente della Cti, si è affrettato ieri a spiegare che il testo "non è un documento del magistero". Formalmente questo è verissimo, perché i testi della Cti sono di per sé di carattere consultivo, di studio, seppure importanti perché redatti dalla trentina di teologi rappresentanti varie sensibilità e vari Paesi - per l’Italia: il napoletano mons. Bruno Forte - che compongono la Commissione (dalla quale i teologi e le teologhe di punta sono tenuti comunque lontani).
Ma, se Ratzinger ha ragione dal punto di vista formale, intonsa rimane la domanda: perché mai la Santa Sede, che fa pubblicare documenti su temi molto meno importanti ai vari dicasteri curiali, ha scelto questa via "secondaria" per affrontare un tema - quello del Mea culpa per le colpe passate dei "figli della Chiesa" - che papa Wojtyla ha voluto invece mettere come punto caratterizzante del grande Giubileo da lui convocato per il Duemila? A questa domanda si possono naturalmente dare risposte variegate: la nostra è che la questione del Mea culpa vede profondissimi contrasti all’interno del corpo variegato delle Chiesa cattolica romana, dalla base ai vertici. Vede contrasti nel mondo teologico e, soprattutto, all’interno del Sacro Collegio cardinalizio che prima o poi sarà chiamato a scegliere il successore di Giovanni Paolo II. Un successore che sarà scelto - crediamo - in particolare per come si pone proprio rispetto al Mea culpa. Da qui l’idea di affidare alla Cti il "ballon d’essai" sullo scottante argomento.
Domenica prossima, 12 marzo, durante una celebrazione eucaristica in San Pietro, sarà lo stesso pontefice a pronunciare quella che mons. Piero Marini, maestro delle cerimonie pontificie, ha definito "domanda di perdono al Signore per i peccati passati e presenti dei figli della Chiesa". Quello sarà, ovviamente, un atto di magistero. Dunque, per valutare complessivamente la operazione Mea culpa occorrerà vedere che cosa dirà e che cosa farà il papa domenica, con un intervento che, seppure avrà come "background" il pensiero della Cti, potrebbe contenere anche spunti diversi. Per intanto, appuntiamo la nostra riflessione, sia pure per flash, sul documento presentato ieri in Vaticano.
In varie occasioni, soprattutto nei suoi 90 viaggi internazionali, Giovanni Paolo II aveva pronunciato dei Mea culpa su singoli episodi, come le responsabilità anche dei cristiani per la tratta degli schiavi, l’evangelizzazione con la violenza degli indios delle Americhe, o le responsabilità che i cattolici condividono con ortodossi ed evangelici per la divisioni nella Chiesa.
Ma, nelle lettera apostolica Tertio millennio adveniente – con la quale nel ’94 avviava la preparazione del Giubileo - Wojtyla annunciava che la confessione di peccato non poteva più essere episodica, ma doveva costituire un punto-chiave del 2000. Infatti, secondo il papa il passaggio di millennio doveva essere anche il momento di un grande "esame di coscienza" sul passato: per ringraziare il Signore per il bene compiuto nella Chiesa e nel mondo dai santi ma, anche, per implorare perdono per le controtestimonianze date nella storia dai "figli della Chiesa". In particolare, diceva il papa, "un capitolo doloroso sul quale i figli della Chiesa non possono non tornare con animo aperto al pentimento è costituito dall’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e perfino di violenza nel servizio della verità".
L’idea di Wojtyla, ben vista da alcuni cardinali, aveva invece provocato l’ostilità di altri (in Italia ben rappresentati dall’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi). Il papa aveva comunque insistito nel suo progetto: nel ’97 il Vaticano ha organizzato un simposio sull’Inquisizione e, nel ’98, uno sull’antigiudaismo. I due temi – quasi un riassunto dei "peccati" dei "figli della Chiesa" – avevano suscitato non concordi valutazioni nell’ambito teologico ed ecclesiale. Questa disparità di pareri, ci sembra, emerge nel documento della Cti, attentissimo a ribadire che la "Madre Chiesa" è santa, anche se in essa ci sono "peccatori"; e che, dunque, a peccare, se peccati ci sono stati, sono stati i "figli", non la "Madre".
