NON VI LASCERÒ ORFANI
di Elisabeth Green*
* Teologa specializzata in teologia femminista.
Ha svolto un lavoro pastorale nelle chiese battiste del
Sud d'Italia; ora è libera docente in ambito ecumenico.
Pubblicazioni: "Dal silenzio della parola", "Teologia femminista
e Lacrime amare", "Il cristianesimo e la violenza contro
le donne", tutti editi dalla Claudiana (1992, 1998, 2000).
Anno A - 5 maggio 2002 - VI Domenica
di Pasqua
(At 8.8-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21)
Dal nostro testo traspare l'ansia
dei discepoli davanti all'imminente partenza di Gesù,
ansia che si dimostra nella preoccupazione circa la sua
destinazione, nella paura dell'abbandono, nel timore che
da ora in avanti dovranno cavarsela da soli camminando con
le proprie gambe. A questa ansia Gesù risponde promettendo
ai discepoli di non lasciarli orfani ma, anzi, di mandargli
un "altro Consolatore" che stia con loro per sempre, che
li prenda per mano, che li guidi. Letto così il cristianesimo
sembra meritare l'accusa di mantenere le persone in uno
stato di infantilismo, incapaci di liberarsi dal genitore
celeste per diventare persone capaci di decidere e di agire
da sé. Noi donne in modo particolare ci siamo trovate
a vivere qualcosa di questo dilemma. Trattate per secoli
come minorenni, con anni e anni di dipendenza psicologica
ed economica alle spalle, non è stato facile trovare
dentro di noi la propria "signoria", autonomia di pensiero,
azione e parola. Ogni volta il partire da sé diventa
una conquista. Giustamente, quindi, siamo state messe in
guardia contro un Dio genitore che ci tolga un'autonomia
ottenuta a caro prezzo (e con spargimento di sangue) e intacchi
la nostra libertà. D'altronde, però, non ci
siamo sentite soddisfatte di quella nozione del soggetto
forte "autofondato, autocentrato e autocosciente" (Cavarero)
la cui neutralità è stata smascherata come
maschile e la cui universalità si è rivelata
parziale. Abbiamo scoperto, già a partire dalla pratica
dell'autocoscienza, l'importanza delle relazioni nel diventare
e mantenerci soggetti femminili.
Sono proprio le relazioni a costituire il nucleo del discorso
di Gesù, il quale sembra non vuole rompere la relazione
con i discepoli e le discepole. Il testo narra, infatti,
di un doppio viaggio, quello che compirà Gesù
verso il Padre e quello che Gesù e il Padre compiranno
(presumibilmente nelle vesti dello Spirito) verso i discepoli.
Come Gesù va a preparare una dimora per i suoi "nella
casa del Padre", così tornerà col Padre ed
entrambi dimoreranno presso i discepoli o meglio presso
la persona che osserva i suoi comandamenti. Il comandamento,
lo sappiamo già, è quello dell'amore; chi
ama, quindi, sarà amato dal Padre, e si ama il Padre,
come la lettera di Giovanni renderà poi esplicito,
amando in un'azione circolare, la sua immagine e l'essere
umano.
Se seguiamo le intuizioni di teologhe come Elisabeth Moltmann
Wendel, il cui ultimo libro, "Dèstati, amica mia"
(Brescia, 2001), considera l'amore in termini di eros (definito
come il piacere negato alle donne e ora assunto come principio
del mondo), la proposta di Giovanni diventa affascinante.
Se "l'erotismo è il nostro intenso desiderio di comunione
reciproca" (p. 126), allora Dio sta creando nella forza
erotica dello Spirito una relazionalità reciproca
nella realtà umana, divina, e là dove le due
si intersecano: come Gesù è nel Padre e il
Padre è in Gesù, così noi siamo in
Gesù e Gesù è in noi.
L'economia immaginata da Giovanni sembra rispondere alle
esigenze delle donne di una soggettività costruita
in relazione. Difatti le bibliste mettono in risalto l'importanza
che giocano le figure femminili nel Vangelo di Giovanni,
il che potrebbe rispecchiare il rilievo che avevano le donne
nelle (ipotetiche) comunità giovannee. Il patriarcato,
però, non solo consiste in relazioni ordinate in
modo gerarchico (responsabili appunto dell'infantilismo)
ma anche nell'iscrizione nel sistema sesso/genere di tali
relazioni. Quindi, se è vero che il Vangelo di Giovanni
contribuisce a decostruire le relazioni gerarchiche offrendoci
un modello suggestivo di inter-relazionalità, lo
fa però in nome del Padre. Mentre il termine "padre"
viene usato per Dio solo 4 volte in Marco, e 42 volte in
Matteo, in Giovanni esso appare ben 109 volte. Non si può
nascondere il fatto che il Vangelo di Giovanni è
uno dei maggiori responsabili dell'esclusivo affermarsi
della figura di Dio padre nel cristianesimo. A quale conclusione
possiamo giungere, allora? Se, da un lato, il Vangelo di
Giovanni dà parole ad una relazionalità (in
terra come nei cieli) all'insegna della reciprocità,
sciogliendo all'interno del cristianesimo uno dei dilemmi
dell'ordine sociosimbolico maschile, dall'altro, nella sua
insistenza su Dio padre, esso lascia a chi considera morto
il patriarcato un altro problema da risolvere. E se fosse
stato meglio essere orfani di Padre?
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