UN DIO CHE NON SI LASCIA CATTURARE
di Elisabeth Green
(teologa)

Anno A - 14 aprile 2002 - III Domenica di Pasqua
(At 2,14.22-23; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35)

Se in ultima analisi lo sguardo nasconde il desiderio umano di impadronirsi dell'oggetto, penetrarlo con strumenti ottici sempre più sofisticati per distruggere ogni suo segreto, allora Dio, geloso della propria libertà (nonché della propria capacità visiva) rifugge lo sguardo umano. Non si vede Dio o Dio si nasconde davanti agli uomini. Immagini visive che rischiano di catturare, fissare e rendere stabili una o più delle molteplici sfaccettature del divino, vengono rigorosamente bandite da Israele. È difficile evitare la sensazione che Luca, stabilendo un nesso tra il vedere e il riconoscere, (gli occhi che vengono "afferrati" o "trattenuti" - v. 16 - da una parte, e "aperti" o "rilasciati" - v. 31- dall'altra), evochi qualcosa di questa tradizione. Il paradosso al centro del brano su cui verte tutto l'episodio è il seguente: il momento in cui i discepoli vedono Gesù e lo riconoscono, e in cui allora Gesù si sottrae al loro sguardo, facendosi invisibile: "Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma egli sparì davanti a loro" (v. 31). Spiegando l'enigma del suo parlare in parabole Gesù dice: "Per questo parlo loro in parabole, perché vedendo, non vedono; udendo, non odono e non comprendono" (Mt 13,13). Poiché Gesù stesso è la parabola di Dio allora non c'è da stupirci se i suoi seguaci, coloro che si erano lasciati contagiare dalla sua visione, coloro che avevano condiviso le sue speranze e le sue paure, coloro che giorno dopo giorno vedevano questo profeta potente in opere e parole davanti a Dio non lo avevano visto affatto. Perciò dopo la sentenza capitale e la sua esecuzione non rimaneva altro da fare (nonostante le parole delle donne) che lasciare Gerusalemme tristi, sconfitti, con il sogno di liberazione infranto. Avevano guardato la parabola divina con i loro occhi e non l'avevano visto perché il loro cuore si era fatto insensibile. È esattamente ciò che dice Gesù: "O insensati e lenti di cuore a credere alla parola dei profeti!" (v. 25). Che cosa dovevano vedere? "Che il Cristo doveva soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria" (v. 26). E se gli occhi non servivano, allora, come dovevano vederlo? Gesù la risposta ce l'ha: mediante quel passaparola che sono le scritture, parole che arrivano laddove lo sguardo fallisce, che svelano il senso profondo delle cose. Così, durante il cammino, in un movimento apparentemente non finalizzato, Gesù apre ai discepoli le scritture, le parole, i testi che poi, pian piano lungo la storia, avrebbero dato loro la capacità di vedere. Tuttavia a chi camminava sulla via di Emmaus gli occhi si aprono solo dopo aver visto Gesù sedersi a tavola, prendere il pane, benedirlo, spezzarlo, distribuirlo. Come non riconoscere in quel gesto così familiare, ripetuto in tante occasioni, il loro amico, compagno, maestro? "Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero". Ma un momento come questo, nel quale per un attimo sguardo e comprensione convergono, visione e comprensione si sovrappongono, non può durare, non può fermarsi né fissarsi. Il Risorto stesso si sottrae a tale eventualità: "Ma lui sparì dai loro occhi". È dunque semplicistico che proprio nello spezzare del pane, nell'eucarestia, le Chiese abbiano cercato di fermare, rendere visibile, garantirsi la presenza divina. Sottraendosi allo sguardo dei discepoli, Gesù non ci offre quella possibilità; non si lascia catturare né in gesti, né in immagini, né in parole. Diventando invisibile, spezza quell'unione fugace di fede e visione per lasciarci come i discepoli, con il cuore ardente, una parola da passare, una strada da proseguire.