L'EQUIVOCO DELL'"AB-NEGAZIONE"
di Lilia Sebastiani

Anno A - 23 giugno 2002 - XII Domenica del Tempo Ordinario
(Ger 20,10-13; Sal 68; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33)

Ancora sul tema del discepolato, ma questa volta accentuando gli aspetti più drammatici. L'evangelista scrive per una comunità che già sperimenta la persecuzione: se non ancora da parte dei pagani, da parte dei fratelli di fede ebraica, il che rende tutto ancor più difficile e lacerante. Ma anche Gesù, nel momento in cui si esprime in questa o in una simile forma, comincia a conoscere incomprensione e sorda ostilità.
Fin dal principio della sua vita pubblica, Gesù si mostra ai discepoli e a noi anche come l'uomo dell'urgenza: ha poco tempo e deve realizzare in questo tempo qualcosa che ha un'importanza essenziale e che non si può differire. I discepoli di solito non capiscono; e noi cristiani di oggi nemmeno, abituati alle lentezze della Chiesa. Prudenza pastorale o diffidenza del nuovo?
Sembra in rapporto con questo senso dell'urgenza presente in Gesù la grande concretezza che lo caratterizza, e che non si spiega del tutto con le caratteristiche della cultura in cui è inserito.
Se un israelita di allora si metteva al seguito di un maestro lo faceva certo perché convinto dal suo insegnamento, ma anche in vista di certi vantaggi, di ordine intellettuale, religioso e sociale. Il discepolo di un maestro famoso poteva aspirare a diventare un giorno un maestro altrettanto famoso, o anche più. Gesù non indulge in questi allettamenti terreni, ignora il criterio del successo e, quanto ai 'vantaggi' sperabili, fa capire a più riprese che i suoi seguaci devono aspettarsi oltraggi e persecuzioni, processi e morte.
Inoltre, differenza sottolineata più volte dagli evangelisti, Gesù insegna "come uno che ha autorità"; i maestri appoggiavano il loro insegnamento sull'autorità della Legge e i profeti sulla rivelazione ricevuta direttamente da Dio, ma Gesù parla a titolo personale. Accettare il suo messaggio è indistinguibile dall'aderire a lui come persona.
Quell'accenno al 'rinnegare' è duro e poco naturale nel contesto del ministero di Gesù nei primi tempi in Galilea. Ma l'evangelista - oltre a conoscere la realtà di una giovane Chiesa che non è composta solo di testimoni intrepidi - ricorda anche l'infelice prova di sé offerta da quasi tutti i discepoli (maschi) di Gesù in occasione del suo arresto e della sua morte.
Rinnegare comunque non è soltanto l'atto vile strappato da un momento di paura e di debolezza. Succederà anche a Pietro, lo sappiamo, e tuttavia non spezzerà il suo rapporto con Gesù; non impedirà a Pietro di crescere nell'intimo, di diventare un annunciatore e un punto di riferimento per l'intera comunità cristiana, infine di dare la vita per il vangelo. Il rinnegamento suona particolarmente grave perché è questa 'assenza di rapporti' accolta nella coscienza e proclamata con intenzione.
Gesù non è un uomo della Legge: è un uomo del rapporto. Quando chiama qualcuno, lo chiama a una condivisione più profonda del suo evento. L'appello cambia e risana tutta la vita del chiamato e realizza in terra la venuta del Regno; invece il peccato è essenzialmente 'assenza di rapporti'.
E questo spiega anche perché nel Primo e nel Secondo Testamento sia così ricorrente l'associazione del peccato con la morte: anche la morte, almeno dal punto di vista umano-terreno, è drammatica in quanto assenza, impossibilità di rapporti.
Gesù fa capire ai suoi discepoli che il bene e il male, la vita e la morte, sono ormai legate alla risposta che essi sapranno dare alla sua chiamata. Un appello così radicale non può non implicare una potenzialità di minaccia: ma è per una nostra deformazione mentale e per l'eredità di un cristianesimo malato e dolorista che si tende a leggere ogni tratto di radicalismo evangelico come una minaccia di dannazione. Il rischio in agguato non sembra quello di andare all'inferno, ma piuttosto quello di mancare tragicamente il bersaglio dell'esistenza: chi si tira indietro rispetto al nuovo del Regno ricade nella servitù degli schemi terreni.
La disponibilità totale che Gesù chiede ai suoi discepoli, forse non troppo diversamente oggi che nei giorni della sua vita terrena, si rende possibile per mezzo di quell'atteggiamento che i Vangeli, con un termine figurato denso di equivoci, chiamano morire a se stessi e che la tradizione cristiana chiamerà abnegazione, ma che è soprattutto libertà rispetto a schemi e sicurezze umane. Anche rispetto a se stessi; perché l'egocentrismo, il rifiuto di darsi, il rifiuto di rischiare si radicano soprattutto nel timore di perdere e di perdersi.
I discepoli e le discepole di Gesù, oggi come nei giorni della sua vita terrena, sono persone che amano la vita così profondamente da non accettare di renderla banale. Se talvolta si ritrovano, come Gesù, a dire a Dio: "Si faccia non la mia, ma la tua volontà", non è per rifiutare la propria vita, ma per avvalorarla; non per offrire sacrifici a una divinità incomprensibile assetata del sangue dei propri figli, ma per rendere testimonianza a un Dio solidale con gli esseri umani. Possono accettare anche di morire per gli altri, ma non per amore della morte. Non rifiutano la vita o la felicità, ma l'ipocrisia e il compromesso.