Ma come giudicare il passato? Come condannare chi, magari del tutto in buona fede – nel contesto storico, culturale e teologico del suo tempo – ha compiuto azioni che oggi la Chiesa giudica "errore"? Il documento della Cti, in proposito, invoca tre principi: 1/ di coscienza (nessuno, fuori di Dio, può giudicare in profondità le scelte della singola persona), 2/ di storicità (ogni atto va giudicato nel determinato orizzonte di spazio e di tempo in cui è stato compiuto), 3/ del cambiamento di paradigma (un conto la situazione quando vi era una "osmosi" tra Chiesa e Stato, un conto dopo l’Illuminismo ed oggi). Ma, per la "solidarietà" che lega nel tempo tutti i credenti in Gesù, questi criteri non possono portare a "minimizzare" eventi e scelte che "oggettivamente" hanno avuto gravi e dolorose conseguenze.
Nella sua impostazione, il documento della Cti tace però su un punto fondamentale, vero tallone di Achille dell’intero testo. Il punto è che a "sbagliare" non furono tanto, o non furono solo singoli cristiani e cristiane, o magari parroci sprovveduti o laici insipienti. I "metodi di intolleranza e perfino di violenza" per imporre la "verità" (quella della Chiesa, da questa ritenuta La Verità, quella maiuscola) sono stati proclamati per un millennio dai papi e dai Concili, cioè dalle massime espressioni del Magistero della Chiesa. Il principio che in una "societas christiana" fosse lecito, e perfino doveroso, sterminare gli "eretici" (cristiani che, secondo il potere ecclesiastico, avevano tradito la fede) è stato parte costitutiva del pensiero teologico e della prassi della Chiesa e delle Chiese per secoli. Dire che "a quei tempi" tutti pensavano così non scioglie affatto questo nodo. Perché mai, "a quei tempi", il magistero papale non accolse come norma generale la profezia di un Francesco di Assisi che, in epoca di crociate, va dai governanti musulmani d’Egitto armato di solo evangelo? Ma anche se il mondo intero avesse ritenuto lecito bruciare i nemici, come mai la Chiesa romana che si presenta e si presume "colonna della verità", non intuì l’errore capitale?
La distinzione tra "Chiesa" e figli della Chiesa" appare dunque un marchingegno per non affrontare il problema capitale: come mai il magistero ecclesiastico per secoli ha accettato (pensando soggettivamente di dar gloria a Dio, questo è certo) la liceità di uccidere una persona, "se" secondo lui eretica? Da quest’insanabile contraddizione se n’esce solo, forse, se si parte dal principio affermato dal teologo svizzero-tedesco Hans Küng: Dio, nella sua misericordia, conserva la sua Chiesa malgrado i peccati e gli errori che essa commette.
E, ancora, se n’esce se si riflette fino in fondo sulle drammatiche (evangelicamente parlando) conseguenze che hanno pervaso la Chiesa e le Chiese-istituzione che hanno scelto e benedetto, e non solo diciassette secoli fa, il Costantinismo. Il silenzio imbarazzato del documento della Cti su questa problematica cruciale è più eloquente di ogni parola.
Il prossimo 3 settembre Wojtyla intende beatificare, insieme con Giovanni XXIII, anche Pio IX. Questi, del tutto coerente alla teologia ed al Diritto canonico dell’Ottocento, e soggettivamente in perfetta buona fede, approvò, benedisse e difese che ad una famiglia ebrea di Bologna (allora negli Stati della Chiesa) l’inquisitore locale facesse rapire il figlio, Edgardo Mortara, perché questi tempo prima era stato nascostamente battezzato da una cameriera. Male aveva fatto questa a battezzare il bambino contro la volontà dei genitori; ma ormai questi era battezzato, e dunque la Chiesa, secondo il papa, aveva il diritto – diritto divino – di strapparlo ai genitori per educarlo a Roma nella fede cristiana. L’intera Europa, "a quei tempi", protestò contro Pio IX, ma questi non volle sentire ragioni. I diritti del Padre celeste, diceva, vengono prima del padre terreno – un non cattolico.
Questo è un piccolo caso (altri simili se ne potrebbero addurre), ma nella sua eloquenza vale più di mille documenti teologici. Se le molte parole sui "peccati" dei "figli della Chiesa" pronunciate ieri – e alcune di esse sono coraggiose e sofferte – hanno senso, la beatificazione di Pio IX non s’ha da fare. Se, invece, si farà, potremo considerarla, insieme ai nostri amici ebrei, come la "interpretazione autentica" del solenne Mea culpa vaticano.


