LA CECITÀ DI CHI NON VUOL VEDERE…
Elena Lea Bartolini
Anno A - 10 marzo 2002 - IV Domenica di
Quaresima
(1Sam 16,1.4.6-7,10-13; Sal 22; Ef 5,8-14; Gv ,1-41)
"Se foste ciechi, non avreste
alcun peccato; ma siccome dite: "Noi vediamo," il vostro
peccato rimane" (Gv 9,41). Queste le parole di Gesù,
riportate nel Vangelo di Giovanni, a conclusione di un dialogo
con alcuni farisei dopo la guarigione del "cieco nato".
Per capire di che tipo di provocazione si tratta, dobbiamo
prendere in considerazione alcuni elementi fondamentali
della narrazione la quale, essendosi fissata in forma scritta
tardivamente rispetto ai sinottici, è condizionata
dalle tensioni fra la comunità giudaico-cristiana
e la Sinagoga che caratterizzano i primi due secoli dell'era
volgare dopo la caduta del Tempio di Gerusalemme del 70.
Un episodio simile, infatti, è ritrovabile anche
nel Vangelo di Marco (Mc 8,22-26) dove però non si
precisa che tale guarigione avviene di Sabato. La narrazione
giovannea quindi, non solo vuole mostrare un "segno" rivelatore
della potenza di Dio in Gesù che rimanda al suo mistero
pasquale, ma volutamente colloca il medesimo in un contesto
di confronto dialettico fra Gesù e i farisei. I termini
della questione sono fondamentalmente due: la cecità
dalla nascita è il segno di un peccato proprio o
dei propri genitori? E guarire di Sabato significa violare
la Torà, cioè l'insegnamento divino rivelato
al Sinai che prescrive il riposo nel settimo giorno? (cfr.
Es 20,8-10; Dt 5,12-15).
La Tradizione ebraica offre già delle risposte al
riguardo: il rapporto peccato-malattia, rilevabile in molti
passi biblici, è stato rimesso radicalmente in discussione
da posizioni sapienziali come quelle testimoniate nei Libri
di Giobbe e Qohelet; tuttavia, nell'orizzonte multiforme
di un giudaismo che conserva al suo interno posizioni diverse
e talvolta anche contrapposte, è naturale che su
temi come questo si continui a discutere in maniera anche
provocatoria. Lo stesso vale per il riposo sabbatico: un
famoso commento rabbinico al passo dell'Esodo dove si dice
che il Sabato è un segno tra Dio e il suo popolo
per tutte le generazioni (Es 31,13), precisa che "Il Sabato
è stato dato a voi [agli uomini], ma non voi al Sabato"
(Mekilta, 103b), sottolineando quindi che tale osservanza
non deve essere contro l'uomo ma a suo favore, tanto che,
e anche questo è un insegnamento tradizionale, si
può violare il Sabato per salvare una vita umana.
Gesù conferma tale insegnamento quando ricorda che
"Il Sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo
per il Sabato" (Mc 2,27).
Dove sta allora il problema? Forse nel fatto che la guarigione
del "cieco nato" non è da considerarsi un intervento
necessario per la sopravvivenza e, pertanto, poteva essere
operata in altro momento? Ipotesi ragionevole e possibile.
Tuttavia, riconsiderando l'agire di Gesù nel suo
insieme, e non dimenticando la sua fedeltà agli insegnamenti
mosaici che lui stesso afferma di non voler abolire ma "portare
a compimento" (Mt 5,17-19), quella che qui e in altri passi
evangelici emerge è soprattutto una polemica contro
gli eccessi, contro quelli che potremmo definire gli "osservanti
bacchettoni", categoria rilevabile purtroppo trasversalmente
in tutte le tradizioni religiose e in ogni epoca.
Ecco allora che Gesù, in maniera sicuramente provocatoria,
più che condannare i farisei - dei quali tra l'altro
utilizza i criteri interpretativi della Scrittura e coi
quali condivide la fede nella resurrezione - condanna i
loro eccessi legalistici che riducono la Torà a norma
che schiaccia l'uomo anziché mostrarne il suo essere
insegnamento per la vita (cfr. Dt 30,15-20). Il bigottismo
che egli denuncia è un rischio nel quale ogni credente
può cadere nel momento in cui perde di vista il senso
dell'osservanza nella libertà dei "figli di Dio",
quando cioè preferisce la logica del diritto a quella
della rivelazione. Ecco perché chi "è cieco
dalla nascita", cioè non conosce perché non
può vedere, non può essere colpevole; mentre
chi "ha visto" ma preferisce il proprio orizzonte limitato
- e forse più rassicurante - al respiro più
ampio di un insegnamento rivelato secondo una logica "altra",
è cieco perché "non vuole vedere", perché
non vuole rischiare lasciandosi provocare positivamente
da una logica capace di coniugare un equilibrato riferimento
ai valori con la ricerca del bene nella storia degli uomini.
La cecità di cui qui si parla è dunque quella
di chi impone pesi inutili e pronuncia giudizi di condanna
ritenendosi "superiore" alla "parola-evento" nei confronti
della quale dovrebbe invece sottomettersi.
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