UN DIO CHE PIANGE PERCHÉ NON AMA LA MORTE
di Elena Lea Bartolini

Anno A - 17 marzo 2002 - V Domenica di Quaresima
(Ez 37,12-14; Sal 129; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45)

 L'intero capitolo undicesimo di Giovanni, quello della resurrezione di Lazzaro (diminutivo di Eleazaro, che significa: "Dio ha aiutato"), è caratterizzato da segni che rimandano al mistero pasquale di Gesù, cioè al capovolgimento fra morte e vita che, nel capitolo successivo, troverà la propria espressione nelle parole: "Se il chicco di frumento caduto a terra non muore, resta solo. Ma se muore porta molto frutto" (Gv 12,24). Non a caso quindi questo capitolo si apre alludendo ad un gesto che può essere collegato ai riti funebri: Maria, sorella di Lazzaro, è presentata come colei che "aveva cosparso d'olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i capelli" (Gv 11,2). Il verbo è al passato, tuttavia l'episodio verrà singolarmente narrato nel capitolo successivo (cfr. Gv 12,1-8), dove Gesù, a tavola con Lazzaro resuscitato, interpreterà tale unzione in riferimento alla sua sepoltura (Gv 12,7). Un significativo scarto temporale che rimanda alla sua passione, prospettiva che si può cogliere anche nelle parole di Tommaso che vedono il viaggio a Betania come un cammino verso la comune morte: "Andiamo anche noi a morire con lui" (Gv 11,16). Ma le parole di Gesù indicano le ragioni di una possibile speranza: "questa malattia [di Lazzaro] non è per la morte ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato" (Gv 11,4); per questo alla professione di fede di Marta nella resurrezione finale egli replica: "Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà…" (Gv 11,25).
"Io sono…". Questa affermazione di Gesù, in un contesto di segni chiaramente orientati al mistero divino che in lui sta per mostrarsi, richiama con forza alla grandezza dell'unico Signore capace di trasformare una storia anonima e perdente in storia di salvezza. "Io sono Colui che sono" è il modo in cui il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe rivela il Suo nome impronunciabile a Mosè dal roveto ardente (Es 3,14), espressione formulata nel testo ebraico secondo una forma verbale traducibile in italiano sia al presente che al futuro, quindi: "Io sono Colui che è/Colui che sarà", cioè Colui che mostra e mostrerà il suo essere per l'uomo e per la storia, il suo essere per la vita nel tempo e "oltre il tempo". Solo un Dio così può far risuscitare dai morti.
La narrazione giovannea ci presenta inoltre un Gesù profondamente turbato e commosso fino alle lacrime di fronte alla morte di Lazzaro, tanto che alcuni dei giudei presenti commentano: "Vedi come lo amava!" (Gv 11,35). Se, da una parte, tale dolore e tale turbamento possono essere considerati in relazione a ciò che egli stesso proverà nel Getzemani di fronte alla sua morte imminente (cfr. Mt 26,38; Mc 14,34; Lc 22,44), dall'altra confermano una caratteristica propria del Dio di Israele che è lo stesso Dio che si rivela in lui: un amore capace di aprirsi all'uomo soffrendo per lui e con lui; un amore capace di ascoltare il grido del popolo oppresso dalla schiavitù e di decidere di agire in suo favore (cfr. Es 3,9-10); un amore che si mostra attraverso "viscere di misericordia" che rivelano il volto paterno, materno e amicale del Dio dell'Alleanza, un Dio che non è impassibile di fronte agli eventi della storia. Sottolinea Abraham Heschel in un suo noto saggio al riguardo: "Il Dio dei filosofi è come l'ananke greca, sconosciuto e indifferente all'uomo; […] il Dio d'Israele al contrario è un Dio che ama, è un Dio conosciuto dall'uomo, che si occupa dell'uomo. […] Non se ne sta fuori del raggio della sofferenza e del dolore umano. Egli è personalmente coinvolto, perfino influenzato dalla condotta e dal destino dell'uomo". Si tratta forse di un Dio per certi aspetti "debole"? Sicuramente di un Dio meno "inossidabile" rispetto agli schemi concettuali entro i quali molte correnti di pensiero lo hanno indebitamente costretto.
Le lacrime di Gesù di fronte alla tomba di Lazzaro e il suo turbamento nell'ora della prova sono il segno di una debolezza accolta e vissuta nell'orizzonte di una speranza: la fedeltà di Dio alle sue promesse, in nome della quale Gesù può gridare: "Lazzaro, vieni fuori!" (Gv 11,43). La salvezza passa attraverso la "compassione" e si attua nel segno di un amore capace di donarsi fino a dare la vita. La fede e la speranza in tale salvezza si radicano nella certezza che Dio cammina e soffre con l'umanità che ama.