Mea culpa del Papa.
Una voce nel deserto

(Eugenio Scalfari, La Repubblica, 12 marzo 2000)

Il gesto di Wojtyla rappresenta uno spettacolo intriso di una spiritualità, di una mistica e di una teatralità grandiose […] si tratta di un atto politico essenziale.
[…] Tutto ciò detto, a me piacerebbe vedere i cristiani essere e ridiventare cristiani. Per quelli che veramente lo sono ho grande stima e ne sono amico. Purtroppo sono assai pochi.
Perciò comprendo l'ansia del Papa, ma non sarà Giovanni Paolo II a cambiare la natura degli uomini. Adamo mangiò il frutto dell'albero proibito e l'uomo sapiens nacque fuori dal Paradiso. 
Così sarà fino a quando la specie non sarà estinta.


Senza pentimento non ci può essere perdono

Domenico Tomasetto, presidente della Fcei
(Riforma, 24 marzo 2000)

Il titolo del Documento della Commissione teologica del Vaticano «Memoria e riconciliazione. La Chiesa e le colpe del passato» prometteva molte cose, dice troppe cose e alla fine non convince affatto per le tante parole inutili, gli imbarazzanti silenzi e le tenaci reticenze. 
Il titolo lasciava presagire che la chiesa si confrontasse con le sue colpe del passato, ma il testo parla soltanto e insistentemente delle colpe di alcuni suoi «figli». Questa riduzione del livello di responsabilità dalla chiesa ai singoli, pur comprensibile sul piano del diritto penale, non convince sul piano teologico, perché alla fine porta all'autoassoluzione. Dal testo, inoltre, non si riesce a capire se gli stessi pontefici e il Sacro Collegio siano «figli della chiesa» oppure una categoria di persone intoccabili.
Eppure le intenzioni che avevano ispirato il documento erano lodevoli: la chiesa, che finora non l'aveva mai fatto, confessa i suoi peccati di duemila anni per poter chiudere con il passato e iniziare il terzo millennio perdonata e libera. 
Ma questo, che è un esercizio protestante, non è riuscito alla Chiesa cattolico-romana. 
Visto che il perdono si chiede a Dio, perché fare tanti distinguo su eventuali azioni che oggi, in un clima diverso, si potrebbero considerare peccato? A Dio si chiede perdono del proprio peccato che viene riconosciuto e confessato come tale. 
Senza una profonda confessione, e senza pentimento, non c'è perdono.
Il Documento conferma l'impressione che non si sia voluto coinvolgere la chiesa nel peccato di qualcuno dei suoi figli: quasi che essa non possa peccare. 
Eppure il famoso testo di Matteo 16,18 dice espressamente che la chiesa non sarà vinta dal male, e non che non possa peccare ed essere perdonata dal suo Signore. 
La Chiesa è indefettibile per la fedeltà del suo Signore, ma non è infallibile o senza peccato.
In tutto il documento manca una cosa sostanziale: quello che in termini teologici indichiamo come conversione e in termini storici come cambiamento delle strutture giuridiche e culturali che hanno portato nel passato a sbagliare. 
Non si intravede nel documento alcun accenno a questa problematica eppure, per non ripetere gli errori del passato, occorre portare dei cambiamenti al modo di pensare e di vivere. Una richiesta di perdono senza l'effettiva volontà di cambiamento costituisce soltanto un ottimo spettacolo mediatico, ma non ha rilevanza nell'esistenza teologica.
 Queste osservazio
ni nascono dalla delusione che si prova nel vedere che il risultato non corrisponde alle intenzioni, una
delusione da aspettative tradite.


E la libertà di coscienza?

Lo storico Jean Delumeau
(Riforma,  24 marzo 2000)

Sulla richiesta di perdono del papa, il giornale Le Monde del 12-13 marzo riporta un'interessante intervista a Jean Delumeau, professore onorario al Collegio di Francia, noto storico specialista del cristianesimo. 
Alle domande poste da Henri Tincq, Delumeau risponde fra l'altro: «...la Chiesa romana non può più ignorare che il rimprovero principale che le viene rivolto, in particolare dalle altre confessioni cristiane, è di apparire troppo sicura di se stessa. 
Essa deve quindi passare attraverso una cura di umiltà e, a questo riguardo, l'atto posto domenica dal papa va nella giusta direzione e dovrebbe contribuire al riavvicinamento ecumenico con le altre chiese
».
Circa il fatto di attribuire le responsabilità ai «figli» e alle «figlie» della chiesa e non alla Chiesa cattolica in quanto tale, ritenuta «infallibile», Delumeau risponde: «Ricordo che, in buona teologia cattolica, l'aggettivo "infallibile" si applica solo a casi molto eccezionali. 
Ma, in effetti, perché una confessione sia totalmente credibile, bisognerebbe che sia generale, cioè senza reticenze né secondi fini. 
Ora, molti di questi "peccati" storici sono imputabili alle più alte istanze della Chiesa romana, non a dei cattolici che hanno agito sotto la propria responsabilità». 
E fa i nomi dei papi Innocenzo III, Gregorio IX, Paolo IV e Pio V.
Sulla storia moderna, Delumeau è altrettanto esplicito: «Per Roma, è giunto il momento di confessare tutte le colpe, ivi comprese quelle che sono state commesse dal "magistero" e dall'autorità pontificia in quanto tale. Poi, e soprattutto, non è più possibile tollerare l'ambiguità».
E per finire: «La chiesa romana deve precisare che essa sconfessa la condanna da parte di Pio IX della libertà di coscienza! È una questione di coerenza con il pentimento di domenica».  


  Spretato, non sarai perdonato
IL MEA CULPA IMPOSSIBILE DEL PAPA

Giovanni Paolo II si batte il petto per tutti. Ma non per i 100 mila sacerdoti che hanno gettato la tonaca negli ultimi 30 anni; e che restano al bando. 
Ora un vescovo lo accusa...
(Sandro Magister, L'Espresso, 11.5.2000)

Ebrei, streghe, eretici, scismatici. A tutti Giovanni Paolo II chiede perdono. 
Sul "Corriere della Sera" Ernesto Galli della Loggia l'ha rimproverato d'aver dimenticato un mea culpa: per i cattolici modernisti d'inizio Novecento, che in effetti furono duramente perseguitati dalla Chiesa. Ma anche per loro papa Karol Wojtyla qualcosa ha fatto: ha beatificato un loro campione, il cardinale di Milano Andrea Ferrari. Che il papa dell'epoca, Pio X, non cessò mai di tormentare, proprio perché lo giudicava «un semenzaio di modernismo».
C'è però una categoria di vittime della Chiesa alle quali Giovanni Paolo II proprio non vuole dare né chiedere perdono. Gli spretati. 
Il suo predecessore Paolo VI li aveva presi a cuore: concedeva rapido la dispensa dal celibato, li autorizzava a sposarsi in chiesa, li avvicinava in segreto, li aiutava nelle difficoltà (donò una somma persino al nemico Carlo Falconi, il vaticanista dell'"Espresso" anni Sessanta). Karol Wojtyla invece fa tutto l'opposto. 
Appena divenuto papa, la dispensa l'ha fatta diventare un miraggio: minimo dieci, dodici anni di attesa, seguiti spesso da un no. 
Con l'attuale pontefice all'ex prete è rimasto un solo modo per ottenere un veloce via libera al matrimonio: dire una bugia. Basta scriva che quando ha preso gli ordini era sotto costrizione o soffriva di malattie psichiche, ed è fatta: il Vaticano riconosce invalida la sua ordinazione e lui è libero di continuare la sua nuova vita in pace con la Chiesa.
Ma dei circa 100 mila preti cattolici che negli ultimi trent'anni in tutto il mondo hanno abbandonato, la maggior parte non si è piegata a questa recita. 
A costo di restare messi al bando e senza matrimonio religioso. Giovanni Paolo II lo sa. Ma non deflette. In ventidue anni di regno sono pochissimi gli spretati che lui ha voluto personalmente graziare. Uno di questi è Giovanni Gennari, oggi giornalista Rai e scrittore ombra, con la firma Rosso Malpelo, di una pepata rubrica quotidiana sul giornale dei vescovi, "Avvenire". La sua riconoscenza al papa per il bel gesto l'ha scritta sul numero in edicola del mensile dei paolini, "Jesus".
Nessuna grazia in vista, invece, per l'ultimo degli ex: Ezio Palombo, 70 anni, parroco fino a due mesi fa del piccolo borgo di Fabio, in diocesi di Prato, amico e imitatore del celebre don Lorenzo Milani e della sua scuola di Barbiana. È sparito con una donna di trent'anni, divorziata, madre di due bambini. E ha scritto a un paio di giornali: «Lascio l'azienda alla quale ho dedicato cinquant'anni di vita». Di lui il suo vescovo, Gastone Simone, continua a dire un gran bene: «Mi sento come un babbo che non è riuscito a far restare in casa un figlio tanto giudizioso». Ma in Vaticano, si sa, il reprobo non troverà misericordia.
E non per colpa dei burocrati curiali. Reinhold Stecher, austriaco, vescovo emerito di Innsbruck, ha inutilmente perorato a Roma la causa degli ex preti della sua diocesi. Toccando con mano che «la responsabilità di questo stato di cose è del papa in persona», non della curia «che ho persino trovata più umana».
E ne è rimasto così scandalizzato da prendere carta e penna e da scrivere una pubblica denuncia. «Come prete e vescovo ho ascoltato qualcosa come 40 mila confessioni. Ho assolto adùlteri, apostati, persecutori della Chiesa, ladri e persino omicidi. Ma da anni non posso dare la pace dell'anima a un prete che si è sposato. La sua condizione è peggiore di quella di un assassino».
Eppure, ricorda Stecher, «Gesù ha detto che "chi non perdona non sarà perdonato". 
E allora come non restare atterriti da queste parole del Giudice del mondo, se il papa muore senza aver prima risposto a migliaia di domande e suppliche di riconciliazione? O si crede forse che le decisioni della Chiesa non siano sottomesse agli insegnamenti di Gesù?
».
Il suo atto d'accusa, il vescovo Stecher l'ha reso pubblico nel 1998. Da allora molti ex preti gli hanno scritto, tra i quali un italiano: «Aspetto la dispensa da 13 anni e intanto, preso dal bisogno, ho cercato di ottenere un posto da sacrestano. Me l'hanno negato perché non sono sposato in chiesa». 
Dal Vaticano, silenzio. Anche nell'anno del Giubileo del perdono. Commenta Stecher: «Con questi suoi no inclementi, Roma ha perso il volto della misericordia e assunto quello del dominio ostentato e duro. Nessuno sfarzo nella celebrazione millenaria, nessun discorso magniloquente toglierà questo peccato».

Meglio aspettare il Giudizio Universale...
Chiedere perdono per gli errori ecclesiastici passati « può servire anche a renderci meno antipatici e a migliorare i nostri rapporti con i rappresentanti della cultura così detta laica, i quali si compiaceranno della nostra larghezza di spirito, anche se non ne ricaveranno di solito nessun incoraggiamento a superare la loro condizione di incredulità... Senza dire che, dei veri enormi delitti storici contro il genere umano – oggi avvolti da un misericordioso silenzio culturale – pare siano tutti d’accordo nel ritenere che non ci siano più i responsabili. Per esempio, a chi l’umanità manderà il conto per gli innumerevoli ghigliottinati francesi del 1793, uccisi senza colpe diverse da quella dell’appartenenza sociale? A chi l’umanità manderà il conto delle decine di milioni di contadini russi trucidati dai bolscevichi? Ma allora, per i peccati della storia, non sarebbe forse meglio che aspettiamo tutti il giudizio universale? »
(Card. Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna)


  LA STAMPA

 
Forum sul Mea Culpa (maggio 2000)

RASSEGNA STAMPA: Giordano Bruno, icona della libertà


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